“C’è sempre qualcosa di aperto”: la poesia sapienziale di Franca Alaimo

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GABRIELLA MONGARDI
«Questo è un poeta, colui che / distilla un senso straordinario / da ordinari significati / e noi ci stupiamo di non essere stati noi a pensarlo, prima».
Questa impareggiabile “definizione” di poeta data da Emily Dickinson mi è venuta in mente leggendo l’ultima raccolta di Franca Alaimo, Elogi, Ladolfi editore 2018: perché i versi e le immagini della Alaimo suonano così naturali che la poesia sembra scaturire dalla vita stessa, dalle cose stesse, spontaneamente, come un tesoro che tutti possono riconoscere e raccogliere. E invece non è così: non per niente gli esseri umani, in stragrande maggioranza, vivono la loro vita nella cecità e nell’indifferenza di fronte al miracolo dell’Essere e dell’Esser-ci, e si abbruttiscono o si tormentano inutilmente; non per niente esistono i poeti, capaci di sussumere il peso del negativo e restituircelo alleggerito, trasfigurato, trasceso.

È quanto riesce perfettamente a Franca Alaimo nei suoi quadripartiti Elogi – “Elogio del niente”, “Elogio del tutto”, “Elogio del tempo”, “Elogio dell’amore”, che fin dal titolo indicano un atteggiamento positivo, di accettazione e accoglienza, di fronte al mondo, e rimandano alle Laudes creaturarum di S. Francesco: a fugare ogni dubbio, troviamo addirittura un Elogio di sorella morte, francescano al massimo. Ma anche se Dio è chiamato più volte in causa, il libro non ha intenti religiosi: la poetessa anzi elogia la precarietà delle cose perché, anche se tutto muore, è pur sempre un miracolo che ci sia stato, e non riesce nemmeno a immaginare un Paradiso (Ma com’è il Paradiso?), tanto è forte il suo amore per la vita sulla terra…

Il suo atteggiamento ricorda quello di Saba, per quel senso di fraternità universale di tutti gli esseri viventi, uomini e animali (Città vecchia, La capra, A mia moglie…). Ma mentre nel poeta triestino il punto di partenza della poesia era il distacco, il guardare la vita dal di fuori, la posizione dell’escluso, la poetessa palermitana scrive dal di dentro, secondo la fondamentale dicotomia maschile-femminile evidenziata da Antonio Melillo nella postfazione all’antologia poetica Il corpo, l’eros (Ladolfi editore, 2018): «Mentre la poesia maschile segna la rottura tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura, la poesia femminile si basa […] sull’alleanza tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura, sulla conciliazione e non sulla scissione».  Continua Melillo in quella postfazione: «La poesia al femminile tratta la “carne”», e qui ne troviamo una luminosa conferma: la dimensione corporea e sessuale del nostro essere al mondo è infatti un tema ricorrente nelle liriche, e non solo nella sezione dove sarebbe ovvio aspettarselo, “Elogio dell’amore” – ed è un tema cantato con delicatezza e concretezza, senz’ombra di autocompiacimento ma con profonda autenticità.
Questo grazie a una lingua poetica insieme trasparente e densissima, che si basa su una peculiare metaforicità, utilizzata non per violentare il lessico della lingua nei suoi significati abituali, “ordinari”, codificati dal vocabolario, ma per aprirlo senza sforzi e distorsioni a una significazione ulteriore, a un “senso stra-ordinario”, al di fuori delle convenzioni linguistiche ma non della realtà delle cose, che anzi svela illuminando profondità altrimenti irraggiungibili. Oltre che alle metafore in senso stretto, la poetessa fa ricorso spessissimo a similitudini in cui perlopiù l’io lirico è assimilato all’animale (“come una minuscola bestiola”, “come un cane bastonato”, “come un agnellino ferito tra i rovi”, “come volpe presa alla tagliola”), a sottolineare la circolarità della Vita, il suo fluire e manifestarsi e ribollire in tutto l’universo e in tutti gli esseri che lo popolano, così mirabilmente cantato da Lucrezio nel proemio del suo De rerum natura – ma qui  è innanzitutto una questione di linguaggio, perché « il linguaggio delle piante, / degli angeli e degli animali è quello dell’Uno», e la poesia dell’Alaimo vuole fare suo quel linguaggio…
Viene in mente anche il Pascoli di Myricae, per la comune condizione di “orfanità”, per l’attenzione alle piccole cose della natura, per l’afflato cosmico (La dimensione del vuoto), ma dalla voce femminile della poetessa di Palermo è totalmente assente quella nota un po’ querula e lagnosa che offusca talora il dettato del poeta di Castelvecchio di Barga: “le piccole cose da nulla” ci permettono di scoprire «la leggerissima felicità del niente: / carta velina che palpita al vento».

Non siamo di fronte a una poesia idilliaca, tutta latte e miele, tutta sorrisi e carezze: l’elogio nasce dalla consapevolezza e dall’esperienza del male di vivere, nasce dall’accettazione del proprio destino e del suo frutto più alto, la poesia. Si leggano una dopo l’altra le liriche A porte spalancate e Destino: la prima una sorta di bilancio di un’esistenza saccheggiata dagli altri, da cui però sono nate “bellissime rose”; la seconda, un autoritratto come poeta che «inventa storie e favole», «percorre / mondi da un confine all’altro», stringe il tempo «come un bambino allegro, / che non sa invecchiare», «traghetta / parole come gioielli intorno al collo», ne fa «tanti mazzetti di fiori / che vivono cantando».

In questa silloge, che comprende testi scritti nell’arco di oltre vent’anni, Franca Alaimo racconta la nascita di una vocazione poetica e anche la sua vita e i suoi traumi, ma riesce a spogliarsi totalmente della sua individualità facendone dono al lettore (come Montale si augurava: «Potessi spiccarla da me, offrirvela in dono») e attingendo con grande naturalezza il piano dell’universale. Così dai suoi versi si svela a poco a poco il senso dello stare al mondo, che è sempre una sorta di miracolo, nonostante il dolore e il peso del negativo. Al di là del dolore, infatti, c’è la gioia della bellezza, c’è il canto della poesia, la vita, il sogno.

Il sogno e il sonno, la notte e gli altri suoi “abitanti” (la luna e le stelle) sono presenze costanti nei versi della Alaimo, a partire dalla lirica di apertura, Niente è una parola larga: «Tanto, tra breve, / il sonno inviterà a vedere / un altro film a occhi chiusi / senza altra ragione che dare suono e colore / al niente che si sogna fino ai titoli di coda». Il significato di queste presenze oscilla dal negativo al positivo: talora notte, sonno e sogni sono angosciosi emblemi di morte e dell’inconsistenza della vita, ma più spesso diventano simboli di quiete, serenità, creatività, come nella già citata Destino («Ho dei bagliori dentro / come se avessi mangiato il firmamento, / e  ogni sera due o tre stelle / fanno capolino dalle mie pupille») o in Operazioni matematiche («Che mi restino soltanto la poesia / e un amore grande come l’amore / buono come la luna / che più la divorano le notti dei millenni / più lievita e cresce come un pane tondo.»).

Alla base delle “operazioni matematiche” da cui scaturiscono le liriche della Alaimo c’è l’equivalenza: poesia = amore, amore per la vita e la sua magnificenza, nonostante tutto.

***

Il libro sarà presentato a Palermo presso la libreria Spazio Cultura-Macaione, via Marchese di Villabianca 102, sabato 17 novembre alle 17:30. Relatori i poeti Nicola Romano e Patrizia Sardisco. Qui sotto se ne propone un “assaggio”.

Operazioni matematiche

È una vita che addiziono insieme ai giorni
un numero incredibile di cose,
ed ho le spalle stanche,
la mente ingombra come un ripostiglio.
È ora di levare ‒ mi dico ‒ assottigliare,
lasciare finalmente questa stanza senz’aria
dove non so più volare.
Sì, è ora di gettare via tutti i rancori
quelli che mi hanno arrugginito il cuore,
e i pensieri stonati, i sentimenti storti.
Che mi restino soltanto la poesia
ed un amore grande come l’amore,
buono come la luna
che più la divorano le notti dei millenni
più lievita e cresce come un pane tondo.
Sarò una moltiplicazione
per tutti quelli che vorranno mangiarmi
sarò mille sorelle e mille amanti,
una galassia di stelle, un labirinto di gioia.
E quando resterà di me l’ultima briciola,
minuscola come l’impossibile,
la dividerò tra i passeri affamati.
Senza peso, finalmente, naufragherò
nel niente dove più non ci sono
il bene e il male e però
dallo spazio-tempo
vi giungeranno ancora
le onde gravitazionali del mio amore.

***

Benedetto sia il Tempo

Benedetto sia il tempo, padre-amico-amante,
che mi è rimasto devotamente accanto
anche nelle notti che mi seppellivano
anche nei giorni che troppo vacillavano.
Benedetto il tempo che mi ha cresciuta,
imboccandomi con cucchiaiate di dolore
e mi ha tenuta stretta anche quando
avrei voluto disperatamente andare.
Che mi ha cullata e avvolta
nelle bende della consolazione,
che mi ha usata fino alla consunzione,
fino a fare della mia pelle
una mappa di costellazioni,
una trama di trine, una lastra sottile
sui fiumi bluastri delle vene.
Quello che adesso mi sbiadisce i capelli
e mi stanca ed ammacca le ossa.
Benedetto il tempo
che segue ancora i miei passi
nel viaggio fantasioso e fecondo
della mia vita nella vita del mondo.
E più benedetto quello che verrà
ad insegnarmi l’ultimo commiato
per fare di sé, di me e di tutto il passato
l’effimero canto che si ripete.