STEFANO CASARINO
La maggior parte di coloro che trascorsero l’infanzia e la prima adolescenza durante i tremendi anni della Seconda Guerra Mondiale non ebbe in Italia la possibilità di svolgere un regolare corso di studi: la frequenza scolastica era impedita dalla dilagante miseria, dai bombardamenti, dagli sfollamenti, ecc…
Per questo essi dimostrarono rispetto e ammirazione per chi aveva un titolo di studio e considerarono assolutamente importante dotare i loro figli di quell’istruzione a loro negata. Per una trentina e più di anni tali convincimenti restarono saldi: a scuola l’insegnante aveva sempre ragione e più era severo ed esigente più godeva di prestigio; chi sapeva parlare in pubblico dimostrava di aver fatto ottimi studi e godeva di indiscusso prestigio; chi, invece, non era andato oltre il leggere e scrivere in modo più o meno corretto non s’azzardava a prendere la parola e dichiarava la propria ignoranza e la propria incompetenza a trattare argomenti complessi. Uno dei modi peggiori di “perdere la faccia”, di sentirsi screditati, quasi disonorati, era quello di commettere davanti ad altri qualche svarione espressivo o di prendere qualche madornale cantonata su banali conoscenze.
Furono questi convincimenti, unanimemente avvertiti, a rendere la scuola quell’“ascensore sociale” che oggi proprio non è più.
Oggi - a dire il vero già da un bel po’di tempo - abbiamo ben diverse opinioni: i titoli di studio sono inflazionati e non sempre rappresentano una conquista personale ottenuta a prezzo di fatiche e sacrifici; un diploma (anche, molto spesso, una laurea) non si nega a nessuno (il “successo formativo” è garantito a tutti), e comunque anche di ciò si può benissimo fare a meno, non serve certo a fare carriera (politica, anzitutto); la cultura generale, venerata in un recente passato, è considerata inutile, obsoleta, perché ci basta e avanza l’informatica: con un PC o un tablet o uno smartphone ci sentiamo tutti preparatissimi.
Conseguentemente, a scuola “Insegnare” e “imparare” sono diventati soltanto due aspetti, neppure i più importanti, dell’attività relazionale-didattica e più che “conoscere” conta “saper fare”: è in auge la didattica per competenze, è al bando la memorizzazione di nozioni ritenute un tempo fondamentali.
Così può tranquillamente avvenire di dover ascoltare senza battere ciglio in recenti colloqui di Esami di Stato qualche finezza espressiva del genere: “se gli viene circolata la corrente”; “avevano paura che la situazione degenerò”; “deve sopravvivere ad enigmi” e fermiamoci qui, per passare invece alla storia.
Constatato il buio assoluto sulla Resistenza (evidentemente un fenomeno di scarsa importanza per la storia del nostro Paese) da parte di moltissimi studenti, non si può certo pretendere che sappiano chi fosse Matteotti (“Carneade, chi era costui?”) e che fine abbia fatto Mussolini (all’esplicita domanda del commissario, la risposta è stata: “in che senso?”), né cosa sia successo l’8 settembre 1943, ma si possono sentire delle autentiche rivelazioni, come quella che nella seconda guerra mondiale gli Alpini italiani tornarono dalla Russia via mare.
Non va meglio per la povera letteratura italiana, con affermazioni a dir poco brachilogiche (“In Verga l’ostrica è il contadino siciliano”), con qualche veniale confusione (“Pascoli entrò in depressione perché in poco tempo perse moglie e figli”; “Montale è originario di Catania”; “di D’Annunzio ricordo la poetica del fanciullino”) e anche qui fermiamoci.
Tutto questo apparirà a chi legge certamente frutto di eccessiva pedanteria da parte di chi scrive, ancora troppo legato ad una visione angusta, provinciale del sapere. Apriamoci invece all’inglese, la lingua più conosciuta (?) e parlata dai nostri giovani, e beiamoci di questo minidialogo: “Do you play in a team?” (domanda del Commissario di Inglese), “No, Vodafone” (risposta del candidato) oppure di questa simultanea traduzione: “cheese = cibo”.
Stiamo parlando di giovani italiani tutti maggiorenni e tutti elettori (aspetto, questo, che a mio parere riveste l’importanza maggiore e che personalmente mi angoscia).
Stiamo parlando di cosa resta loro dopo aver percorso un regolare ciclo di studi, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria superiore.
Stiamo parlando, a ben vedere, del futuro di questo Paese, che si compiace persino del trionfo a tutti i livelli di questa pervasiva ignoranza: al mio racconto sconsolato di tali chicche, la reazione normale dei miei interlocutori è stata la risata, non l’indignazione.
Scrisse De Sanctis: Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio.