GABRIELLA MONGARDI
Bravo quel Dioneo, il ragazzo che nel Decameron di Giovanni Boccaccio racconta la mia storia nell’ultima novella dell’ultima delle dieci giornate, la centesima novella. Bravo perché, come tutti i novellatori del libro, sa raccontare “bene”, cioè con il giusto ritmo, avvincendo il lettore (gli ascoltatori, nella finzione boccacciana) con un crescendo di tensione che alla fine sfocia o in una risata o in un pianto o in un senso di sollievo. Bravo Dioneo, che per una volta rinuncia al suo privilegio di poter raccontare quello che vuole senza tener conto del tema assegnato alla giornata, e narra – come previsto – una storia in cui qualcuno «liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa». Solo che quel qualcuno non è Gualtieri, il marchese di Saluzzo, il protagonista della novella, ma sono io, sua moglie… E Dioneo tra le righe lo fa capire, si schiera dalla mia parte: in apertura infatti qualifica come “matta bestialità” il comportamento del marchese, aggiungendo: «La quale io non consiglio alcun che segua, per ciò che gran peccato fu che a costui ben n’avvenisse», e di me alla fine dice: «Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti?». Io, una donna, figlia di nessuno (mio padre era un pastore di pecore), definita un “divino spirito”? Che scandalo, per quei tempi e non solo…
Così i critici si sono arrovellati per cercare una spiegazione a questa novella, che per di più, in quanto ultima, occupa una posizione di grande rilievo nell’opera – segno che l’autore ha voluto trasmettere attraverso la mia vicenda un messaggio per lui fondamentale: ma quale? Qualcuno ha visto in me un’allegoria, della Madonna o di Cristo; altri hanno dato un’interpretazione storico-sociologica del mio matrimonio, vedendovi raffigurata la lotta sociale tra nobili e plebei; altri ancora, rifacendosi a Machiavelli, hanno fatto consistere la mia “virtù” proprio nella mia capacità di contrastare i colpi della “fortuna” avversa, nell’assoluta estraneità e distanza dal mondo, tipica del nuovo intellettuale che Boccaccio vuole rappresentare… Petrarca, amico di Boccaccio, aveva addirittura tradotto questa novella in latino, intitolandola De insigni oboedientia et fide uxoria, e facendo di me il simbolo della pazienza muliebre, ma soprattutto un esempio di fermezza del buon cristiano, «sottoposto da Dio a dure prove perché diventi consapevole della propria dignità». Insomma, sono diventata un bell’enigma per i lettori – e forse lo ero per Dioneo, per lo stesso Boccaccio… forse ero qualcosa di perturbante, di unheimlich, come spesso sono le donne per gli uomini. Strano che nessuno abbia parlato di “misoginia”, o di racconto di prove – o forse io non lo sono venuta a sapere. A me sembra chiaro come il sole: così come la racconta Dioneo, la mia novella è un “racconto di prove” (l’eroina è già perfettamente virtuosa e la storia mette alla prova la sua virtù), la cui palese misoginia è appena attenuata dalla cornice. Ma esiste eccome. Del resto, la misoginia pare essere la norma, da che mondo è mondo.
A dire il vero, Dioneo non la racconta proprio giusta: nella conclusione adotta troppo vistosamente e frettolosamente il modulo fiabesco del “vissero a lungo felici e contenti”, e questa deformazione della realtà rende ancora più incomprensibile il mio comportamento. No, non è andata proprio così: alla fine, quando ho riabbracciato i miei figli che per il sadismo di Gualtieri avevo creduto morti, ho festeggiato sì, per tanti giorni; poi ho accolto a palazzo mio padre e l’ho accudito fino alla morte, come ha voluto Gualtieri, ma dopo il matrimonio di nostra figlia me ne sono andata. Con lei. Senza fare rumore, senza dare scandalo, con il pretesto che la “bambina”, così giovane e inesperta, aveva bisogno di qualcuno che sovraintendesse al palazzo, la aiutasse ad allevare i figli, la proteggesse. Mio genero non ha fatto alcuna obiezione. E Gualtieri neppure. Non osava più scontentarmi in niente, poverino. Ma sono sicura che non ha capito.
Dioneo dice: «Ed egli appresso, maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e consolato visse». Un narratore è autorizzato a falsificare la realtà – non è mica un cronista, ma la mia vera storia è diversa. Ve la racconto io dal principio.
Come tutte noi ragazze, suddite del marchese di Saluzzo, anch’io ne ero un po’ innamorata – era così bello – e non credevo ai miei occhi quando si è presentato da mio padre per chiedere la mia mano, come nelle fiabe… Mi sembrava di sognare, non stavo più nella pelle, non riuscivo nemmeno a immaginare la mia futura vita a corte, come castellana di Saluzzo. Ma ero nata ai piedi del Monviso, e dalle montagne avevo assorbito la forza, la stabilità, l’impassibilità. E mio padre mi aveva insegnato che tutto si paga.
Perciò le prime “stravaganze” di Gualtieri le ho accettate di buon grado – erano il prezzo da pagare per la fortuna incommensurabile di essere sua moglie, e quando poi mi ha messo alla prova con “cose intollerabili” (così le chiama Dioneo) ho sopportato tutto “senza mutar viso” perché… guardavo al Monviso. Sentivo che “imitare la montagna” era l’unica mia forma di difesa, l’unica arma in mio potere per neutralizzare le “punture” di Gualtieri, l’unico modo per proteggere il mio io profondo e sottrarmi al dominio che mio marito voleva esercitare su di me. Non potevo, non dovevo lasciarmi destabilizzare da lui: era una questione di dignità, di rispetto per me stessa e per l’amore che gli portavo. Lui invece, evidentemente, più che amore aveva terrore di me: paura che sua moglie potesse contraddirlo, non assoggettarsi alla sua autorità, turbare il suo quieto vivere, o che so io. La sua “matta bestialità”, la sua crudeltà, nasceva da questo desiderio violento, irrazionale e incontrollabile di dominio assoluto su ciò che si teme, nasceva dalla sua gran paura di me. Di meee? L’ultima dei suoi sudditi, la madre dei suoi figli? Una che chiedeva soltanto di vivere accanto a lui, nella sua ombra, e di servirlo e onorarlo per tutti i giorni della sua vita? Evidentemente, non si sentiva degno di essere amato. Il fatto è che lui è rimasto un bambino egocentrico e cattivo, con una visione esclusivamente gerarchica e utilitaristica dei rapporti interpersonali, incapace di confrontarsi alla pari con qualcuno, men che meno con una donna, incapace di provare amore per nessuno, tranne che per se stesso… o forse, neanche per se stesso.
Invece io, negli anni di “prove” al suo fianco, sono cresciuta, sono cambiata: è cambiato il mio amore per lui, e per me. L’amore per lui non è sparito, non si è trasformato in odio o in disprezzo, no, ma è diventato ambra – un talismano fossile, mentre l’amore per me, per la mia vita, i miei diritti è fiorito, luminoso di consapevolezza. E quando ho sentito di essere pronta ho spiccato il volo, e la distanza interiore dalle frecce e dai colpi dell’oltraggiosa fortuna ho voluto che diventasse lontananza fisica da lui, ho sentito il bisogno di compiere un gesto simbolico, di mettere spazio, cioè aria, terra, fiumi e montagne tra me e lui. Dalla Provenza, dove mia figlia è andata sposa, non vedevo più il Monviso dalla finestra, ma avevo il suo profilo inciso a fuoco nel cuore e nella mente. Incancellabile. Bastava e avanzava. E sono vissuta a lungo, felice e contenta.
BIBLIOGRAFIA MINIMA:
C. Muscetta, Boccaccio, Roma-Bari 1965
G. Bàrberi-Squarotti, L’ambigua sociologia di Griselda, in “Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo”, 1970
M. Baratto, Realtà e stile nel “Decameron”, Roma 1970
G. Savelli, Struttura e valori nella novella di Griselda in “Studi sul Boccaccio”, XIV, 1984
http://annaritamagri.blogspot.com/2016/04/lenigma-di-griselda-in-boccaccio-parte-1.html
(originariamente pubblicato il 6-1-2019)