FULVIA GIACOSA
A Cuneo a ottobre si sono svolti due incontri in ricordo di Marcel Duchamp a cinquant’anni dalla sua morte, avvenuta il 2 ottobre 1968. L’idea si deve a Loredana Amendolara dell’Associazione Altra Idea e all’artista Pier Giuseppe Imberti, mentre la Fondazione Nuto Revelli ha ospitato gli incontri e ne ha reso possibile l’organizzazione.
Il titolo “Allevamento di polvere” fa riferimento – come ha spiegato la prof. Isoardi – a una delle componenti del “Grande Vetro” (la polvere depositata sull’opera, appunto). Essa è metafora del tempo, ne è misura con il suo stratificarsi (come la sabbia nella clessidra) e perciò Duchamp intende “allevarla” con cura.
Nel primo incontro (26 ottobre) Ida Isoardi ha evidenziato la complessità di Duchamp, uno dei personaggi più geniali del secolo scorso, sfuggente, ambiguo, ermetico eppure dal pensiero di una lucidità disarmante. Duchamp è stato ben più di un artista, piuttosto un intellettuale a tutto tondo come Leonardo da Vinci che amava. Proprio per tali caratteristiche la relatrice ha scelto di mostrare al pubblico l’ultima intervista a Duchamp filmata da un regista belga nel 1966 e pubblicata dalla casa editrice Allemandi. La pacata voce di Duchamp non solo ci illumina sulle sue idee a proposito dell’arte – sua ed altrui – ma distilla pillole di saggezza con un’apparente semplicità.
Ida Isoardi ha sottolineato alcuni passaggi dell’intervista che fotografano bene l’uomo e l’artista:
la sua riservatezza e la sua modestia: definito da Breton l’uomo più intelligente del XX secolo, dichiara “faccio fatica a crederlo” e “per cominciare bisogna dare alla parola intelligente il senso che aveva per chi l’ha detto”;
il disinteresse per qualsiasi forma di pubblicità per sé e per la sua opera: amava starsene appartato nei suoi sobri studi in Francia e negli USA. Ciò non significa che non abbia frequentato i gruppi d’avanguardia (“quando mi interessavano ho cercato di capirli e perfino di servirmene … ne sono stato influenzato, come tutti d’altra parte”), tuttavia la sua rimane una ricerca totalmente individuale;
la sua parsimonia: un corpus di opere tutto sommato esiguo, con tempi lunghi di realizzazione, tutto l’opposto di certa bulimia contemporanea. Dice a proposito del ready made: “So che c’è un rischio, è la facilità con la quale si può realizzare e, di conseguenza, produrre una decina di migliaia di ready made l’anno diventa piuttosto monotono e seccante. Perciò la parsimonia nella produzione è raccomandata come metodo.”;
la sua totale estraneità nei confronti dei luoghi comuni sull’arte: “Fa parte di quelle occupazioni dell’umanità che non sono di primaria importanza … soprattutto oggi che è diventata completamente esoterica e che tutti dipingono quadri, tutti li comprano, tutti ne parlano. Mi chiedo se tutto questo sia valido dal punto di vista di un approfondimento del pensiero”; oppure: “l’arte vive e muore come chiunque” con l’aggiunta che, quando muore, entra nella storia dell’arte dove “il caso gioca un grosso ruolo”;
la sua seriosa ironia che lo porta a dire “mi sono servito dell’arte come modus vivendi”. Si veda anche questo passaggio, vera lezione di vita per tutti: “Ritengo che [il gioco] sia la sola forma di allegria possibile in una vita che spesso allegra non è … Considero l’umorismo un elemento importante della vita. Al contrario la tristezza, il dolore non sono per niente necessari, in fondo non hanno ragione d’esistere, ma la gente si sente obbligata a piangere piuttosto che a ridere”.
In chiusura dell’incontro Ida Isoardi si è soffermata su due capolavori dell’artista, il “Nudo che scende le scale n.2”, del 1912 e il “Grande vetro” (1915 -1923). Se nel primo è condensato tutto il percorso delle avanguardie ed il loro fulmineo superamento con la creazione di un corpo-congegno meccanico perfettamente funzionante, il secondo si presenta fin dal titolo come un enigma. La relatrice, senza entrare nelle tante letture interpretative e nel rispetto della volontà dell’artista (“io non ho nulla da dire, io ho fatto qualcosa, sta al pubblico il compito di occuparsene, di decidere la sopravvivenza o la scomparsa della cosa”), ha acutamente colto l’aspetto chiave dell’opera, vale a dire un discorso sull’eros platonicamente inteso come aspirazione all’androgino: ma Duchamp sa bene che il mondo femminile, indicato nella parte alta del “vetro”, e quello maschile reso nella parte bassa non sono destinati a congiungersi.
Nel secondo incontro (30 ottobre) chi scrive ha presentato una carrellata di opere del secondo Novecento accostate per similitudine tipologica a quelle duchampiane con l’intento di certificare l’eredità di Duchamp e l’imprescindibilità del suo lavoro in quasi tutte le esperienze successive, dalla Pop Art al Minimalismo al Concettualismo, poiché come scrive Del Puppo, ogni epoca ha il suo Duchamp. Attraverso le immagini si è inteso verificare tanto gli aspetti di continuità con Duchamp e le sue idee quanto quelli di discontinuità che ne hanno in parte tradito il pensiero, in particolare rispetto ad alcuni punti fermi come il concetto di “indifferenza estetica”, la presenza costante di ambiguità visive e linguistiche, le questioni legate all’ontologia stessa dell’arte (unicità e repliche, originalità e copia, manualità e prelievo) e quelle relative ai concetti di estetica e di gusto.
D’altronde la genialità dell’artista di Blainville e la forza dirompente del suo operare ha finito per rendere i suoi lavori vere e proprie icone con cui gli artisti hanno dovuto fare i conti, anche se il rischio della banalizzazione è sempre dietro l’angolo.
Opere ed artisti sono stati accostati a lavori duchampiani sulla base di analogie tematiche o concettuali: tautologie (Kosuth), catalogazioni (Morris), oggetti (Oldenburg), alter ego e travestimenti (Ontani, Shermann), uso del corpo come medium (Penone, Job) e, per finire, veri e propri omaggi come quelli di Vettor Pisani e Pier Giuseppe Imberti.
L’intento della relatrice è stato quello di lasciare che i partecipanti avessero un accostamento spontaneo e non indirizzato alle immagini, ricordando come Duchamp stesso abbia sempre sostenuto la funzione attiva dello spettatore. A proposito del regardeur ha infatti detto: “l’artista non è l’unico a compiere l’atto creativo, in quanto lo spettatore stabilisce il contatto tra l’opera e il mondo esterno decodificandone e interpretandone le determinazioni profonde e aggiungendo in questo modo il proprio contributo al processo creativo”.