L’ombra del borgo

F. Blandino, L'ombra del vento

F. Blandino, L’ombra del vento

GABRIELLA VERGARI
Le lacrimavano ancora gli occhi.
Ma era soddisfatta.
E in effetti i risultati parlavano chiaro: stavano proprio lì davanti, e tra poche ore nessuno, nel paese, avrebbe potuto ignorarli.
Certo, non era stato facile lavorare alle quattro di notte, quando il meridiano del polmone è al picco massimo e il corpo, quantomeno il suo, più rilassato.
Però era anche il frangente che le dava maggiori garanzie di sicurezza perché riduceva davvero al minimo le probabilità che qualche vicino si svegliasse e la sorprendesse all’opera.
Era ad esempio uno dei rari momenti in cui le finestre e il balcone della signorina Gina sembravano finalmente sordi, e soprattutto ciechi, ai richiami del mondo che così tanto la seducevano durante lo svolgimento della giornata.
E anche quello in cui il solertissimo chihuahua della vedova Zuccagni cedeva finalmente alle lusinghe di Morfeo, lasciandosi cullare dalle sue amorevoli braccia, senza addentarle come i polpacci del resto del vicinato, quando gli capitavano a tiro.
Un cane tanto piccolo quanto insopportabile, che abbaiava ad ogni piè sospinto come un satanasso e veniva viziato più dell’ultimo rampollo di chissà che nobile casata.
Quanto a Giuseppe, il custode dello stabile all’angolo, non avrebbe rappresentato un rischio nemmeno alle nove di sera. Alle quattro, si poteva tuttavia testimoniare che il suo meridiano polmonare funzionava a meraviglia, dato che lo si sarebbe sentito russare, dalla finestra aperta, anche a distanza di un isolato.
Sebbene interrotto da qualche risucchio fuori intervallo e sbarazzino, quel ronfio le aveva addirittura cadenzato il lavoro, ora strappandole qualche risatina divertita, ora tenendole buona, e in fondo non sgradita, compagnia nell’oscurità della strada.
Aveva scelto una notte, per dirla aulica, illune e operato come una Carbonara, al fiochissimo barlume della lampada ad acetilene, ottima per il buio pesto delle miniere, ma non altrettanto per il fulgore artistico di una creazione.
Per fortuna il tutorial seguito su facebook era riuscito a farle ovviare agli inconvenienti più grossolani e, se la silhouette che aveva realizzato sembrava frutto di un estro primordiale, più che di un fine cesello rinascimentale, non era in fondo un gran male.
Il nero su campo bianco e il bianco su campo nero facevano comunque il loro bell’effettaccio, sconfinando nell’optical con un urto drammatico, da colpo allo stomaco.
Ringraziò mentalmente Marco, il suo amico madonnaro per le dritte che, tra una trasferta e l’altra, le aveva elargito. Incredibile quanti festival e concorsi venissero dedicati a quest’arte impermanente, cui stavano perfino cominciando a dedicare dei musei.
Ora bisognava aspettare che il paese si svegliasse e si trovasse a fare i conti con quell’arcano.
Un uomo nero la cui sagoma si stagliava sulle pareti un po’ diroccate di quella che un tempo era stata la casa di Compar Contaparole, e una foglia bianca che, nel suo progetto iniziale, sarebbe dovuta essere di marijuana ma, grazie alla non agevole occasione in cui era stata realizzata, sembrava piuttosto di ippocastano.
Certo, valutò, una foglia di quercia avrebbe fatto meglio allo scopo. Facilissimo ricollegare le querce agli alberi cosmici e ritagliarci sopra una bella vicenda mitologica, opportunamente condita e confezionata.
Ma il caso aveva invece voluto che le fosse venuta una foglia di ippocastano, albero i cui frutti potevano fare impazzire i cavalli e venivano dall’India.
Uhm, a ben pensarci, se ne sarebbe potuta ricavare, anche così, una vicenda niente male.
Magari avesse avuto la fantasia del Compare, rimpianse, ma si consolò subito al pensiero che, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto far leva su quella, in genere piuttosto sbrigliata, dei suoi compaesani, tanto che sempre più spesso venivano addirittura da fuori per sentirli raccontare le storie del borgo.
C’era quella degli Amanti Traditi, trasformati nei due massi antropomorfi proprio al centro del bosco dove erano stati falciati senza pietà dal Conte Uccio di Becco (di nome e di fatto), e dell’uccellino azzurro che aveva fatto la spia, costretto nei secoli a volteggiare, senza posa, sopra di loro.
O anche quella della Fanciulla Impazzita, che si era lanciata dalla torre dove l’avevano rinchiusa per forzarla alle nozze con un signorotto tanto storpio quanto crudele, e il cui corpo non si era mai più ritrovato e si diceva vagasse, lamentandosi, nelle sere d’inverno, quando il vento soffiava più forte nel vallone pietroso.
Altri amavano invece quella del Cane a Due Teste che, benché fosse stato cacciato a colpi di scopa dalla moglie del contadino, cui era comparso all’improvviso di fronte, aveva poi salvato dall’annegamento i suoi due bambini scivolati nel fiume, prendendone uno per bocca e riportandoli a riva.
La sua preferita era però quella del Ragazzino dal Muso di Volpe, che trafugava le mele dei vicini e pungolava all’improvviso le mucche, facendole scartare dalla pastura con muggiti spaventati.
Chissà che avrebbero raccontato, di lì a un paio d’ore, quando avrebbero colto la provocazione di quei suoi disegni.
Che li ignorassero, non faceva manco il caso di pensarlo. Proprio impossibile.
Non lo avrebbe permesso e avrebbe anzi alimentato il fuoco, sollecitando i commenti, ponendo interrogativi e ipotizzando risposte.
Con discrezione, ovvio, per non destare sospetti, ma con determinazione.
Non aveva alcuna intenzione di lasciare che la sua fatica passasse inosservata o cadesse nell’indifferenza.
Come, quando, chi e soprattutto perché, questo avrebbero dovuto chiedersi, di lì a giorno fatto, così che la notizia potesse fare il giro in breve, colorarsi e ingrossarsi man mano, come una valanga, di parole, particolari e dettagli ad ogni nuovo passaggio, da una bocca ad un’altra, da una voce alla successiva.
Non aveva idea di cosa la sua vicina avrebbe raccontato alla sorella, né di quello che il primo passante avrebbe digitato su whatsapp, o di ciò che sarebbe potuto correre di invio in invio sugli altri social, ma era pronta a scommettere che se ne sarebbe potuto montare un caso.
E tanto le bastava.
Sarebbe stato sufficiente che quell’uomo nero – sulla foglia non si sentiva al momento di contare troppo – funzionasse da freno, da autentico deterrente, da quello che in fondo era, un’anticipazione di minaccia, un ammonimento chiaro, sul quale non nutrire dubbi, Attenti, che arrivo
Sarebbe stata per un po’ alle velette, aspettando che in paese ciascuno dicesse la sua, cavando chissà che da quell’enigma.
E meglio ancora che i due disegni non sembrassero particolarmente coerenti tra loro, rendeva più credibile l’insieme.
Quanto a lei, al momento più giusto avrebbe elargito la versione già ben architettata, di quella diceria, colta in famiglia e relativa ad un monaco negromante che aveva, tanto tempo prima, abitato in quella casa, e dei suoi terribili esperimenti di magia. Se necessario, ne avrebbe poi fatto anche il nome, sostenendo di averlo trovato in una ricerca d’archivio a Firenze, sulle vittime della locale Inquisizione.
Doveva funzionare.
Lo sperava proprio.
Da quando il sindaco e la giunta comunale avevano messo in vendita gli edifici abbandonati ad un euro, il borgo era tutto divenuto un proliferare di Bed &Breakfast, ristorantini e trattorie.
In alternativa, ospitava piccole ditte, impalcature, impastatrici di calcestruzzo e una profluvie di materiali edili di ogni tipo.
C’erano poi quelli del fai da te, trasformatisi da un giorno all’altro in mastri, fabbri, carpentieri, idraulici e ceramisti.
Altro che bricolage, quello era proprio divenuto un cantiere a cielo aperto.
E tutto stava assumendo nuovo volto e nuovo colore.
La chiamavano riqualificazione, benché a lei desse a volte la sensazione dello scempio.
Ma ne erano contenti in tanti e presto, del paese dei suoi padri e de suoi avi, non sarebbe rimasto che un guscio vuoto e qualche facciata protetta dalla Soprintendenza.
Poteva essere un bene o forse anche un male. Non sapeva ancora che dirne con certezza. Avrebbe valutato in seguito, che tanto era ormai cosa fatta.
Ma sulla casa di Compar Contaparole le mani non le avrebbero messe.
No e poi no: l’aveva giurato a se stessa, prima ancora che a sua nonna e alla sua gratitudine per tutti gli anni in cui quell’uomo l’aveva aiutata a mantenere i rapporti con i fratelli emigrati in Argentina.
Non sapeva né leggere né scrivere Assuntina, ma il cuore lo sapeva sentire, altroché.
E le distanze possono divenire amare come il fiele, soprattutto se di mezzo c’è l’oceano e una non sa nemmeno come sia fatto il mare vicino casa.
Compar Contaparole non si faceva pregare.
All’occorrenza si metteva lì, con il suo trabiccolo, gli inchiostri, la penna d’oca lunga lunga in mano e un lapis spuntato dietro le orecchie e le offriva i suoi servizi.
Un sapere sopraffino, il suo.
Non doveva riuscire affatto facile mettere nero su bianco quello che il tumulto del cuore le dettava, rifletteva Assuntina.
Così, le accadeva spesso di rimanere incantata come davanti ad un gioco di prestigio, mentre restava seduta, ben composta e in attesa che quella mano nodosa impugnasse la penna e cominciasse a muoversi leggera sul foglio, per trasformare quello che lei aveva di dentro in segni neri e rotondi, a volte legati tra loro, come in una cordata di amici, altre volte separati e netti, come irriducibili rivali.
Amava vedere la pagina bianca prender vita all’improvviso, riempiendosi in fretta e lasciandola a fantasticare sul volo che avrebbe poi dovuto compiere per arrivare tanto lontano, e consentire che, proprio per mezzo di quelle linee e quei tratti che stavano fiorendo sotto i suoi occhi, sua sorella riuscisse a sentirla come se si trovassero ancora una di fronte l’altra.
Beh, non proprio lo stesso, ma quasi.
Bisognava accontentarsi di quello che si poteva, il Signore aveva voluto così, e poco c’era da ribellarsi o protestare.
Ma come aveva tolto, aveva anche dato e il dono aveva assunto quel volto da vecchio grinzoso e barbuto, che stava lì ad ascoltarla con il suo strano cappello a cilindro e una specie di cappotto lungo a palandrana, e le prestava una voce che non sarebbe mai riuscita a giungere in altro modo fin dove abitavano i suoi cari, in quel paese che lei non sapeva nemmeno trovare sulle carte geografiche.
Finito il suo compito, il Compare si metteva poi a contare le parole ad alta voce e contrattava sul prezzo in base al numero di quelle impiegate.
Un sistema equo e condiviso che Assuntina non si sarebbe mai sognata di contestare.
Se avesse potuto, l’avrebbe anzi ricompensato in oro, quel lavoro, tanto per lei era prezioso.
Senza dire che Compar Contaparole non era affatto esoso e comprendeva sempre le necessità del momento. Ma un professionista è un professionista e lui, sulle parole, ci campava perciò se ne aveva impiegate 100 era per 100 che voleva essere pagato, se 50 per 50, sillaba più sillaba meno, che non stava a lesinare.
E poi certe cose vanno dette come si deve, e le parole devono essere quelle che ci vogliono, altrimenti sarebbero potuti nascere chissà quali equivoci e pastrocchi tra l’Argentina e la casa di Assuntina, e non sarebbe stato davvero facile districare le matasse se si fossero ingarbugliate per difetto di qualche verbo o un eccesso di aggettivi.
Insomma un benefattore, a metà strada tra un mago e un profeta, così glielo aveva sempre dipinto Assuntina, sua nonna.
Quanto a lei, ne aveva appena intravisto il sembiante in una vecchia foto di famiglia, che sua nonna conservava con cura religiosa, insieme ai santini cui era più devota.
Non poteva dunque cadere nelle mani del primo venuto, quella casa, non sarebbe stato giusto per il borgo e per tutto ciò che il Compare aveva fatto per i suoi abitanti, dato che a quel tempo erano in molti a ricorrere alla sua abilità.
Ci aveva riflettuto a lungo e alla fine non era riuscita ad escogitare niente di meglio che questa idea un po’ folle, un po’ bislacca, per evitare l’irreparabile.
Ma, se aveva fatto bene i suoi calcoli e conosceva i suoi polli come pensava, l’uomo nero che aveva appena disegnato avrebbe potuto farcela a dissuadere i papabili acquirenti per un bel po’.
Di case diroccate o non più abitate ne rimanevano ancora tante, in paese.
Quel contrassegno apparso dal nulla e nottetempo avrebbe certo raffreddato le ambizioni imprenditoriali dei più superstiziosi: nessuno di loro se la sarebbe sentita di sfidare la malasorte.
E, tra la storia del negromante e della sua maledizione, che era intenzionata a divulgare a più non posso, le chiacchiere sorte per germinazione spontanea tra i compaesani, qualche fantasia interpretativa e chissà quale altra eco, si augurava di aver posto anche un freno a tutti gli altri potenziali acquirenti, in modo da dirottare la loro attenzione su qualcosa di meno aleatorio e vistoso.
Passato il pericolo e ad acque più chete, avrebbe quindi avanzato lei stessa un’offerta, per restaurare la casa e farne, non dico un tempio della memoria storica locale, ma magari una libreria ben fornita o un museo contadino, o la sede dell’archivio comunale, oppure…
Sorrise fiduciosa al sole che cominciava a far capolino all’orizzonte.
Chi avrebbe fatta la scoperta per primo?
Sarebbe stato da solo o si sarebbe già formato un primo capannello incuriosito?
La attraversò anche il dubbio che non accadesse nulla di ciò che si augurava.
Per scacciarlo e ingannare l’attesa, decise perciò di mettersi a letto e recuperare un po’ del sonno perduto.
Ma aveva appena appoggiato la testa sul cuscino che il chihuahua cominciò ad abbaiare.
Ḕ mattiniero oggi, commentò, certa che a momenti anche Gina si sarebbe attestata al suo balcone.
Era su di lei che aveva scommesso.
Quindi contò, uno, due, tre e sentì l’urlo, Madre santissima, ma che è stato. I vandali vennero
Niente male, si confortò valutando l’intensità dell’allarme nella voce della vicina.
Ora bisognava attendere le esclamazioni della vedova Zuccagni che giunsero puntuali come un treno, contrappuntate dal chihuahua: Oh che impressione, che spavento, morta sono
Da un balcone all’altro le voci presero ben presto a rimbalzare.
Le parve di sentire qualcuno scendere in strada.
Sta andando alla grande, si rasserenò prima di cadere addormentata.
In serata, avrebbe gettato altra benzina sul fuoco.
Ah, la bellezza dell’immaginazione collettiva!