Da tutto si impara

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EVA MAIO

Introduzione

Che da tutto s’impara magari ci si arriva tardi.
Ci si può arrivare piano piano.
O per folgorazione.
E poi solo a tratti si vive davvero questo imparare da tutto, dal quotidiano.
A tratti disponiamo dell’attenzione che richiede.

Che da tutto s’impara cosa, poi ?
Vorrei imparare che in nulla sono “imparata”.
Pensarlo davvero. Nel fondo.
Fare un tutt’uno con quel “in nulla sono imparata” e cogliermi che mi vado facendo.
Mi vado facendo fino all’ultimo respiro.
E non sono mai conclusa.
E da quell’ultimo respiro ancora ci sarà qualcosa da imparare.

E da tutto s’impara

Molti ricordi s’impongono.
Nitidi o sfumati.
A volte atmosfere soltanto.
Alcuni hanno bussato mormorando
Dai, accorgiti un po’
che da tutto s’impara.

Da tutto ciò che ci attraversa
Ciò che ci attraversa
è la vita e la vita
s’impara traversandola.
Perfino da ciò che va
di traverso s’impara.

Anche dai guizzi di luce.
Da quello che scivola
oltre i finestrini del treno
quando i tuoi saluti sembrano vani.
E dai frastuoni.
E dai silenzi.

Dunque i ricordi.
Ma anche le nuvole la muffa
le cose i colori le crepe
racimolano saggezze:
- Dal tuo versante più dolce
guardale e impara. -

E da un profumo impari

Me lo ricordo il profumo di bucato
quello di Emilia la nonna lavandaia
intrepida elegante popolana
dagli occhi di brace
un po’ sognante quando si spalmava
diadermina.
E da un profumo
impari
la pulizia quell’onesto lavare a fondo
pensieri gesti e le cose
così l’attorno povero si fa bello
vivo lucente.

Me lo ricordo il profumo di polenta
lardo e poca carne e il tovagliolo azzurro
attorno al piatto da portare a Lucia
che suo padre di vino gramo ne beveva troppo
e di lavoro niente
e di mangiare poco.
E da un profumo
impari
che chi è nessuno per molti
occorre che ti stia a cuore
e nell’intenerirti si fa chiara
e solenne la verità che siamo uguali.

Me lo ricordo l’odore del lucido da scarpe
che la stanchezza va portata
a passeggio con gusto
e i piedi stanchi non perdono la voglia
di ballare in pelle lucente.
E da un odore
impari
piano piano che l’accordare
lavoro e leggerezza
fa bene al tutto che siamo
fragili e forti insieme
impregnati di fatica e luce.

Me lo ricordo l’aroma di caffè
suocera e nuora berlo insieme
e quel guardarsi quelle atmosfere
afferrabili un attimo soltanto
ma che s’incuneano
nel dna del tuo sentire.
E da quell’aroma
impari
il sederti il fermarti con l’altro di fronte
quel far circolare preghiere silenziose
da te a me da me a te
e a sorseggiare vita.

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Me lo ricordo il blu di Prussia

Me lo ricordo il blu di Prussia
nei vetrini della ringhiera
su per la scala che portava alle camere
in casa di nonna.

Me lo ricordo il blu di Prussia
dell’inchiostro in una stilografica
a stantuffo troppo grande per le mie dita
in prima elementare.

Me lo ricordo il blu di Prussia
dei quadretti del vestito di Bruna
la compagna di giochi fino ai sette anni
poi volata in Sardegna.

Me lo ricordo il blu di Prussia
delle righe di una cravatta
sulla camicia aviatore
di mio padre giovane e bello.

E così dal blu di Prussia
agli altri blu
a tutti i blu
che tutti i blu ci stanno davanti
e alcuni respirano dentro.

Che tutti i blu ci dicono calma
e alcuni scivolano di mano
vanno in iridi lucenti
nel transito ci acquietano
si fanno brezza.

Che tutti i blu ci convocano
in cielo in mare
in pietre raccolte
e alcuni reclamano il rosso
o il bianco al loro fianco.

Che tutti i blu sono oltre le soglie
e camminano piano
sono un po’ luce un po’ notte
un po’ onde un po’ vento
un po’ tutto.

Che tutti i blu sono un invito
all’ampio respiro
a un dilagare quieto
e l’alto e il largo
senza confini certi.

Che i tanti blu
si fanno culla
di quello che c’è
del tutto che c’è
e noi lo vediamo.

Che tutti i blu sono dimora
e anche lontananza
e qualche blu si sbianca
e accoglie l’oro il rosa
per fare alba. Per noi.

Che tutti i blu ci fanno andare
e tornare e ancora andare
e qualche blu
nel ritorno
ci apre gli occhi.

Che tutti i blu ci parlano
ci dicono d’invisibile
e qualche blu s’incunea
in cose di poco conto
e ce ne fa sentire l’eco.

Che dal blu s’impara
ci si riposa ed anche si ama.

Me lo ricordo il ciliegio

Me lo ricordo
il ciliegio che si faceva largo
nel giardino:
sotto le ortensie
a lato quattro file di pomodori
dopo l’insalata
le pozzanghere
le gabbie dei conigli.

Stava fermo
ma cresceva
abitava quel giardino
ma poteva vedere oltre
e profumava.
Che da fermo
crescesse ancora
era un mistero.

Profumava un dolce
appena accennato
al tempo dei fiori bianchi
profumava un dolce
vivo e rosso
al tempo delle ciliegie.
Io di borotalco
solo dopo il bagno.

Mi dicevano
che era vecchio e ancora generoso
con ampie ondose braccia
e respirava col vento.
Senza quei soffi
non capivo proprio come facesse.
Ma di vento ce n’era
un po’ ogni giorno, per fortuna.

A me sembrava giovane
specie in primavera
e con un cuore
fuori
non dentro
ma tra foglie fiori
ombre raggi di sole
gocce e coccinelle.

Se lo guardavo
dal balcone della stanza
gli sussurravo un saluto
che lo mandasse a Bruna
in Sardegna
che lui vedeva oltre.
A casa il telefono
non c’era ancora.

E quando il cielo
diventava latte
e una tortora felice
faceva l’altalena
anche a lei dicevo
di volare oltre il mare
che l’amica dei giochi
aspettava il mio ciao.

E da un ciliegio
s’impara
a guardare oltre
vedere pezzi di cielo
immaginare pezzi di mare
consegnare un saluto
sentire la mescolanza
di presenze e assenze.

E che il cuore è dentro e fuori.
E che il vento è dentro e fuori.
Che giovane e vecchio sono parole
e la vita è avanti le parole.
Che i profumi permangono
non si sa come
e smuovono sinapsi
quando meno l’aspetti.

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E dalle nuvole impari

Me li ricordo
i pomeriggi vuoti
quando gli amici sono al mare
e tu su un pezzo di prato
tra le case
a guardare le nuvole.

A guardare in su
che passano belle
quasi camminano le nubi
e non le chiami ancora
idrometeore
e non sai classificarle.

Sai
che sono belle solenni
ridenti pannose
e col vento scorrono
come scene di un film
su pellicola azzurra.

Le bevevo cogli occhi
che toccarle
non si può
e a guardarle pensavo.
Le nubi davano
anche da pensare

che tutto scorre
che scorre scorre ed io
lì sotto non le posso fermare
che tutto cambia cambia cambia
ed io chissà e come
e perché mai

che tutto passa
e mamma e papà anche
e le nonne e i passeri.
No, tutto a correre via.
Perché mai
non poter fermare il tempo.

E quelli
erano pensieri solenni
perché i bambini
pensano pensieri solenni
sotto le nuvole solenni
nei pomeriggi vuoti.

Non proferivo
la parola pesante
dura
eppure scorreva
nell’infanzia
l’intuito del morire.

Bastava poco
bastava che l’erba
stuzzicasse un braccio
o una chiocciola il naso
che i pensieri
diventavano acquerelli.

Non erano più pensieri
erano voli
a catturare forme
piccole storie
dalle nuvole
che facevano capriole.

Non erano neppure più
parole vere
erano invenzioni
canticchiare insensato
cantilene di suoni:
mania rimasta se guido e sono sola.

E così s’impara
che filosofare si può
ma stanca anche
che inventare forme è meglio
e immaginare storie
ancor di più.

Se poi canticchi nonsense
ti alzi
e fai merenda
con pane burro zucchero
sfarinato sopra
scorrono via i pensieri pesanti
e la vita si fa azzurra.

E dopo un po’
vieni a sapere
che la pellicola è anche dentro
che ha tanti colori
a volte trasparenze
ha dissolvenze e scorre
scorre vivendo.

È dalle nubi che l’hai imparato.

E dalle cose impari

Le cose di sempre
se ne stanno lì ferme
dove le hai posate
vorrebbero mostrare
che un’anima ce l’hanno.

Hanno memoria
delle molecole di prima
e poi di quelle piegate limate
assemblate ad altre
adattate all’uso.

Hanno memoria
delle vibrazioni
per le prese gli sfioramenti
i trasporti.
Memoria dei tempi dei ritmi.

Di quella stanza
di quella casa
di quei passi
di quei rumori
custodiscono timbri e atmosfere.

Devotamente immote
attente
mai che si neghino
alle mani agli occhi
alla polvere all’aria del posto.

Avvistano silenti
i nostri cambi d’umore
di stile di voce di scena
senza giudizio
senza paura.

Solo a poco a poco
nelle ordinarie fatiche
impariamo a toccare
l’anima delle cose
il loro essere scrigno.

Solo a tratti
ci lasciamo rapire
dai segreti che le mani sfiorano
che i passi incontrano
lì in quegli spazi noti.

Lì in quegli spazi noti
nulla sarebbe banale
se ci svegliassimo
il mattino
con occhi grati.

Lì dove tutto ha un po’
il nostro odore
nulla sarebbe scarto
se da un punto di noi
si srotolasse un grazie.

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Dai “grazie” imparare il congedo

Che lo so,
sono viva
quando oso dire un grazie
e un po’ felice
di respirare in coro
in un tutto che non afferro
neppure a volte comprendo
che troppo dolore imbarca
quel tutto
così un grazie
si fa tenero lemma al mistero.

Che lo so,
rintracciarmi in un grazie
mi da aria e un po’ di luce
che da antichi tessuti
leggeri vibranti
parte quel grazie
ed hanno le mie dita
un bel cercare
il luogo di tessitura
è atavico sprofondato
in terre sconosciute.

Che è vero,
posare un grazie
sugli occhi altrui
forse è un bacio leggero
alla sua vita
di quel giorno
che quel giorno s’accorga
che c’è
che i suoi gesti sono gemme
e riprenda
a masticar contentezza.

Che infine a congedarmi
con un grazie
richiederà silenzi
sintonie di sguardi
affetti infiniti
rispetto infinito
di tutto
di tutto
di tutto ciò che palpita trema geme bisbiglia.
Che a congedarmi con un grazie
vado imparando .

(Le foto “Nuvole” sono di Bruna Bonino)