SIMONE MAMMOLA
Aveva ragione il mio relatore di tesi: «Non butti mai via niente di quello che scrive – mi disse -, per carità! Tutto può sempre tornare utile nella vita…». Così, grazie a un piccolo lifting, quello che fu originariamente pensato come contributo per un seminario specialistico in università, compare qui sotto forma di personale, modestissima, nuova inquisizione – con un titolo ruffiano sul quale vale la pena fare un paio di considerazioni.
“Esobiologia” è un termine relativamente recente, coniato dallo scienziato Joshua Lederberg negli anni ’50, ai tempi della prima ondata di dischi volanti, per indicare qualcosa che in realtà è antico quanto la filosofia stessa, se è vero che già Anassimandro aveva ventilato la possibilità che esistessero altri mondi oltre al nostro (senza trascurare il fatto che l’imperativo primo degli esobiologi – cercare l’acqua – è un corollario dell’ancor più antica tesi di Talete sul principio della natura). Come la gemella astrobiologia, ciò che essa si chiede è se e a quali condizioni, da qualche parte nell’universo, possano esistere altre forme di vita, ed eventualmente se debbano per forza avere come base il carbonio o se non possano essere anche forme di vita altre, assecondando così la doppia sfumatura contenuta nel concetto di “alieno”. Il grande paleontologo Stephen Jay Gould, proclamandosi un «suo grande sostenitore», la definiva con una punta di ironia, «quella grande scienza priva di un oggetto», sostenendo che «solo la teologia può superarla in questo senso»[1]. É vero che gli studi più recenti sembrano escludere che vi siano altre specie evolute nel nostro angolino di universo (un articolo apparso su Le Scienze lo scorso novembre titolava appunto «Perché probabilmente siamo l’unica vita intelligente nella galassia»[2]), ma questo non impedisce che forme elementari di vita possano essersi sviluppate negli oceani subglaciali di Encelado o di Europa (due delle lune di Saturno e di Giove). E poi le galassie sono approssimativamente cento miliardi: chissà cos’è capitato da quelle parti…
Ad ogni modo, senza tirare per la giacchetta i padri nobili della disciplina, la scienza europea cominciò seriamente a porsi il problema dell’abitabilità di altri pianeti a partire dal Seicento, in concomitanza con la progressiva diffusione della cosmologia copernicano-galileiana. Di lì in poi si entra in un orizzonte tutto sommato familiare: sarà, perciò, il nostro terminus ad quem. Come terminus a quo ho invece fissato il Trecento – e questo spiega l’aggettivo “protomoderno” del titolo, che altro non è che il termine con cui si cerca di rendere in italiano l’espressione inglese early modern e che io per lo più intendo come quell’arco di tempo che va, grosso modo, dall’età di Occam a quella di Bayle, dalla crisi della scolastica alla crisi della coscienza europea: un tempo sospeso tra vecchio e nuovo, non più totalmente medievale e non ancora del tutto moderno, in cui le tradizioni più disparate coesistono e si intrecciano senza approdare a una vera e propria sintesi riconosciuta. Che sul tema in questione maturi un cambiamento di prospettiva nel corso di questo periodo, e che genere di cambiamento esso sia, è ciò che mi propongo di suggerire in questo mio intervento.
Il richiamo alla cultura trecentesca mi permette peraltro di introdurre una piccola digressione per evidenziare un tema che sarà sotteso al mio discorso. Parlare di altri mondi implica inevitabilmente un ampio ricorso all’immaginazione. Ma l’immaginazione, nella nostra mentalità in fondo ancora cartesiana, è spesso declassata a orpello privo di qualunque valore scientifico – oppure, se siamo di ascendenze romantiche e la consideriamo invece una via d’accesso privilegiata alla realtà autentica del mondo, ciò accade proprio perché la contrapponiamo all’arida, prosaica e borghese indagine scientifica della natura. In entrambi i casi la cesura è netta. Un conto è la scienza, si potrebbe dire, un conto la fantascienza. Ora, a parte il fatto che gran parte della scienza contemporanea è assai più fantascientifica di molti romanzi di fantascienza (tante volte mera riproposizione dei romanzi cavallereschi con le spade laser al posto delle lance), siamo davvero sicuri che le cose debbano andare per forza così? Parafrasando un passo di Fontenelle su cui ritornerò più avanti, la scienza (non meno che la storia) si fa con gli “e se…” non meno che con i dati sperimentali, con i what if non meno che con i what. Gli alieni saranno pure un caso limite, ma ogni teoria scientifica, a ben vedere, è una proiezione immaginaria che ci spinge oltre i margini del visibile e che a volte richiede secoli per essere comprovata. Per fare solo un esempio, si è dovuto attendere il 1905 perché Einstein dimostrasse l’esistenza di quegli atomi postulati da Democrito più di duemila anni prima per spiegare il funzionamento di certi fenomeni osservabili a occhio nudo. E lo stesso Einstein, in una recente biografia, è stato definito “il costruttore di universi”, quasi a rimarcare il tratto oserei dire “poetico” (in senso letterale) della fisica teorica[3]. Il breve viaggio che vi propongo si presenta perciò anche come un possibile capitolo di una storia dell’immaginazione come strumento di conoscenza, a sua volta parte di una più ampia riflessione sul carattere integrato e complesso della nostra ragione.
D’accordo, mi direte, ma che cosa c’entra tutto questo con il Trecento? C’entra eccome, giacché è proprio in quel secolo che vengono elaborati degli argomenti espressamente definiti secundum imaginationem (di cui c’è ancora traccia in Galileo), alcuni dei quali riguardano proprio il tema di cui intendo occuparmi. È da qui che partiremo.
1. I mondi paralleli di Nicolas Oresme
Nella nostra mente, il cosmo medievale coincide suppergiù con l’immagine del mondo dantesco anteposta a una qualsiasi edizione scolastica della Divina Commedia: una sfera chiusa, gerarchicamente ordinata secondo i principi della fisica aristotelica. Talmente conforme a tali principi, anzi, che qualcuno cominciò pure a sospettare una lesa maestà verso l’onnipotenza divina, come se nei sei giorni della creazione Dio non avesse potuto far altro che seguire il libretto di istruzioni fornitogli da una ragione pagana. È (anche) in questo contesto che maturano le famose condanne comminate nel 1277 dall’arcivescovo di Parigi Etienne Tempier contro oltre duecento proposizioni circolanti nei dibattiti filosofici del tempo. Qualunque valutazione storiografia si dia di quell’episodio, sembra accertato che esso abbia indirettamente favorito l’elaborazione di argomenti che, senza realmente mettere in discussione l’ordine del mondo aristotelico, accoglievano cionondimeno l’ipotesi secondo cui, nella sua potestas absoluta, Dio avrebbe potuto disporre le cose anche diversamente da come poi effettivemente scelse di fare. Si apriva così la possibilità di postulare spazi e luoghi immaginari entro cui collocare ragionamenti di natura fisica talmente astratti da indurre storici per la verità un po’ tendenziosi a parlare addirittura di anticipazioni e precorrimenti della Rivoluzione Scientifica.
Provo a fare un esempio: siamo aristotelici e sappiamo che il vuoto non esiste in natura, ma siamo anche cristiani e sappiamo che a Dio non è impossibile separare realmente una sostanza dai suoi accidenti (è quello che accade ogni volta che si celebra l’eucarestia); dunque è pensabile un mondo ipotetico in cui ci sia un predicato senza sostanza, nella fattispecie una dimensionalità senza soggetti che la occupano, ovverosia uno spazio vuoto – e in questo spazio accadrebbero cose strane ai corpi in movimento, perché non ci sarebbero resistenze, direzioni, un alto e un basso, eccetera eccetera eccetera (più o meno comincia così la trattazione che il celebre Buridano fa del moto di caduta dei gravi). L’onnipotenza divina diventa in pratica garante della possibilità di sistemi alternativi al nostro, suscettibili però di analisi razionali che offriranno schemi di pensiero già esplorati quando si comincerà a pensare che il mondo potrebbe davvero non essere fatto come pensava Aristotele (la messa in parodia di questo genere di ragionamenti percorre tutta la letteratura umanistica italiana tra Tre e Quattrocento, come esempio di sofisticherie avulse dalla realtà: è anche rispetto a questo genere di discussioni che Petrarca si definiva orgogliosamente “ignorante”).
Un esempio di ragionamento per imaginationem applicato al tema di cui ci stiamo occupando è quello formulato da Nicolas Oresme (1323-1382) nel suo Livre du ciel et du monde, un commento al De coelo di Aristotele che ha la particolarità di essere anche uno dei primi testi di fisica scritti in volgare. Uno dei capisaldi della concezione aristotelica del mondo è che esso deve essere necessariamente uno. Questa, in poche parole, la dimostrazione: se ci fossero più mondi, dovrebbero essere costituiti comunque della stessa materia; ma una materia della stessa specie tende per natura verso uno stesso luogo; dunque, se anche, per ipotesi, la materia dell’universo fosse stata inizialmente dispersa ai quattro angoli di un altrettanto ipotetico spazio vuoto, essa si raccoglierebbe poi comunque tutta necessariamente verso il suo unico luogo naturale, sicché non potrà esserci altra materia oltre a quella che attualmente compone il mondo, che perciò è uno solo. A questa maniera di argomentare, Oresme contesta solo la pretesa necessità. Tuttavia, non si limita a dire che, se Dio è assolutamente onnipotente, non può essere vincolato da nessuna legge di natura (quella era la posizione già di un Pier Damiani, secondo cui Dio avrebbe potuto cambiare anche gli eventi del passato, cancellando persino Roma e il suo impero). La sua mossa consiste piuttosto nel postulare un possibile, ancorché ipotetico, intervento divino per dedurre uno scenario non impossibile e tale perciò da escludere che l’unicità del mondo sia una necessità assoluta. Prendiamo – dice Oresme – il cosmo aristotelico e poniamo che Dio crei della nuova materia al di fuori di esso (cosa appunto impossibile secondo natura, ma non impossibile a Dio). Ebbene, questa materia non si muoverebbe in nessuna direzione, poiché concetti come “alto” e “basso” hanno senso solo all’interno di un dato sistema. Se poi immaginassimo che, sempre al di fuori dell’ultima sfera del nostro mondo, Dio creasse anche un altro centro di attrazione della materia, potremmo supporre che quella materia esterna tenderà verso quel centro anziché verso il centro del nostro mondo. Del resto, se io accendo due fuochi, uno a Oxford e uno a Parigi, il fumo prodotto da essi tenderà a salire rispettivamente sul cielo di Oxford e su quello di Parigi; ma se poi invertissi la posizione di questi due fuochi, il fumo del fuoco di Oxford spostato a Parigi salirebbe ora verso il cielo di Parigi e non più verso quello di Oxford – e viceversa. Ovvero: una zolla di materia posta al di fuori del nostro sistema potrà tendere verso un altro centro di gravità (chiamiamolo così) e non sarà necessariamente attratta dal nostro centro, come se questo fosse l’unico. Ecco così teorizzata la possibilità di più mondi paralleli (due, tre, centomila: a questo punto è uguale), all’interno di ciascuno dei quali continuerebbero a vigere le stesse leggi fisiche aristoteliche, ma indipendentemente l’uno dall’altro. Si tratta infatti di mondi costitutivamente incomunicabili, poiché tra di essi si estenderebbe una sorta di vuoto non fisico (cioè non attraversabile) che coincide con la sostanza stessa di cui è fatto Dio.
Simili mondi saranno anche abitati? Oresme né lo dice né lo nega: semplicemente, glissa sull’argomento, che di per sé esula dal suo proposito. Il problema non è tanto di natura filosofica, infatti, quanto teologica. Se davvero esistessero mondi paralleli abitati da creature umane come lo siamo noi, allora bisognerebbe supporre che su ciascuno di essi si sarebbe dovuta sviluppare un’analoga storia della salvezza, con tanto di creazione, caduta e redenzione – cosa che diventa difficilmente sostenibile. Anche in ambito teologico vale infatti un principio di economia per cui è meglio non moltiplicare gli enti se non è necessario farlo. La non opportunità teologica non equivale però a impossibilità fisica – ed è questo il punto, che richiama peraltro un’altra celebre questione sospesa tra fisica e teologia quale quella dell’esistenza o meno degli antipodi. Se si escludono centre improvvide, e anche per questo spesso citate, considerazioni di Lattanzio, il pensiero cristiano non aveva infatti negato la possibilità che esistessero altri continenti nell’emisfero australe, in opposizione all’ecumene conosciuta dagli antichi. Agostino, per dirne uno, su questo è molto chiaro: non si vede perché, sul piano fisico, tali regioni non potrebbero esistere; il problema è che dovrebbero essere disabitate, perché tutti gli uomini devono avere avuto un unico progenitore, ma non è possibile che dei discendenti di Adamo possano avere raggiunto tali regioni in tempi così remoti da farcene smarrire il ricordo, e dunque con una tecnologia decisamente arcaica, quando oggi, con mezzi più moderni, non è più possibile farlo; e poiché sarebbe stato uno spreco per Dio creare immense distese di terra per poi renderle inaccessibili all’uomo, è probabile che non l’abbia mai fatto. Anche qui, dunque, è una ragione teologica e non fisica a motivare la conclusione. Non è un accenno pretestuoso: come cercherò di mostrare, il tema degli altri mondi è strettamente connesso a quello dei nuovi mondi via via “scoperti” sulla Terra.
Qual è dunque la conclusione di Oresme? «Che Dio può e potrebbe fare in virtù della sua onnipotenza un altro mondo da questo, o più mondi simili o dissimili, e nè Aristotele nè altri prova mai sufficientemente il contrario». Salvo aggiungere che però «mai di fatto ci fu e mai ci sarà altro che un solo mondo corporeo, come è stato detto prima».[4]
2. Tanti mondi finiti in un unico universo infinito: Cusano e Bruno
Oresme, dunque, ammette la possibilità di una serie di mondi paralleli, fisicamente analoghi ma reciprocamente distinti – e dunque ipoteticamente abitabili come lo è il nostro. Un tipo di ragionamento diverso è invece quello di chi sostiene che altre creature possano abitare delle regioni di questo nostro stesso mondo diverse da quella che abitiamo noi. Per muoversi in questa direzione bisognava però procedere a un ripensamento radicale della cosmologia aristotelica, che non prevedeva tale possibilità (eccezion fatta, al limite, per le intelligenze celesti, ribattezzate “angeliche”, chiamate a presiedere il movimento delle sfere). É il passo compiuto – primo fra tutti – da un altro Nicola, il Cusano (1401-1464). Beninteso, siamo sempre nel campo della speculazione pura, in piena epoca pretelescopica. A monte della sua riflessione c’è un consapevole, ancorché filologicamente impreciso, ritorno al “divino” Platone quale auctoritas di riferimento da contrapporre ad Aristotele. Per Cusano Dio è l’infinito assoluto in cui sono presenti tutte le cose nella loro assoluta verità, ripiegate una dentro l’altra, senza distinzioni fra loro, così come tutte le figure geometriche, portate all’infinito, sono la stessa, irrappresentabile, figura (la retta infinita coincide col cerchio infinito, col triangolo infinito e così via). Di questa potenza inesauribile l’universo è l’esplicazione fisica, che è un po’ come dire che tutta la materia del mondo era concentrata in un solo punto infinito un istante prima che il Big Bang la facesse esplodere in tutte le direzioni (forziamo le cose: a rigore, non c’è nessun secondo prima del Big Bang): sempre della stessa sostanza si tratta, ma sotto due specie diverse. In tale relazione, di omogenea diversità, stanno Dio e il mondo: infinito assoluto l’Uno, infinito contratto l’altro – ossia pieno di divisioni interne, di cose sempre più grandi o più piccole di altre, indefinitamente esteso nello spazio, semplice approssimazione a quell’infinito autentico che è Dio, ma pur sempre infinito, perché da una causa infinita non può che derivare un effetto infinito. E se il mondo è infinito, esso non avrà né centro né circonferenza, e dunque non avrà una Terra che sta assolutamente ferma al cuore del sistema. Di più, non sarà diviso tra regioni che sono perfettamente immobili e altre che si muovono di moto circolare perfetto, perché, nel mondo del più e del meno, non c’è nulla che non possa essere un po’ più veloce o un po’ più lento di qualcos’altro, all’infinito. Tutto oscilla, incessantemente.
E allora in questi spazi dilatati all’infinito è ragionevole pensare che Dio, «per impedire che alcuni luoghi dei cieli e degli astri siano vuoti, e impedire che sia abitata solo questa terra (che è tra i corpi più piccoli, forse)», deve aver posto «nature di diversa nobiltà abitanti in ogni regione», sebbene «non sembra che ci possa essere qualche natura più nobile e perfetta della natura intellettuale che abita in questa terra come nella sua regione, anche se nelle altre stelle ci fossero abitanti che appartengono ad un altro genere». Quel che interessa a Cusano, infatti, è dimostrare che non ci sono regioni dello spazio assolutamente privilegiate su altre – e che dunque i terrestri non sono da meno o di più, poniamo, dei venusiani o degli alphacentauriani. Come le cellule di un organismo sono perfettamente adattate a far funzionare la parte del corpo in cui si trovano, così, all’interno di quell’immenso animale che è l’universo, ogni regione ha la sua specificità e, di riflesso, i suoi abitanti saranno ciascuno perfetto nel proprio ambiente e nel proprio genere. Nonostante appartengano tutti allo stesso cosmo, non cambia però l’idea secondo cui essi sono destinati a restare sconosciuti gli uni agli altri, a causa delle insuperabili distanze che li separano. Del resto, accade qualcosa di simile anche sulla Terra: «gli animali di una data specie, che formano una regione specifica, si uniscono fra di loro e si comunicano, mediante la comune regione specifica, le proprietà della loro regione, e non sanno nulla delle altre regioni o perché ne sono impediti o perché l’apprendono in modo errato». Tutto quel che possiamo fare, dunque, è provare a immaginarceli, questi ipotetici alieni, «solo dall’esterno, mediante pochissimi segni superficiali». E allora «li immagineremo nella regione del sole, più solari, luminosi e di intelligenza più illuminata, più spirituali di quelli della luna, dove sono più lunatici; sulla terra, invece, li immagineremmo più materiali e grossolani», e così via. Quanto alle «altre regioni astrali», «supponiamo in maniera analoga che nessuna di esse sia priva di abitanti, come se ci fossero tanti mondi particolari, come parti di un unico universo, quante sono le stelle che sono senza numero»[5].
Non troppo dissimile è il discorso che, poco più di un secolo dopo, farà Giordano Bruno (1548-1600), per cui Cusano sarà sempre un riconosciuto punto di riferimento. Oltre a una più forte accentuazione in senso panteista del medesimo impianto ontologico, c’è però nel Nolano anche una più esplicita risemantizzazione di alcuni concetti. Anzitutto, con «imaginazioni» non si intendono più le ipotesi che si scostano dall’impianto aristotelico, bensì proprio l’insieme dei principi che giustificano quella cosmologia, occultando la vera natura del mondo: «ma questa imaginazione (…) averrà che sia tolta: e s’aprirà la porta de l’intelligenza de gli principii veri di cose naturali, et a gran passi potremo discorrere per il camino della verità; la quale ascosa sotto il velame di tante sordide e bestiale imaginazioni, sino al presente è stata occolta, per l’ingiuria del tempo e vicissitudine de le cose, dopo che al giorno de gli antichi sapienti succese la caliginosa notte di temerari sofisti»[6]. Bruno, però, non è Cartesio: dice quel che dice non perché auspichi una riduzione del cosmo alla sua impalcatura matematica. Tutt’altro. Se la potenza sprigionata da un universo dinamico e vivo non poteva essere ingabbiata in quel “mondo di carta” di cui, per Galileo, si occupavano gli aristotelici, lo stesso vale per Bruno se ai principi di Aristotele sostituiamo le maglie geometriche della fisica galileiana. Quel che egli ha in mente è piuttosto la natura primordiale degli antichi fisiologi: un perpetuo circuito di produzione e distruzione in cui prevale lo stupore per l’incessante riproporsi dell’essere piuttosto che la malinconia per il suo continuo declinare. L’immaginario si fa così continuamente realtà, infischiandosene delle elucubrazioni di «quei che con l’opra della fantasia vogliono fabricargli la muraglia»[7]. Aristotele, infatti, aveva pensato erroneamente che i confini del nostro mondo coincidessero con quelli dell’universo intero: e invece c’è «una eterea regione inmensa, nella quale sono innumerabili et infiniti corpi come la terra, la luna et il sole; li quali da noi son chiamati mondi composti di pieno e vacuo»[8]. Ecco profilarsi, al posto di un solo mondo chiuso, un universo infinito punteggiato di tanti mondi finiti – e, all’interno di ogni mondo, altri abitanti, come già aveva proclamato Lucrezio, adeguatamente citato: «necesse est confiteare / esse alios aliis terrarum in partibus orbes, / et varias hominum genteis, et secla ferarum»[9]. Su tali abitanti, peraltro, Bruno non calca troppo la mano. Un po’, probabilmente, perché ad essere “vivi” sono gli astri stessi e i mondi complessivamente intesi. Un po’ perché, anche secondo lui, simili mondi, considerate le immense distanze che li separano, se ne stanno indipendenti l’uno dall’altro – ed è bene che sia così, come si può constatare dal fatto che anche sulla Terra la natura ha diviso le specie viventi con mari e con monti, anziché farle coesistere entro un medesimo spazio. «A le quali essendo per umano artificio accaduto il commercio, non gli è per tanto aggionta cosa di buono più tosto che tolta: atteso che per la comunicazione più tosto si raddoppiano gli vizii, che prender possano aumento le virtudi»[10].
3. Intermezzo. Gli alieni sono fra noi: la scoperta del Nuovo Mondo e la sua relazione con la cosmologia
L’ultima citazione riportata ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che tra Cusano e Bruno accadono alcuni eventi non proprio irrilevanti. Anzitutto, visto che stiamo parlando di cielo e di stelle, la pubblicazione dell’opera di Copernico, che per Bruno ha il merito di avere aperto una strada ma il demerito di non averla percorsa fino in fondo. Prima ancora, e direi soprattutto, la scoperta dell’America. Così, se Cusano si limitava genericamente a constatare che molte specie viventi trascorrono la loro esistenza nell’indifferenza reciproca, Bruno aveva un esempio eclatante per mostrare che ciò era realmente accaduto a europei e indios – persino sullo stesso pianeta – e figuriamoci allora se la stessa cosa non sarebbe potuta capitare, a maggior ragione, nell’intero universo! Non solo. Con lucido realismo, Bruno constata anche (e lo fa in più luoghi, compreso il passo riportato) che la comunicazione reciproca non ha giovato per niente, né ai razziatori, che hanno tirato fuori il peggio di sé, né ai razziati, che sono stati sterminati. L’incontro tra “alieni”, insomma, c’è già stato – è sotto gli occhi di tutti – e non si è concluso bene (e non si sapeva ancora nulla di quei primordiali incontri tra i Sapiens e gli altri ominidi da cui uscì superstite solo la nostra specie). Di qui in poi l’entusiasmo per la ricerca di altri abitanti del cosmo sarà sempre accompagnato dal timore che quel che è accaduto in America possa ripetersi, a parti invertite, con gli alieni venuti da Vega al posto dei conquistadores. Questo continuo rimpallarsi di riferimenti tra geografia e astronomia non è casuale, ma un segno di come questi due temi (il Nuovo Mondo e la pluralità dei mondi) agiscano all’unisono nell’immaginario rinascimentale e protomoderno (le stesse ambientazioni utopistiche alternano, non per nulla, isole remote del Pacifico con altri corpi celesti).
[1 - CONTINUA]
[1] Stephen J. Gould, Il pollice del panda, Il Saggiatore, Milano 2001, p. 213
[2] John Gribbin, “Soli nella Via Lattea. Perché probabilmente siamo l’unica vita intelligente della galassia”, «Le Scienze», n. 603 (11/2018), pp. 90-95.
[3] Vincenzo Barone, Albert Einstein. Il costruttore di universi, Laterza, Roma-Bari 2016.
[4] Nicolas Oresme, Livre du ciel et du monde, I, 24, 35c-39c (traduzione mia); cfr. N. Oresme, Le livre du ciel et du monde, The University of Wisconsin Press, Madison-Milwakee-London 1968, pp. 166-179.
[5] Le citazioni di Cusano sono tratte da De docta ignorantia, II, 12 (per la traduzione italiana, Nicola Cusano, La dotta ignoranza, Città Nuova, Roma 1991, pp. 153-154).
[6] Giordano Bruno, De l’infinito, universo e mondi, III, 182 (leggo in G. Bruno, Opere italiane, Utet, Torino 2002, vol. 2, pp. 87-88).
[7] Ivi, Proemiale epistola, 8 (cit., p. 11).
[8] Ivi, II, 114 (cit., p. 61).
[9] Lucrezio, De rerum natura, II, 1074-1076, citato da Bruno in De l’infinito, universo et mondi, V, 363 (cit., p. 163).
[10] Ivi, p. 164.