GABRIELLA MONGARDI
«Andiamo avanti a eventi. Io, Renato e Federico non ci perdiamo nemmeno un’inaugurazione, un dj set, uno spettacolo di luci, il concerto di una nuova band che ha l’ambizione di comporre, più che canzoni, inni generazionali. Siamo amici e coinquilini, dividiamo un grande appartamento in cui alloggia anche un quarto soggetto, un musicista. Ma lui è come se non esistesse; non perché sia sempre in tour, tutt’altro: un anno fa ha scelto di vivere da hikikomori, cioè come quei teenager giapponesi che si barricano nella propria cameretta e non ne escono più. Solo che il ragazzo in questione non è più un ragazzo, bensì un ultratrentenne come noi altri».
Così si apre il romanzo Gli eventi non finiscono mai di Fabiano Spessi, Ladolfi editore 2018, undici capitoli in cui si intrecciano storie di vite sgangherate, sospese nel limbo di un’adolescenza protratta ben oltre i trent’anni, per la mancanza di prospettive. Lavorative ed economiche, innanzitutto. Perché senza indipendenza economica si resta sempre “figli” in attesa della paghetta, mensile o settimanale, e non si diventa mai padroni della propria vita, cioè in grado di progettare un futuro «che vada oltre la serata o il weekend». E questo, anche quando a elargire la paghetta non è il padre anagrafico, ma l’agenzia o la redazione o il supermercato dove si lavora per una “paghetta”, appunto, di pochissime centinaia di euro al mese. In questo limbo non possono neanche nascere vere storie d’amore, appiattite come sono anch’esse sul presente, senza slancio progettuale e costruttivo. I protagonisti sembrano addirittura privi di appeal, come Federico che «appartiene alla categoria dei belli che non piacciono. Ha lineamenti da attore di Hollywood e un fisico da calciatore professionista, ma alle donne, belle e brutte, proprio non piace»; o come Enrico, l’io narrante, a cui un giorno la compagna improvvisamente «si è presentata a casa, in nome di una correttezza e di una trasparenza assolutamente non richieste, con la sua nuova fiamma, un modello di intimo maschile» e l’ha messo “delicatamente” fuori casa, essendo questa proprietà dei genitori di lei; Renato invece ha una fidanzata che vorrebbe sposarsi, «ma il suo innamorato traccheggia, tentenna, rimanda. Dice che per i fiori d’arancio devono aspettare il giorno in cui lui diventerà un autorevole opinionista che i media si contenderanno offrendo cifre da capogiro per un editoriale o per un’ospitata in tv». E il cerchio si chiude.
Ma certo non il romanzo, che rappresenta la normalità della vita quotidiana della generazione “perduta” dei trenta-quarantenni nell’Italia di oggi e ne adotta la lingua intrisa di anglismi a coprire il vuoto esistenziale, in una parodia amara che ha il sapore di una denuncia, ma non chiude la porta alla speranza.
I capitoli sono costruiti con una tecnica contrappuntistica (segnalata tipograficamente dall’uso del corsivo), che oppone al presente disorientato, privo di prospettive e di slanci, i ricordi d’infanzia e di adolescenza dell’io narrante: e se questo contrappunto passato-presente da un lato sfocia in un bilancio deludente perché i sogni del bambino, poi ragazzo, non si sono realizzati, dall’altro permette però di recuperare un benefico calore di vita, un po’ di fiducia nel futuro. Così, nella seconda metà del romanzo, anche la vita si rimette in moto, per ciascun personaggio, nel modo più naturale e ovvio: un bambino in arrivo, il coraggio di cambiare e di partire, la riscoperta del proprio talento di musicista… Nella società “liquida”, l’importante è imparare a nuotare. E la scrittura narrativa può essere un prezioso “salvagente”, perché permette di guardarsi con distacco e ironia.
Il romanzo per Spessi era uno sbocco obbligato: nella sua ultima raccolta di poesie, La seconda nascita, si avvertiva quasi un’insofferenza proprio per la poesia intesa come “scrittura in versi”, come registro alto della lingua; i suoi versi tendevano alla prosa sia per le scelte lessicali, sia per l’assenza di rime, sia soprattutto per un “andare a capo” che sembrava casuale, sbadato, a volte addirittura sbagliato.
Come nelle due precedenti sillogi poetiche, la scrittura “sociologica” di Spessi «non può che diventare lo specchio della nostra società disorientata, priva di prospettive e di slanci, incapace di aperture cordiali con la vita» (Giulio Greco), ma insieme si leva come lieve, tenace protesta contro il degrado e la perdita dei valori “umanistici”.