FRANCA ALAIMO
La scrittura poetica di Gabriella Mongardi, limpida ed essenziale, evita le fascinazioni e le ambiguità dell’intellettualismo, e, nel preferire sempre la schiettezza dell’ispirazione, rivela la sua fedeltà ad un’ormai lunga frequentazione degli autori della classicità.
Adottando un tono per lo più colloquiale, l’autrice cerca un dialogo diretto e affettivo con il lettore, il quale viene chiamato in causa nel testo Congedo come destinatario delle parole d’amore che intessono i versi della silloge Nella stanza segreta.
Quest’ultima si incentra sulla questione del tempo e della sua durata in una perenne oscillazione fra la brevità e la fragilità della vita umana, da una parte, e l’eternità del ciclo delle stagioni e la solidità di certe creature inanimate, come le montagne, dall’altra parte. La montagna, che costituisce un riferimento costante all’interno dell’intelaiatura versificatoria, è allo stesso tempo una concreta presenza familiare a cui l’autrice è abituata sin dalla sua infanzia (Nei passi con cui salgo il Mondolé/ camminano mio nonno/ e mio padre/ e tutti quelli che negli anni/ m’hanno insegnato/ ad amare le montagne), la meta favorita di lunghe passeggiate, tra strapiombi, sentieri, forre, silenzi, profumi; la sorgente di distacchi contemplativi, e, infine, una figura che si innesta simbolicamente in un discorso assai più ampio, che coinvolge la visione della vita e perfino la propria vocazione, fin da bambina, all’arte della poesia e la sua stessa funzione, che è ricerca di bellezza e capacità di insegnare il volo e il canto/ a corpi gravi e di risplendere nello sfibrato sfacelo delle vite.
È proprio la montagna, come prima si diceva, a simboleggiare l’archetipo dell’eternità (sia pure all’interno di una futura finitudine del pianeta-terra) che viene confrontata con la fugacità dell’esperienza biografica individuale.
Di fatto, il pensiero della morte più volte introduce una nota d’angoscia nella dominante compostezza del tessuto verbale, la qual cosa rivela un’interiorità assai più inquieta di quel che sembrerebbe di primo acchito; e ad una lettura più profonda si finisce con il comprendere fino a che punto la dimensione interiore investa pressoché ogni oggetto e paesaggio perfino in quei testi più apparentemente oggettivi.
È, in questo senso, esemplare il testo Oblio, in cui perfino le impassibili montagne, divenute correlativi oggettivi di uno stato psichico dell’autrice, cedono alla stanchezza e vengono soccorse dalle nuvole che le abbracciano/ sprimacciano cuscini e li dispongono/ a corona, a cascata, affinché quelle possano finalmente abbandonare su di esse le cime.
Si assiste così, ad un’inaspettata, tenera trasfigurazione, che conferma l’attitudine della Mongardi alla visionarietà, che, di fatto, qua e là interrompe la nettezza realistica delle immagini.
Per tornare alla questione tempo, bisogna anche aggiungere, e non è nemmeno così tanto sotteso, il desiderio di oltrepassamento del proprio destino terreno: esso è nello slancio nel cielo dei pioppi, nel mistero che abita e agita il cuore, nell’aspirazione all’armonia, e, soprattutto, nella parola poetica stessa; poiché dal mondo interiore della poetessa sembra lontana ogni certezza metafisica e ogni dimensione teologica.