Diario di una giovinezza, sedicesima puntata

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FELICE BACCHIARELLO

8 settembre 1943

Scaduta la licenza in giugno, ognuno si presentò al proprio centro di mobilitazione. Mi presentai a Ceva, indi al centro mobilitazione del mio battaglione, in Cairo Montenotte, ove mi fu consegnato il corredo completo come ad una recluta, in quanto è superfluo dire che dalla Russia si era arrivati con i soli stracci indossati, dei quali ancora fummo totalmente spogliati al campo contumaciale.
Dal centro fui inviato alla sede del reggimento in Mondovì, nella caserma Galliano, ove rimasi qualche settimana. Di qui fui trasferito al battaglione Ceva, di stanza nella città omonima. Istituito un corso “anticarro” presso il comando della IV armata in Albenga, toccò a me la frequenza in rappresentanza dei sottufficiali del battaglione al corso che si svolgeva alle casermette di quella città.
Pur controvoglia dovetti assoggettarmi ad una disciplina che non si addiceva alle condizioni fisico-morali del momento, e fu per me un mese veramente pesante, di sacrificio, in quanto l’istruzione si svolgeva per parecchie ore in località distanti dalle caserme, con manovre con carri armati e cannoni anticarro.
Quanto riusciva buffa quell’istruzione impartita da istruttori che i carri armati non avevano mai visto nella lotta reale!
Villanova, Cisano, Ceriale ed altre località erano le mete delle nostre esercitazioni quotidiane. La notte, poi, spesso ci toccava passarla fuori dalle caserme, sul greto del torrente Neva, causa i frequenti allarmi aerei.

Qui ci accolse il famoso avvento della caduta del Duce, il 25 luglio 1943, ed allora, causa la minacciosa situazione politica creatasi, fu un susseguirsi di servizi di picchetto armato che ci toccò fare in giro per la città di Albenga, per giorni e notti consecutive. In tal modo la mia villeggiatura al mare fu poco sollazzante, anzi un sacrificio dal principio alla fine.
Ultimato il corso rientrai in Ceva, ove non trovai più il battaglione, il quale erasi trasferito al Brennero, sempre causa i recenti avvenimenti. La precauzione non era fuori posto, ma purtroppo fu inutile.
Fui inviato a raggiungerlo nei giorni successivi. Passando per Torino, Milano, Verona, Brescia, costeggiando l’incantevole Lago di Garda, che da Brescia si stende fino a Trento, giunsi a Bolzano, indi a Gardano, ove trovai accampato il mio reparto.
Lungo l’impetuoso e scrosciante fiume Isarco si svolse, durante il mese di agosto, la nostra normale istruzione di reparto. Era una situazione per cui non si vedeva chiaro, specialmente per il fatto che si facevano costruire le postazioni per le nostre armi sulla strada Nazionale del Brennero, sulla quale aveva libero transito “l’alleato tedesco”. la valle, sino al Brennero, era affollata di truppe; tutta l’armata alpina era ivi dislocata. A più riprese si facevano marce su per le alte montagne circostanti, godendo visioni di panorami veramente stupendi ed estasianti.

Chi a quelle altezze non rimarrebbe estasiato alla vista del bellissimo lago di Carezza, visione che ricompensa la fatica della lunga ascesa per giungervi? I riflessi più incantevoli sono riprodotti dalle acque del lago, che accoglie l’ammirazione di tutti coloro cui è possibile accedervi. Con rimpianto ci si allontana. Quante bellezze racchiudono in sé le nostre montagne, bellezze che purtroppo molti non conoscono. Visioni dinnanzi alle quali non si può non magnificare l’opera del Creatore, sentendosi innalzati nello spirito più assai di quanto lo sia materialmente. Una magnifica catena di alte montagne rocciose, specchianti le loro cime aguzze nelle acque, fa corona e guardia al magnifico lago cui ascendono numerosi i gitanti, come pellegrini ad un santuario. Chi può negare che talvolta sia più proficua all’anima una simile visione che non la visita ad un pur bel Santuario? Le bellezze naturali non manipolate dall’uomo elevano lo spirito involontariamente, anche il più scettico, al loro e nostro Creatore.

Inferiori al famoso lago, ma pur bellissimi, ebbi occasione di vedere altri luoghi come Coll’Albo, amena località lussuosa di villeggiatura, sita su un colle al quale si accede per mezzo di una lunga e ripida funicolare, dalla città di Bolzano. E come questa, molte altre località, bellissime e invitanti, in quelle montagne, alle maestosità delle quali contrasta in modo veramente stridente la bieca, infida e crudele popolazione, che in nulla differisce dalla razza tedesca, dalla quale proviene. Contrasto desolante!

Frattanto gli eventi maturavano, i tedeschi stavano giocando la loro carta con l’Italia e non dormivano, maturando i loro progetti sanguinari, per attuarli al momento opportuno.
In quella località ci colse l’infausto evento dell’8 settembre 1943, data dalla quale il destino, come non pago ancora del triste passato, ci doveva condurre ad una schiavitù degradante, umiliante quanto più perché impostaci dall’alleato di ieri, alleato sgradito in quanto non era concepibile che quel popolo che sempre era stato nemico dei nostri padri potesse oggi simpatizzare con i figli.
Comunicata a mezzo radio la capitolazione dell’Italia, le cui truppe erano comandate da uomini tra loro discordi, anziché uniti e compatti nella decisiva lotta per cacciare dalla nostra terra l’invasore prepotente, fu facile la disorganizzazione, della quale approfittò l’esercito tedesco in agguato, come il gatto in attesa della sua preda.
Così, privi di comandi, sbandati, odiati dalla popolazione del luogo che all’odio nutrito e covato per lungo tempo in cuore verso di noi opponeva altrettanta simpatia per il Tedesco, ci trovammo come pulcini abbandonati dalla chioccia, in terra, vorrei dire, quasi straniera, con ogni via di scampo bloccata dalle truppe tedesche ed insidiati nel tentativo di fuga attraverso i monti dall’opera oppositrice della popolazione locale, i cui uomini avevano immediatamente impugnato le armi a fianco dei Tedeschi e contro di noi.

Appressandosi i Tedeschi intimanti la resa, vi fu un “si salvi chi può” generale preceduto dall’esempio di molti ufficiali, i quali pur privi di ordini avrebbero potuto salvare il salvabile, anziché spinti dall’egoismo cercare una via di scampo isolatamente, abbandonando il soldato in balia della tempesta proprio nel momento in cui questi avrebbe avuto maggiore necessità di appoggio.
Rimasto in una posizione isolata, con pochi uomini, fui tra gli ultimi ad abbandonare la località, con il rischio di essere catturato dai Tedeschi, che sparavano all’impazzata sui fuggitivi che cercavano di raggiungere i monti.
Radunati pochi effetti indispensabili nello zaino, presi anch’io la strada della montagna, alle cui falde era l’accampamento., insieme ai pochi soldati attardatisi con me. Tutto fu abbandonato sul campo, persino i muli con i loro carichi e le armi. Strada facendo altri uomini si aggiunsero al mio gruppetto e così si proseguì fino all’altezza di Coll’Albo, guardati con sorrisi di scherno ed intima soddisfazione dalla popolazione indigena, cosa che per il momento poco a noi importava, preoccupandoci ben altro più assillante pensiero.

Furono senza paragone più umani ed ospitali con noi nella sventura i “barbari ed incivili russi”, i quali avrebbero avuto ben ragione di odiarci. Questi figli della razza maledetta, invece, che tutti i benefici avevano ottenuti dall’Italia, godendo di tutte le sue attenzioni, ci avrebbero persino impedito di bere l’acqua zampillante dalle loro fonti.
Il mio scopo era quello di arrivare attraverso i monti della Valtellina, in quel di Sondrio, od in caso ciò non fosse stato possibile puntare sul passo dello Stelvio e passare in Svizzera.

(Continua)

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