SIMONE MAMMOLA
4. Dalla Terra alla Luna e ritorno: Keplero e Galileo
Effettivamente, la questione della possibile esistenza di altre forme di vita su altri corpi celesti è un nodo cruciale nel processo di legittimazione del copernicanesimo, con la sua idea-chiave secondo cui la Terra non deve essere considerata un oggetto diverso dagli altri astri, e dunque non deve necessariamente essere l’unico luogo abitabile dell’universo. Se, anzi, si riusciranno a trovare tracce di vita altrove, ne uscirà ulteriormente rafforzata l’idea che la Terra non abbia nulla di unico o di eccezionale da farle meritare la posizione centrale del cosmo. Quel che Galileo porta all’evidenza con il cannocchiale è appunto che tra Luna e Terra non c’è una reale differenza qualitativa, ossia che la Terra è una specie di Luna e la Luna è una specie di Terra. Naturale chiedersi allora se, fra gli elementi in comune, ci sia anche l’abitabilità.
Prima ancora che Galileo effettuasse le sue osservazioni, e indipendentemente da esse, Johannes Keplero (1571-1630) aveva però già cominciato a maturare una sua personalissima ossessione per la Luna e i suoi ipotetici abitanti. Il suo percorso è un esempio molto interessante di come, al tramonto del Rinascimento, l’erudizione classica si potesse facilmente convertire in interesse prettamente scientifico, senza soluzione di continuità. Di viaggi sulla Luna la letteratura greca ne aveva raccontati alcuni, come quello di Luciano nella Storia vera, e questo spunto aveva già solleticato in tempi più recenti la fantasia di poeti come Ariosto. Keplero è però affascinato soprattutto dal testo forse più “scientifico” del lotto, il De facie orbis lunae di Plutarco, che egli traduce e chiosa fino a giungere alla conclusione che fosse possibile partire proprio di lì per fornire quella prova fisica che ancora mancava al sistema copernicano per imporsi come autentica descrizione del mondo. Un anno prima che il Nuncius Sidereus irrompesse sulla scena del mondo, Keplero iniziava così a scrivere uno stranissimo testo, intitolato Somnium, destinato a essere pubblicato solo postumo: una manciata di pagine di racconto corredate da oltre 200 note con cui lo stesso autore ne illustrava puntualmente il retroterra teorico e tecnico, quasi a voler dimostrare come dietro ogni presunta “fantasia” poetica ci fosse in realtà un ragionamento molto accurato e dimostrabile. La cornice narrativa è un capolavoro barocco. Keplero racconta, infatti, di essersi addormentato dopo aver letto un brano sulla leggenda della regine boema Libussa, nota per le sue arti magiche, e di aver sognato che delle fate gli facevano dono di un libro nel quale era riportata, in prima persona, la storia avventurosa dell’islandese Duracoto, il quale, dopo essere stato venduto dalla madre fattucchiera a un mercante e aver così girato il mondo, era infine tornato in Islanda per farsi insegnare da lei i segreti della sua arte. La donna allora aveva evocato il demone che era solito mostrarle paesi che non aveva mai visto e illustrarle storie di cui non aveva mai sentito parlare, la più straordinaria delle quali riguardava il paese di Levania, su cui la strega chiese appunto al demone di istruire anche il figlio[i]. Questo processo di ricorsivo distanziamento (un sogno con dentro un libro in cui è raccontato un discorso pronunciato da un demone) ci dà la misura della delicatezza del tema trattato. Levania, infatti, altro non è che il nome esotico di un paese che presenta tutte le caratteristiche fisiche della Luna, compresa la presenza, nel proprio cielo, di un astro che viene chiamato Volva e che manifesta a sua volta tutte le caratteristiche che avrebbe una Terra vista appunto dalla Luna (il nome stesso rimanda al suo volvere, al fatto cioè di girare su se stessa, come pensava Copernico). L’intento di Keplero è quello di usare questo labile schermo per fornire una descrizione puntuale del nostro satellite e mostrare che ci sono delle ragioni per poterlo considerare abitabile, se non addirittura abitato. La sua specificità è quella di muoversi su un piano rigorosamente fisico e razionale (Paolo Rossi ha giustamente osservato che il Somnium «segna il passaggio dalla letteratura “fantastica” sulla Luna (ispirata a Luciano e all’Ariosto) ad una “letteratura fantastico-scientifica”»[ii]). Da questo punto di vista, due sono, in particolare, i problemi che si pongono a chi vuole popolare la Luna di abitanti. Il primo riguarda la profonda differenza fra i suoi emisferi, uno dei quali (quello invisibile dalla Terra, qui chiamato “Privolvano” e tornato agli onori delle cronache perché raggiunto nei giorni scorsi da una sonda cinese) resta esposto ai raggi solari per metà mese, mentre per l’altra metà è rivolto verso la notte spaziale, con violentissime escursioni termiche; anche l’altro emisfero, quello “Subvolvano”, conosce giorni e notti molto lunghi, sebbene queste ultime siano mitigate dalla presenza nel suo cielo della Terra, che svolge una sia pur minima azione riscaldante. Un secondo problema è dato dall’apparente mancanza di pioggia e più in generale dall’apparente mancanza di un’atmosfera coi suoi conseguenti fenomeni metereologici e climatici. Come si può pensare che la vita si sia potuta sviluppare in tali condizioni?
Per ovviare a questi interrogativi, Keplero immagina che i lunari vivano per lo più sotto terra. La Luna è per lui porosa, attraversata da cunicoli e caverne che mettono in comunicazione i due emisferi, in modo tale che le acque che vengono attratte sul lato visibile durante il giorno subvolvano (e che formano quelli che ancora noi oggi chiamiamo i “mari” della Luna, le sue zone più scure) possano rifluire dall’altra parte durante la notte subvolvana a mitigare l’arsura del giorno privolvano. «I privolvani – infatti – non hanno nè un nido sicuro, nè fissa dimora; nell’arco di uno dei loro giorni vagano in schiere per tutto il globo, parte a piedi, coi quali supererebbero di gran lunga i nostri cammelli, parte con le ali, parte, navigando, accompagnando le acque che si ritirano; se hanno bisogno di sostare qualche giorno in più, strisciano alle caverne: a ciascuno secondo la sua natura. Per la maggior parte sono subacquei; tutti, vivendo, traggono il respiro lentissimamente: dunque, sott’acqua stanno in fondo, aiutando la natura con l’arte. Dicono infatti che in quei profondissimi recessi delle acque il freddo duri anche quando in superficie le onde bollono per il Sole: chiunque si trattiene in superficie, viene cotto dal Sole a picco, e diviene pasto per le orde sopravvenienti dei vagabondi indigeni. Infatti l’emisfero subvolvano corrisponde generalmente ai nostri villaggi, città e giardini: il privolvano ai nostri campi, selve e deserti. Quelli per i quali respirare è più necessario, conducono alle caverne le acque bollenti con uno stretto canale, affinchè, condotte nei loro recessi con un lungo percorso, si rinfreschino alquanto. Ivi si confinano per la maggior parte del giorno, usandole per bere; venendo la sera, escono per mangiare»[iii]. La natura di questi esseri lunari sarà per lo più serpentina: stanno come d’estate nelle cantine le botti, al fresco, anche se fuori il sole brucia ogni forma di vita. Lo sforzo che Keplero cerca di fare – e si tratta di uno sforzo sinceramente “esobiologico”, sia pure con un po’ troppa inventiva – è di provare a capire come la vita quale la intendiamo noi potrebbe comunque svilupparsi su un pianeta che ha caratteristiche climatiche così diverse dalla Terra.
Tutto questo, si diceva, prima del cannocchiale. Quando poi Keplero verrà a conoscenza delle tavole di Galileo e avrà modo di provare anche lui il telescopio, la sua fantasia, già sufficientemente accesa, non sembra più trovare limiti. Ad affascinarlo sono in particolare i crateri lunari. Scrive infatti nella Dissertatio cum Nuncio Sidereo: «non posso evitare di stupirmi riguardo a quella larga cavità circolare (…). É un prodotto di natura o dell’arte? Supponiamo che ci siano esseri viventi sulla Luna. Ne segue sicuramente che il carattere degli abitanti debba accordarsi con quello del luogo in cui vivono. Dal momento che la Luna ha montagne e valli molto più grandi di quelle della nostra Terra, essi hanno senza dubbio corpi più massicci, e costruiscono progetti giganteschi. Durante il loro giorno, della durata di quindici dei nostri, essi sopportano un caldo intollerabile. Forse, mancando di pietre per costruire protezioni contro il Sole, lo fanno invece con il suolo fangoso. Forse scavano enormi arene e, quando portano fuori la terra, la ammonticchiano in un cerchio allo scopo di prosciugare l’umidità del terreno. Così si nascondono all’ombra dei tumuli da loro scavati e, al muoversi del Sole nel cielo, si spostano in modo da restare sempre coperti. Essi realizzano poi, a tutti gli effetti, una città sotterranea, e vivono all’interno di cave nel terrapieno circolare»[iv].
Dal canto suo, Galileo era invece decisamente più cauto. Anche questo è un indizio di come la ricerca scientifica sia meno lineare di come possa sembrare a prima vista. Le basi osservative che i due avevano a disposizione erano infatti esattamente le stesse; diverso però è il giudizio che ne traevano. Se Keplero vi vide una possibile conferma delle sue elucubrazioni sui seleniti, Galileo le considerò piuttosto una loro sconfessione. Al collega, egli muove una serie di ragionevolissime obiezioni, soprattutto di carattere metodologico. Non dobbiamo commettere l’errore – dice – di cercare dappertutto analogie con quello che accade sulla Terra. “Io non credo, afferma Sagredo nel Dialogo sopra i massimi sistemi, che la Luna sia abitata da uomini”, «ma non intendo già come tuttavolta non vi si generino cose simili alle nostre, si deva di necessità concludere che niuna alterazione vi si faccia, né vi possano essere altre cose che si mutino, si generino e si dissolvano, non solamente diverse dalle nostre, ma lontanissime dalla nostra immaginazione, ed in somma del tutto a noi inescogitabili». E come un uomo che non ha mai visto il mare non potrà mai immaginarsi che esistano cose come le navi e i pesci, «così, e molto più, può accadere che nella Luna, per tanto intervallo remota da noi e di materia per avventure molto diversa dalla Terra, sieno sustanze e si facciano operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori, d’ogni nostra immaginazione, come quelle che non abbiano similitudine alcuna con le nostre, e perciò del tutto inescogitabili»[v]. In altre parole, la mancanza di piogge e i diversi ritmi notte/giorno rendono impossibile un tipo di vita come quella che fiorisce sulla Terra. Certo, se ci fossero degli altri indizi a supporto della presenza di esseri viventi, allora si potrebbe anche teorizzare che, in mancanza di acqua piovana, la vita possa svilupparsi grazie a rugiade o inondazioni che non percepiamo direttamente, ma senza questi elementi si tratta solo di poco verosimili congetture ad hoc[vi]. La questione resta comunque aperta, perché nulla vieta che possano esistere viventi di altro tipo.
Tommaso Campanella, in una sua lettera dal carcere, aveva paragonato Galileo a un secondo Vespucci, capace di scoprire un “nuovo mondo” celeste come l’altro aveva scoperto un “nuovo mondo” terrestre («Americus novo mundo terrestri nomen, tu novo caelesti, dabis»[vii]). Ma se Vespucci era arrivato alla conclusione che la terra scoperta da Colombo non era l’Asia anche a partire da un esame attento delle specie viventi lì presenti, Galileo non troverà mai traccia certa di vita nei cieli. Qui possiamo cogliere il ruolo ambiguo giocato dal telescopio nella nostra indagine. Per un verso esso mostra infatti una somiglianza tra Terra e Luna che sembrerebbe abbattere ogni distinzione e giustificare l’abbandono del sistema gerarchico tolemaico; d’altro canto, esso però svela anche delle irriducibili differenze: per quanti simili, la Terra e la Luna non sono identiche. Si poneva così agli albori dell’esplorazione planetaria lo stesso problema che impegna ancora noi oggi. Con gli strumenti a nostra disposizione siamo infatti grado di individuare pianeti potenzialmente abitabili più lontano di quanto si sia mai fatto finora (ultimi in ordine di tempo, i sette esopianeti del sistema Trappist-1). Ma con quegli stessi, potentissimi, strumenti, di vita ancora non ne abbiamo trovata.
5. Fontenelle alla guerra dei mondi
L’idea della possibile abitabilità di altri mondi oltre la Terra fa comunque breccia nella cultura seicentesca, che esplora da subito, e con svariate ramificazioni, le implicazioni deducibili dalle osservazioni galileiane[viii]. Una summa delle nozioni correnti a livello di opinione pubblica colta alla fine del secolo è fornita, a tale proposito, dalle Entretiens sur la pluralité des mondes di Fontenelle (1657-1757), opera del 1686 in cui un appuntamento semigalante sotto le stelle fra l’erudito e una marchesa offre il destro a un’articolata presentazione, in forma dialogica, delle principali acquisizioni dell’astronomia post-copernicana (che, nel frattempo, aveva fatto ulteriori progressi rispetto ai tempi di Keplero e Galileo: Cassini, per dirne uno, aveva pubblicato nel 1679 una carta della Luna così dettagliata che, secondo Fontenelle, «un sapiente che vi si trovasse non si potrebbe smarrire, proprio come non mi smarrirei io a Parigi»[ix]). Così, quella che originariamente appare come una “follia” per colpire l’attenzione del pubblico – che, cioè, ci possano essere altri mondi abitati nell’universo – poco per volta appare come un ipotesi sempre più verosimile. Fontenelle esplicita ciò che era già implicito in Keplero: «badate, Signora, che se la Luna rassomigliasse molto alla Terra, sareste costretta a considerarla abitata»[x]. Ma soprattutto esplicita l’impianto razionalista della ricerca, quando afferma che «i ragionamenti dei matematici sono come l’amore. Se fate una piccola concessione a un innamorato, ben presto dovrete accordargli di più, e la cosa vi può condurre un po’ troppo lontano. Allo stesso modo, se condividete il minimo principio di un matematico, ne trarrà una conseguenza che dovrete ugualmente condividere, e dopo questa conseguenza ne verrà un’altra, tanto che, vostro malgrado, vi condurrà tanto lontano che stenterete a credergli»[xi]. È l’argomento del “perché no?”, che ha il merito di spostare l’onere della prova sui sostenitori dell’eccezionalità della Terra nell’economia del creato. «Quel perché no? avrà la virtù di popolare tutto. Come sappiamo, i pianeti sono tutti della stessa natura; sono corpi opachi che ricevono la luce dal Sole e se la rinviano l’un l’altro facendo gli stessi movimenti; con tutto ciò dovrebbe essere concepibile che questi grandi corpi siano stati fatti per non essere abitati, che è questa la loro condizione naturale, con una sola eccezione, appunto, a favore della Terra? Chi vuol crederlo, lo creda pure; per conto mio l’idea è inaccettabile»[xii].
Naturalmente, se il filo conduttore è quello della somiglianza, non ci sarà spazio per creature come gli ipotetici “solari” di Cusano, giacché è evidente che il Sole è un corpo speciale con caratteristiche totalmente diverse dagli altri pianeti. Si tratterà di forse di esseri umani? Da buon libertino, Fontenelle si rivolge a chi ha orecchie per intendere: no, ma… : «quando sentite dire che la Luna è abitata, voi vi figurate subito degli uomini fatti come noi, poi, se siete un po’ teologi, vi trovate immediatamente in difficoltà. La posterità di Adamo non ha potuto estendersi fino alla Luna, nè inviarvi colonie. Per cui gli uomini che si trovano sulla Luna non sono figli di Adamo. Ora, sarebbe imbarazzante per la teologia che vi fossero degli uomini che non discendessero da lui. Non è necessario dire di più, tutte le difficoltà immaginabili si riducono a questa… L’obiezione verte dunque interamente sugli uomini della Luna, ma sono coloro che sollevano questa obiezione a voler mettere degli uomini sulla Luna; io, non ve ne metto affatto. Vi colloco bensì degli abitanti che non sono assolutamente uomini; che cosa sono allora? Ebbene, non posso parlarne come se li avessi visti, perchè naturalmente non li ho visti. E non pensate che se dico che non vi sono uomini sulla Luna, si tratti di una scappatoia per eludere la vostra obiezione; vedrete che è impossibile che ve ne siano; secondo la mia convinzione, la natura deve aver messo nelle sue opere una diversità infinita»[xiii]. Tutto il dialogo è del resto finalizzato a ridimensionare la centralità dell’uomo nella vastità di un cosmo infinito e a stemperare la presunzione di chi immagina che l’intero universo sia stato apparecchiato solo per noi. Davvero, si può sul serio pensare che la natura, dopo aver popolato di esseri viventi anche gli interstizi più minuscoli della materia (come recentemente mostrato dai microscopi), possa essere rimasta sterile negli spazi immensi che si dilatano oltre l’atmosfera terrestre?
Questa postulata diversità colora però di tinte ancora più sinistre quel riferimento a ciò che si era imposto come modello paradigmatico di incontro con l’altro, quella scoperta dell’America già evocata da Bruno. Per Fontenelle, infatti, non è impossibile immaginare «che vi potranno essere un giorno delle relazioni commerciali fra la Terra e la Luna. Cercata d’immaginare lo stato in cui si trovava l’America prima di essere scoperta da Cristoforo Colombo. I suoi abitanti vivevano in uno stato di estrema ignoranza; non solo non conoscevano le scienze, ma neppure le arti più semplici e necessarie. Vivevano nudi, come armi non possedevano che l’arco e non avevano mai concepito che gli uomini potessero essere portati dagli animali; guardavano il mare come un grande spazio proibito che si univa al cielo e al di là del quale non vi era nulla. Passavano anni interi scavando tronchi d’albero con pietre taglienti, poi, a bordo di questi tronchi, prendevano il mare e costeggiavano, portati dal vento e dalle onde. Ma le loro imbarcazioni erano di quelle che si rovesciavano spesso, per cui dovevano mettersi in acqua per raggiungerle e capovolgerle e, a dire il vero, nuotavano sempre tranne quando si riposavano. Se avessero detto loro che esisteva una navigazione infinitamente più perfetta, che il mare si poteva attraversare in tutti i sensi, anche fermandosi immobili sulle onde agitate, padroni della propria velocità, e che quella distesa di acqua non era un ostacolo alla comunicazione fra i popoli, purchè ci fossero popoli dall’altra parte, non ci avrebbero creduto, statene certa. Eppure, ecco che un bel giorno si presenta ai loro occhi lo spettacolo più straordinario e imprevisto. Giungono, volando sul mare, enormi strutture munite di ali bianche, che vomitano fuoco da tutte le parti e che scaricano sulla riva gente sconosciuta, coperta di scaglie di ferro; individui che dispongono di mostri sulla cui groppa siedono, e che stringono in mano saette con le quali possono abbattere ogni resistenza. Da dove sono venuti? Chi ha potuto condurli attraverso i mari? Chi ha messo il fuoco a loro disposizione? Sono forse i figli del Sole? Perchè certamente non sono uomini. Non so se voi, signora, potete penetrare come me la sorpresa degli americani, ma credo che mai al mondo ve ne sia stata un’altra uguale. Dopo di ciò, non me la sento di giurare che non si potranno stabilire un giorno relazioni fra la Terra e la Luna. Gli americani avrebbero creduto di stabilirne mai fra l’America e l’Europa che non conoscevano neppure? È vero che bisognerà superare il grande spazio di aria e di cielo che ci divide, ma i grandi oceani non erano invalicabili per gli americani di allora?»[xiv]. Fontenelle non rovescia apertamente il punto di vista – anzi, quando parla dell’ordine con cui vanno conosciute le cose, lascia intendere che saremo comunque noi umani, una volta esplorata per intero la Terra, in gran parte ancora incognita, a fare visita agli abitanti della Luna. Tuttavia, non si può provare un brivido freddo al pensare che quello stesso ragionamento può tranquillamente essere rovesciato, facendo assumere questa volta a noi, provinciali del sistema solare, quello che avevano subito gli indios all’arrivo degli europei. La strada per arrivare alla guerra dei mondi di Wells è tracciata – e credo che sarebbe possibile ricostruire una vera e propria genealogia del tema delle invasioni aliene che in ultima analisi trovi nelle pratiche coloniali del Cinquecento la sua origine (e anche la sua cattiva coscienza).
6. L’odissea nello spazio di Christiaan Huygens
Fra i grandi astronomi del ‘600, accanto ai già citati Keplero, Galileo e Cassini, un posto di primo piano va assegnato anche a Christiaan Huygens (1629-1695), uno dei quattro geni che Locke cita espressamente nell’epistola dedicatoria del Saggio sull’intelletto umano per dire che non tutti si può essere come loro (per la cronaca, gli altri sono Newton, Boyle e Sydenham). Il suo nome è in particolare legato all’osservazione di Saturno – di cui osserva per primo una delle lune, Titano, e a proposito del quale teorizza che sia circondato da un anello sottile (mentre Galileo pensava fosse un microsistema composto da tre corpi distinti) – ma ciò che qui ci interessa è un’opera postuma intitolata Cosmotheoros, qualcosa come “spettatore del cosmo”, forse il primo testo programmaticamente esobiologico degno di questo nome[xv]. Huygens conosce infatti, e cita, tutti gli autori che abbiamo sin qui incontrato, da Cusano in poi, ma rivendica per il suo trattato un tono decisamente più sistematico e organico. Il fatto che lo presenti come un insieme di “congetture” non deve trarre in inganno. In due paragrafi, ci viene offerta una mirabile lezione di metodo, che ci riporta alla questione dell’immaginazione da cui eravamo partiti: «se qualcuno afferma che nel far questo noi mettiamo capo ad un’opera inutile e vana, avanzando congetture su questioni di cui noi stessi confessiamo non si potrà mai sapere nulla di certo, rispondo allora che tutto lo studio della fisica, in quanto si propone di portare alla luce le cause delle cose, dovrà essere respinto per la stessa ragione; massima lode spetta a chi trova qualcosa di verosimile ed è l’indagine stessa delle cose, sia di quelle supreme, sia di quelle più nascoste, a procurare piacere. Ma molti sono i gradi della verosimiglianza, alcuni più vicini di altri alla verità: e in questa scrupolosa valutazione consiste soprattutto l’uso del giudizio».
Anche per Huygens il punto di partenza non può che essere Copernico e la detronizzazione della Terra dal cuore del cosmo. E anche lui esplicita il punto-chiave: se il nostro pianeta non presenta differenze essenziali rispetto agli altri, non si vede per quale motivi questi ultimi non debbano essere anch’essi abitati. Per un olandese del secolo d’oro, figlio di uno dei primi mecenati di quel Rembrandt che aveva ritratto all’opera il dottor Tulp in una sua dissezione, non dev’essere stato difficile stabilire un paragone con le congetture degli anatomisti, che dalla disposizione degli organi interni di un animale deducono simili disposizioni in animali simili. É pur vero che Dio avrebbe il potere di creare essere così diversi fra loro da vanificare qualsiasi valore euristico dell’analogia, ma non è necessario che sia così (in un certo senso, viene qui rovesciato il postulato di Oresme). Prova ne sia – ancora una volta, ma con diverso intento – quello che avviene sulla Terra: Dio avrebbe potuto creare in America delle specie totalmente differenti da quelle a noi familiari, ma non l’ha fatto – e con tutte le loro peculiarità, gli animali del Nuovo Mondo presentano pur sempre delle sostanziali somiglianze con quelli del Vecchio (non era ancora stato scoperto l’ornitorinco e la paradossale fauna australiana). Le diversità impediscono una previsione sicura al dettaglio, ma le affinità permettono l’esercizio del ragionamento analogico: per esempio, gli eventuali abitanti di altri pianeti dovranno nutrirsi o riprodursi, quindi dovranno essere dotati di adeguati apparati organici, le cui caratteristiche si possono provare a immaginare a partire da quel che sappiamo del loro habitat. Posto dunque che degli alieni ci devono pur essere, perché non si può immaginare che solo la Terra goda del privilegio della vita, essi richiederanno, per esistere, di umidità; ma se su un altro pianeta c’è umidità, ci saranno anche erbe, e se ci saranno erbe, ci saranno degli erbivori che se ne nutrono, e così via. Da questo punto di vista, come già aveva notato Galileo, la Luna non appare molto ospitale, a meno di non avventurarsi in pericolosissime interpretazioni di fenomeni dubbi e poco evidenti (come aveva fatto Keplero, il quale – a sostegno dell’ipotesi della presenza di un’atmosfera lunare – ricordava sempre quanto gli aveva confidato il suo maestro Maestlin, il quale si era detto convinto di avere visto un giorno una macchia simile a una nube comparire sulla superficie della Luna[xvi]). Ma gli strumenti, da quei giorni, si sono affinati. Huygens punta decisamente il cannocchiale su Giove e lì sì che scorge continui mutamenti di forme che fanno pensare al moto delle nubi e alla presenza di quell’atmosfera che renderebbe più plausibile la presenza di vita.
Di questi ipotetici gioviani si può supporre che abbiano dei corpi giganteschi, proporzionati alla vastità del loro mondo, che sarebbe impossibile da visitare ed esplorare se fossero troppo piccoli. Questo, per lo meno, vale per quelle specie a cui sarà possibile attribuire una forma di intelligenza e che devono perciò essere state messe da Dio in condizione di esercitarla nell’ambiente in cui vivono. È verosimile, infatti, che tali specie esistano, come corollario del principio secondo cui ci deve essere vita anche altrove nel cosmo, nonché come ripresa del principio fontenelliano del “perché no?”: se c’è vita, perché non potrà essere intelligente? Cosa lo vieta? Siamo abituati a pensare, da lettori di Spinoza, che la critica all’antropocentrismo debba provenire da un modo di ragionare antifinalistico: ecco qui che il finalismo viene invece impiegato, su scala cosmica, per provare che nell’universo ci devono essere altre creature dotate di ragione come noi. Ciò non significa che debbano essere “umani”. Huygens si spinge infatti a denunciare il carattere totalmente pregiudiziale della preferenza estetica da noi spontaneamente accordata alla forma umana (che ci ha spinto, per esempio, a immaginare gli dei come se avessero il nostro aspetto). Certo, la struttura del corpo umano presenta una sua logica architettonica, ma esistono, per così dire, moltissimi altri schemi altrettanto coerenti che potrebbero funzionare in modo altrettanto efficiente, fatta salva la presenza di organi come gli occhi e di apparati come le mani e le dita, senza le quali sembra impossibile pensare che una creatura dotata di un bisogno di conoscenza possa dotarsi di strumenti tecnologicamente avanzati per soddisfarlo fino in fondo. Un punto di contatto tra questi mondi sarà fornito dalle leggi fondamentali della ragione, in particolare quelle della matematica, universalmente valide e dunque eventualmente in grado di offrire una possibile base di comunicazione tra di essi. Tutte queste elucubrazioni non ridurrebbero di uno iota la meraviglia che proveremmo qualora avessimo la reale possibilità di andare a vedere coi nostri occhi quello che c’è realmente sugli altri pianeti, conclude Huygens, perché le nostre congetture sono solo parziali, ma poiché la possibilità di questo viaggio ci è del tutto impedita, dovremmo accontentarci di studiare i corpi celesti per quello che è possibile analizzare da quaggiù. Che è bene o male quello che continuiamo in fondo a fare ancora noi oggi, trascinati dalla stessa curiosità di vedere che cosa c’è oltre.
2 – FINE
Bibliografia minima (esclusi i testi citati in nota)
Steven Dick, Plurality of Worlds. The Extraterrestrial Life Debat from Democritus to Kant, CambridgeUniversity Press, Cambridge 1982.
Giulio Giorello, Elio Sindoni, Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente nell’Universo, Raffaello Cortina, Milano 2016.
Jim al-Khalil, Alieni. C’è qualcuno là fuori?, Il Saggiatore, Milano 2017.
[i] Si noti, en passant, che questo demone è detto essere uno dei nove della sua stessa specie – numero sospetto, come quello delle Muse. Il fatto che faccia vedere cose invisibili agli occhi e mostri quello che a prima vista è sconosciuto può essere considerato un camuffamento della scienza in generale e dell’astronomia in particolare (la quale, coi suoi ragionamenti, può in effetti farci conoscere, come se fossero davanti ai nostri occhi, mondi che in realtà sono distantissimi da noi). Curiosamente, da Keplero a Maxwell, passando per Cartesio, i demoni hanno dato una grossa mano allo sviluppo del pensiero scientifico moderno.
[ii] Paolo Rossi, “L’universo infinito e i mondi abitati”, in Id., Storia della scienza, Utet, Torino 1988, vol. 1, p. 333.
[iii] Johannes Kepler, Somnium, Theoria, Roma-Napoli 1983, p. 57.
[iv] Testo latino in Ioannis Kepleri, Dissertatio cum Nuncio Sidereo, Praga, Typis Danielis Sedesani, 1610, p. 17.
[v] Galileo, Dialogo, p. 76-77. Un esempio del tutto analogo era già presente nel De facie plutarchiano, anche se giocato in chiave “possibilista”: «è come se, non potendo giungere a toccare il mare e dovendoci limitare a osservarlo di lontano sapessimo nondimeno che la sua acqua è amara, imbevibile, salmastra: chi ci venisse a dire che esso ospita nelle sue profondità animali numerosi grandi e molteplici e che è pieno di bestie per le quali l’acqua è ciò che per noi l’aria – costui, diremmo, racconta miti e favole impossibili. Eppure questa è propriamente la realtà, questo è il nostro punto di vista nei confronti della luna quando ci rifiutiamo di credere che degli uomini possano abitarla. Penso addirittura che loro, gli abitanti di lassù, ravvisano nella terra una sorta di sedimento e feccia dell’universo, che a fatica traspare tra umori foschie e nebbie al fondo di uno spazio buio e immobile, avrebbero ben altre difficoltà ad ammettere che essa generi e allevi animali dotati di movimento, respiro e calore» (940 D-E) (Plutarco, Il volto della luna, Adelphi, Milano 1991, p. 102).
[vi] Ivi pp. 124-125.
[vii] Tommaso Campanella a Galileo Galilei, 13 gennaio 1611, in Le opere di Galileo Galilei, Barbera, Firenze 1934, vol. XI, p. 24.
[viii] Una brillante ricostruzione di alcuni di questi momenti la si può leggere in Massimo Bucciantini, Michele Camerota, Franco Giudice, Il telescopio di Galileo. Una storia europea, Einaudi, Torino 2012.
[ix] Bernard de Fontenelle, Conversazioni sulla pluralità dei mondi, Theoria, Roma-Napoli 1984, p. 62.
[x] Ivi, p. 56.
[xi] Ivi, p. 104.
[xii] Ivi, pp. 79-80.
[xiii] Ivi, p. 33.
[xiv] Ivi, pp. 66-67.
[xv] Christiaan Huygens, Kosmotheoros sive De Terris Coelestibus, earumque ornatu, conjecturae, L’Aja, apud Adrianum Moetjens, 1698. Le traduzioni riportate sono mie.
[xvi] Maestlin aveva raccontato a Keplero come, al tramonto della domenica delle Palme del 1605, «nel corpo della Luna in eclissi che mostrava il colore di un ferro incandescente, si vide, verso nord, una certa macchia nereggiante più oscura del resto del corpo; si sarebbe detta una nuvola estesa su più regioni, gravida di piogge e di rovesci tempestosi: come quelel che non raramente capita di vedere guardando, dai gioghi di alte montagne, nei luoghi più bassi delle convalli» (186, n. 223). Interrogatolo nuovamente anni dopo sulla stessa questione, Maestlin gli avrebbe confermato «che quella macchia era di un’estensione non volgare, ma occupava più o meno metà del diametro» (J. Kepler, Somnium, cit., p. 186, n. 223).