GABRIELLA VERGARI
Beh, non c’è dubbio che avrei dovuto prestare più attenzione alla prossemica, ovvero a quel linguaggio inequivocabile che i corpi usano quando non possono ricorrere a forme più esplicite e dichiarate.
Questo però l’ho imparato adesso, a distanza di dieci anni.
Allora sarebbe stato onestamente chiedermi troppo, quindi non me ne faccio una colpa.
Come avrei, d’altronde, potuto intuire ciò che allora si celava dietro il rumoroso ed eterno sfogliare del suo giornale, da parte del mio futuro suocero, mentre la moglie esclamava: «Oh, la zia Giuditta!», lasciando intendere chissà che di imprevedibile e fantasioso, in quella compiaciuta esclamazione.
«Vedrai, cara, quanto ti piacerà la mia incredibile prozia», andava poi aggiungendo Esterina, battendomi, lieve, alcuni rassicuranti colpettini sul dorso della mano, mentre, sempre assorto nella sua lettura, il marito si dava a girare un’altra pagina, appianandola con manate secche e precise, come se desse seguito ad un improvviso quanto insopprimibile desiderio di ordine e compostezza.
Un contrappunto cui mi ero presto abituata, tanto da considerarlo una sorta di appendice sonora alla quale non avevo quasi fatto più caso. Nella mia mente ancora giovane e ignara, l’evocazione della zia si era anzi in automatico legata a quella ridondanza acustica come ad una sorta di jingle, e tanto bastava.
Oggi comprendo invece che il buon Vincenzo stava cercando di dirmi qualcosa, o forse più di una cosa, e che non avrebbe mai osato dichiararla apertamente, soprattutto alla presenza della moglie che, verso quella sua particolare parente, si mostrava incredibilmente suscettibile e prendeva subito fuoco come un fiammifero sfregato con forza sulla carta vetrata.
Anche Silvio sembrava in qualche modo gravitare nell’orbita della fantomatica zia. «Un vero mito di famiglia. Una donna libera e fuori dagli schemi, che ha avuto il coraggio di lasciare tutto per trasferirsi a Londra, sfidando ogni convenzione sociale», mi aveva ribadito con foga, più e più volte, senza che la notizia fosse peraltro arrivata a destare il mio minimo allarme.
E perché avrebbe dovuto?
Giuditta stava così lontano che non vedevo proprio come avrebbe potuto incidere sulla mia vita. Avevo quindi registrato quelle entusiastiche informazioni con un pizzico perfino di ammirazione per tanta femminile intraprendenza, e avevo proseguito lungo il mio percorso che, a quel punto, stava svoltando verso le nozze.
Esattamente dieci anni fa, giorno più, minuto meno.
E lì avevamo avuto tanto da fare, e da organizzare, da non avere un attimo di tempo per altro che non fossero i preparativi della cerimonia, i mobili per il nostro nido (così l’aveva inizialmente definito Esterina, con uno slancio romantico che ci aveva contagiato e intenerito), l’addobbo floreale, la scelta delle bomboniere, dell’abito, delle partecipazioni e, ultima ma solo in ordine di tempo, quella dei regali per la cosiddetta lista-nozze.
Già, perché non avevamo trovato elegante imporre una sorta di tributo obbligato agli invitati, come avevano da poco anche fatto Paola e Luca o Mario e Luisa che, nel cartoncino di invito, avevano direttamente segnato l’IBAN del loro conto corrente.
«Una volgarità inaudita, che sono certa voi, miei cari, non vorrete mai riproporre. Vi abbiamo educato a ben altra raffinatezza, non è vero Vincenzo?»
E Vincenzo aveva annuito, ma con un’espressione che lasciava sottintendere la sua sostanziale indulgenza verso le stramberie dei giovani, che hanno sempre bisogno di qualche spicciolo in più.
«Volendo è una forma meno ipocrita…» aveva perfino azzardato in un bofonchìo subito rintuzzato dall’occhiata micidiale della sua dolce quanto implacabile metà, pronta a trasformarsi in una Torquemada, quando si trattava di bon ton e galateo, così che avevamo tutti presto imparato a non incrociare in questi casi, con lei, né la lingua né la spada.
«Ci vado pensando da giorni, eppure non riesco ancora ad immaginare cosa potrebbe donarvi la zia Giuditta, lei tanto creativa e versatile…» aveva poi aggiunto dopo un po’, con una sospensione sognante, che aveva dato il la ad una sorta di attesa protratta, dalla quale ero infine rimasta anch’io contagiata, incuriosita da ciò che questo straordinario membro della sua famiglia avrebbe mai potuto tenere in serbo per noi.
Durante alcune delle nostre serate, avevamo pure azzardato delle ipotesi con Silvio che insisteva, non tanto sulla natura, quanto sulla consistenza del dono. «Vedrai,» mi anticipava con tono deciso «la zia Giuditta non solo è ricchissima ma pure generosa: non vorrà mancare un’occasione come questa. Sarà certamente qualcosa di grosso.»
«Ma grosso quanto?» mi ero una volta sventurata a chiedere, per essere subito raggelata con un commento tagliente: «Che fai, la contabile da strapazzo?» e, insomma, avevamo finito per litigare di brutto, così che mi era passata ogni voglia di saperne di più.
«Sono sicura che sarà un regalo azzeccatissimo, non vedo proprio l’ora di scoprirlo», tornava per parte sua alla carica Esterina ogni volta che mi vedeva per casa, cioè di continuo, e tutta la faccenda stava ormai toccando il mio limite di guardia, finché non era giunta la telefonata eccitata: «È qui, è arrivato! Devi assolutamente venire, non si può davvero aspettare un minuto di più…»
Ammetto di essere rimasta impressionata.
Dall’atmosfera innanzitutto, a metà tra quella delle grandi occasioni e la vigilia di Natale, solo senza l’albero e i pendagli.
Esterina andava e veniva dal salone con l’aria di una bambina cui stessero riservando la sorpresa delle sorprese e perfino Vincenzo si era alzato dalla poltrona per consentirsi un lento, pensoso giro tutt’attorno alla cassa.
Sì, appunto, perché questo era ciò che, al mio ingresso, ho trovato troneggiante in salone, una grande, splendida cassa, dalle assi lucidissime e perfettamente connesse tra loro, sormontate da un magnifico fiocco rosa salmone, in un tripudio di fiori d’arancio e miosotis.
«Accipicchia!» ho esclamato, colpita.
«Che vi avevo detto?» ripeteva intanto Esterina come un mantra. Non stava a tal punto nella pelle che ho quasi temuto potesse arrivare a scoppiare per l’ansia o l’eccitazione.
Il resto è scolpito nella memoria, particolare per particolare: il sorriso innamorato di Silvio, i suoi occhi luccicanti di soddisfazione e d’orgoglio per essere in qualche modo l’indiretto artefice di tanta portentosa meraviglia, lo sguardo senz’alcun dubbio sornione di Vincenzo, la generale stupefazione quando ti abbiamo tirato fuori.
«Ma, ma… è il De Pretis» aveva proclamato Esterina quasi sopraffatta dall’enormità della scoperta.
Facendo appello all’unico De Pretis di mia sicura conoscenza, ero stata, a questo punto, quasi a un passo dal chiedere: «Chi, Agostino?» ma chissà quale protettore divino mi aveva bloccato giusto in tempo, per risparmiarmi una gaffe imperdonabile, cosa di cui ancora oggi lo ringrazio.
«Intendi William, quel William? Oh mamma, ma non avrei mai creduto… davvero zia Giuditta ha superato se stessa». L’intervento di Silvio non mi stava diradando alcuna nebbia, mi lasciava anzi intuire che c’era decisamente qualcosa che mi sfuggiva.
Chi diavolo era William De Pretis, e soprattutto perché era quel.
Così, ti ho osservato con più cura. Per darmi un tono, ovvio, ma soprattutto per cercare di scoprire cosa potessi rivelarmi
E non posso dire sia stato un colpo di fulmine. Tra me e te non è passata, come si dice, quella corrente elettrizzante della vera passione.
Però ti ho trovato gradevole.
Un po’ inquietante forse, ma in fondo possibile.
E poi avevi una bellissima cornice. Questo sì che l’ho capito subito, al primo sguardo, perché di cornici me ne intendo per tradizione di famiglia. Di pittura no, men che meno di quella contemporanea, ma tu non sembravi il dipinto di un genio disturbato.
Quantomeno non così sulle prime.
Ora che conviviamo da circa dieci anni, minuto più, giorno meno, riconosco che sei invece disturbato eccome. O se non altro disturbi me, che è in fondo peggio.
Lo credo che la zia Giuditta non abbia visto l’ora di liberarsi di te.
Avrei dovuto capirlo fin dal biglietto di accompagnamento, elegantissimo, di un color lavanda che solo una grande cartiera avrebbe saputo realizzare e vergato con un’ampia svolazzante grafia in inchiostro fumé: Lo troverete ad aspettarvi a casa, come un fedele compagno, ogni giorno della vostra vita insieme. Godetevelo, come meritate.
Che tipa, la zia, a rifilare a noi il ritratto fattole dall’amante cui aveva spezzato il cuore.
Perché poi la storia l’ho saputa, altro che, e ho infine compreso chi fosse quel William De Pretis, astro italo-americano della London New School, esposto nei musei di arte moderna di mezzo mondo.
Dunque, in quanto sua creazione originale, di tuo varresti una fortuna, nulla da eccepire.
E fin qui, poco male, anzi bene, direi.
Il punto è che quella donna spezzata, che raffiguri riflessa in uno specchio andato in frantumi – ovvero l’interpretazione delle mille diverse e imprendibili sfaccettature della Musa di De Pretis, zia Giuditta manco a dirlo – mi sta logorando il sistema nervoso.
Non ce la faccio più a tollerarti.
Prima ti ho messo sopra il divano, con grande risonanza e commentare degli amici.
«Hai capito, la cosuccia: un olio di De Pretis. Ad avercela una zia così.»
E mentre loro ammiravano e forse invidiavano, io alzavo gli occhi e, nell’incrociare la tua realtà frammentata, mi sentivo a mano a mano gelare dentro. A parte il fatto, forse trascurabile ma non tanto, dello specchio rotto che porta iella.
Ho provato quindi a resisterti. I primi anni, due o tre, non ricordo neanche più.
Mi sono detta e ripetuta che eri arte pura, un vero capolavoro con tanto di expertise, e che non ti rivolgevi a me. La donna a pezzi disarmonici e franti che mi stava costantemente sotto gli occhi, non ero io. Non era della mia vita che parlavi e non dovevo quindi preoccuparmi di ricondurla ad unità. Si trattava di pennellate destinate ad un’altra, alla benedetta zia Giuditta, che il Signore l’abbia in gloria. Eri frutto dell’intuizione di un estro ferito e sanguinante, di un artista forse straordinario ma inesorabilmente colpito al cuore
Poi mi hai vinto e annientato, così ho insistito con Silvio per farti occupare una posizione meno esposta, più discreta, sopra il servante all’angolo.
Non è stato facile, proprio per niente, ma ci sono riuscita. Solo per scoprire che era stata una vittoria di Pirro. Anche così, rincasando, ti ho infatti trovato ad attendermi fedele, esattamente come garantito dal biglietto. Ti mancava lo scodinzolamento di benvenuto domestico, ma per il resto come e meglio di un cane di compagnia.
Con il pretesto di tenerti al riparo da occhi indiscreti e potenzialmente ladreschi, ti ho allora messo in corridoio, un luogo di passaggio che non mi costringesse ad osservarti di continuo. Ma non ha funzionato.
Così, per il sesto anniversario di matrimonio, ho deciso di sferrarti un attacco diretto, affrontandoti a viso aperto e spostandoti nella stanza da letto, accanto alla tenda. Peggio che andar di notte.
Non potendo usare la stanza dei bambini, per non turbarli, né il bagno – sarebbe stato troppo, e Esterina chi l’avrebbe sentita -, ho quindi deciso di riportarti in salone, prima all’ingresso, poi vicino alla specchiera, infine vicino alle due poltrone. E niente, sei sempre rimasto fedele al tuo compito e al tuo messaggio: una, nessuna, centomila e dire che ho sempre odiato Pirandello…
Perciò, mio caro, credo sia proprio giunta l’ora. Dieci anni meritano di essere solennizzati, non trovi?
E allora, buon anniversario a te, cane fedelissimo, tormento ineffabile quanto inestimabile della mia vita coniugale. Che ne dici di un bel, risolutivo divorzio, del tipo strade separate e tanti saluti?
Ascolta, voglio essere generosa: sono disposta a lasciarti tutta la cantina, ma non farti più vedere in giro e… non mi chiedere di tornare.
Con buona pace di Esterina e Giuditta, decisamente non ti merito.
Per fortuna.
(Il racconto è stato ispirato all’autrice dal quadro di Franco Blandino “Nello specchio rotto”, olio su tela del 2015.)