Diario di una giovinezza, quindicesima puntata

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FELICE BACCHIARELLO

Le tradotte dei reduci

L’esercito russo aveva rallentato la sua avanzata, però per evitare sorprese attardarsi qui sarebbe stato pericoloso perché era evidente che lo stesso, una volta riorganizzatosi, avrebbe avanzato nuovamente.
Funzionando ancora il servizio ferroviario al nostro arrivo per una giornata, furono caricati e trasportati in Polonia i feriti e i congelati, ivi arrivati su slitte.

Avendo avuto la ventura di essere tra gli ancora abili alla marcia, non potei essere caricato e rimasi a far parte di una colonna fornita di slitte e muli di circa 500 uomini, che di paese in paese, a marce regolari e ben nutriti, si portò nei pressi di Gomel, capitale della Russia bianca.
Così furono percorsi a piedi (sulle slitte non era possibile viaggiare causa il pericolo di congelamento e perché erano sovraccariche di viveri da consumare durante il viaggio) ancora 800 chilometri circa, arrivando, come sopraddetto, a Gomel dopo circa trenta giorni di viaggio. Visto il grande freddo e la scarsa possibilità di cambiarci, innumerevoli turbe di pidocchi furono sempre nostri compagni in tutte queste peregrinazioni al punto da rendere le parti più sensibili dell’epidermide coperte da una crosta formatasi per le morsicature degli sgraditi ospiti e per gli sfregamenti intesi a cacciarli.
Dopo una breve sosta fummo caricati in treno, 60 uomini in un vagone: poco importava, pur di essere caricati, perché si veniva in Italia.
Fu l’ultima tradotta italiana partita dalla Russia. Riattraversando Polonia, Cecoslovacchia, Germania e Austria, a fine marzo si fece scalo nel campo contumaciale di Osoppo, presso Udine, ove fummo trattenuti per quindici giorni, provvedendo allo spidocchiamento e a fare guarire le piaghe prodotte dai pidocchi stessi, onde evitare il pericolo di sviluppo del tanto temuto tifo petecchiale, così micidiale e capace di portare alla morte in meno di tre giorni.
Ciò fatto, con foglio di licenza alla mano, fummo inviati alle nostre case, ad attendere ciò che il destino ci serbava ancora. Grazie a Dio che così aveva disposto, anche questa, nonostante tutti i pericolosi rischi corsi, era passata liscia.

La solita folla che attendeva immancabilmente l’arrivo nelle stazioni delle tradotte dei reduci dalla Russia ci prendeva d’assalto ad ogni fermata per vedere se c’era un volto conosciuto, l’atteso, e ansiosa ne chiedeva a noi notizie se non lo trovava.
Così, ad ogni mamma, ogni sposa, ogni sorella che cercava il suo caro, si mentiva pietosamente, incoraggiando a sperare in ulteriori arrivi. Vana speranza, attesa illusoria che per molti e molti durerà per sempre.
In questo modo ebbe fine quella che fu la più triste odissea dell’esercito italiano, dell’Armir, l’avventura che tanto lutto ha apportato in migliaia di famiglie italiane, le quali ancora oggi vivono in una angosciosa e vana attesa e le cui conseguenze si ripercuoteranno per chissà quanto tempo ancora.

Dopo tanti rischi corsi, dopo tanti pericoli scampati, mercé la mano protettiva di Dio, a tutto potei far fronte ed anche a questa seconda fase della mia travagliata gioventù, senza meta, al capriccio di un destino avverso, fu coronata da un esito felice. Certo senza possibilità di rimedio ai begli anni perduti, ma allietato almeno dal ritorno, ero pronto al nuovo cimento che ancora mi fu serbato dal destino, al quale non è possibile sottrarsi.
Però quanto è raccontato brevemente è un nonnulla di fronte all’immensità del sacrificio, dalla massa e da ogni singolo compiuto, se si pensa cosa voglia significare mettersi in viaggio, inseguiti e ostacolati nella fuga stessa dal nemico, dai partigiani, in una terra sconosciuta, priva di ogni mezzo di comunicazione, senza viveri, mal equipaggiati, ad una temperatura inferiore talvolta ai 40 gradi di freddo. Senza quasi la possibilità di ripararsi in un ambiente caldo per un breve riposo, dormendo talvolta per poche ore in un pollaio, o in una caverna senza chiusure, talvolta in Kolchoz o baracconi semidistrutti, in mezzo alla corrente d’aria, trovandosi al risveglio (chi ancora aveva la ventura di aprire gli occhi alla luce di questo mondo) coperti di un nevischio filtrato colla tormenta dalle aperture, Pernottammo in cinque in uno sgabuzzino, ex pollaio, dalle dimensioni di circa 1,50 x 1,50 metri, senza fuoco, senza riparo dall’intemperie, non essendo più possibile entrare nelle isbe, nelle quali in ogni camera normale pernottavano anche 40 o 50 uomini appuntellati l’uno all’altro in piedi, non potendo coricarci (pur di stare al riparo), per poi proseguire dopo un po’ di siffatto riposo. Credevo di non più rivedere la luce del giorno! Eppure, quando si era sfiniti più di quanto le umane forze potessero sopportare, era giocoforza coricarsi in qualunque posto fosse capitato.
Chi non arrivava più in luogo abitato si stendeva supino sulla neve, nel bel mezzo della steppa, per non ridestarsi mai più. Durante i primi giorni, chi trovava uno accasciato in tal modo cercava istintivamente di rianimarlo, incitandolo a proseguire, ma in seguito assuefattosi alla continua vista di casi simili e peggiori, non ci si badava più. Il nostro animo era diventato indifferente, intontito, si era inebetiti, di nulla ci si meravigliava più.

Pur essendo certo, purtroppo, di avere vissuto e visto certe vicende orribili, mi sembrano ora inverosimili e mi chiedo talvolta come sia stato possibile uscirne fuori. Chi, munito di buon spirito di immaginazione, con questo si porti sul luogo e nelle condizioni di chi effettivamente vi abbia vissuto, cerchi di avvicinarsi un tantino alla realtà immedesimandosi nel sogno più avventuroso, pur rimanendo enormemente lontano dal vero mi saprà, poi, dire qualcosa. Ma certo la più fertile mente non potrebbe mettere al vivo, in una descrizione esatta, la miseria vissuta da quelli che la sventura portò errabondi nella steppa russa.
Chi rievocasse alla sua mente la descrizione fatta dal Manzoni dei segregati nel lazzaretto, ingrandendo la scena ad una massa enorme, vagante anziché nel lazzaretto in una immensa pianura biancheggiante di gelida neve, vedrebbe che, come ai lebbrosi pendevano le carni a brandelli, rose dalla peste, così qui le membra erano in cancrena, in preda allo sfacelo: mani annerite, putrefatte dalla cancrena soprav
nella sala di lettura “Alessandro Gioda” presso la Sede Sociale, sita in p.zza Ellero n° 45, si riunirà il Consiglio Direttivo di cui Ella fa parte per discutere e deliberare sul seguente ordine del giorno: venuta al congelamento, lasciavano staccare dalle falangi le carni a brandelli. Nasi in putrefazione, neri, colore della materia o sangue coagulato, labbra che ormai non c’erano più a coprire le gengive.
A molti poveri disgraziati bastava tirare un po’ la pelle dei piedi perché ne venisse magari fino al ginocchio una striscia, nera, con carne in putrefazione (lo stesso come quando si tira la corteccia di un palo) provocando un irresistibile tanfo.
E tutto questo su uomini vivi, giovani, pieni di speranza nella vita! A quali punti erano ridotti! Beate quelle mamme le quali, nel dolore della perdita del loro figlio, non sanno almeno a quali spasimi sia stato sottoposto prima di spirare l’anima al Creatore. Molti immaginano il caduto in guerra morto per il più semplice e spedito mezzo, fulminato da una raffica: invece la maggioranza morì per ben più atroci morti, le più impensate e tremende.
Abbiamo tutti un destino segnato, ma è pur certo che per evitare, per sfuggire ad una simile sorte, lo sforzo, il sacrificio hanno superato le stesse forze umane. Di fronte a certe situazioni si compiono talora inconsciamente prodigi di volontà tali di cui non ci si può rendere nemmeno conto.

(Continua)

Nella foto: ritirata ARMIR (Wikipedia).

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