YVONNE FRACASSETTI BRONDINO
Si apre in punta di piedi l’ultima raccolta di Gabriella Mongardi (Silvae – Giuliano Ladolfi editore), nel silenzio e nella leggerezza di passi capaci di andare oltre le vane passioni degli uomini, di cogliere lo stupore del mattino / finché ci è donato, di respirare un soffio d’eternità. Chiude sullo smarrimento di fronte alla vita simile ad un bosco impenetrabile: Invisibile la traccia, / invisibile il termine / del nostro cammino.
Tra l’incipit, sui passi di Orfeo che deve proseguire il cammino senza voltarsi indietro e l’incertezza della chiusa con Les adieux – non sappiamo dove … andranno le nostre vane parole – cinquanta componimenti poetici tracciano un sentiero di vita ora delicato e leggero, ora dubbioso e spietato, alla ricerca di punti fermi, di ancore, di illusioni memorie slanci, altrettante approssimazioni successive con cui si costruisce la vita.
A voler seguire questo sentiero insieme all’autrice, ci si accorge che il silenzio e la dolcezza della dimensione esistenziale, il rispetto di questa sfera evanescente e quasi impalpabile, stanno come la lanugine dei sogni che dondola al vento e, quasi irraggiungibile, lascia spazio al vuoto e al nulla. La natura stessa, che la poetessa percepisce con estrema sensibilità e dolcezza, si tramuta rapidamente in un inganno. Il canto del mare, musica trascendentale, che arpeggia notturno sulla spiaggia, finisce per inghiottire ogni bellezza nella rapinosa foga della risacca. Non rimane che freddo, solitudine e distanza. La nebbia – le brouillard – è l’elemento più idoneo a tradurre questo stato d’animo perché è ad un tempo soffice e inafferrabile, le brouillard emplit mon coeur de douceur ma assume la couleur du froid et du silence, de la distance et de la solitude.
Sovente, a segnare il passaggio traumatico dal soffio di eternità allo sgomento del reale, è la dimensione del Tempo. La clessidra e il pendolo o semplicemente il ciclo delle stagioni, il sopraggiungere dell’autunno che fa divampare la passione dei boschi e trascina gli anni / nel risucchio del Tempo. Peggio, l’autunno libera gli alberi dal dovere di mentire, li priva della loro chioma e cala il sipario sulla commedia / dell’estate rigogliosa. Quando la realtà vede crollare tutte le illusioni, quando a Porto Vecchio si vedono soltanto relitti di navi abbandonate, moli e bitte dove nessuno più attracca, … quando la ripa frana in un inarrestabile congedo, allora la realtà si nasconde alla vista, si fa assenza, orme, tracce, non più percezione immediata, ma risonanza indovinata, vuoto e lontananza. Talvolta, come in Taliarco, lo sgomento raggiunge una violenza disperata: Sangue di schegge spruzzi il vuoto tagliente,/ a tastoni si cerchi il varco / strozzato – le mani protese a respingere / Nulla. Come non ricordare l’angoscia esistenziale dei versi del Meriggiare pallido e assorto di Montale che, con la stessa allitterazione secca e asciutta, ascolta tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi per poi seguire una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Anche se l’espressione del vuoto raggiunge di rado questi livelli di durezza ed è mitigata da immagini di bellezza prese a prestito dalla natura, l’animo del poeta rimane sofferente: Ma non c’ è pioggia che ristori la mia arsura, che plachi / la guerra in cui sono nata / l’assalto dei miei crudeli fantasmi. L’attesa è un tema ricorrente (Ho perso il conto/ dei giorni dell’attesa), accanto alla solitudine (Arrenditi. … un nido di paglia è tutto/ ciò che ti serve – /non più candele/ né ali – / soltanto un nido solitario). La nostalgia di un mondo più semplice e quindi più felice, quello dell’infanzia, si fa sentire nei deliziosi versi di Lasciatemi ritornare bambina… con la vita che occhieggia tra le dita / tutto l’incanto del futuro. Ma anche il rimpianto (o la fierezza) di non essere mai riuscita a stare al gioco delle regole della vita, come il padre quando giocava a scacchi e si immedesimava nelle magiche mosse del vincitore mentre lei, a guardarlo, ne traeva una lezione di vita categorica: Io non ho mai voluto ricordare / le regole d’un gioco che t’illude / d’essere un dio, un generale / onnipotente – mentre / sei solo una pedina / che nemmeno vede il recinto / della scacchiera. Anche di fronte alle sue montagne, sirene di pietra, (meravigliosamente cantate nella raccolta La stanza segreta, ed. Spigolatori 2018), fonti di ineffabile bellezza, come quando Il vento arruffa / la criniera di neve / alla montagna, / ne fa pulviscolo di luce / vibrazione di vita, si tratta soltanto di una piccola favola e la fragilità umana s’inganna trattando l’ombre come cosa salda.
Se, a nostro parere, il turbamento esistenziale rimane l’elemento forte di questa poetica, non riesce tuttavia a sopraffare il soffio vivifico della bellezza e della vita. A salvarlo, sono due elementi di equilibrio: la consapevolezza della legge degli opposti e la poesia.
Se è vero che la nebbia ci isola, lo fa con le sue braccia di piuma; se è vero che la mappa della primavera è sempre da inventare, che tocca a ognuno saper cogliere la poesia laddove si offre, la mia mappa – dice l’autrice – non segna la carezza del sole, ma le stecche del ventaglio, le pieghe delle rughe, lo scatto che le chiude (con un’altra tagliente ed efficace allitterazione) e, aggiunge, non la so decifrare. Allora il senso della vita, forse, sta in questo alternarsi di luci e ombre, di infiniti sbilanciamenti alla ricerca di un equilibrio e della felicità. È il flusso e riflusso del mare, come la vita, fatta di parole e silenzi / assenze e arrivi / incontri e attese … Dammi la voce delle tue onde – implora la poetessa – / la forma del tuo respiro / la passione incessante degli opposti . Ecco, proprio nella capacità di cogliere l’unità degli opposti sta il senso della vita, come il mare dopo la mareggiata, il mare che infuria e infierisce … squassa gli abissi, sputa schiume e detriti … ma lascia orecchini d’oro e di giada / sulla riva sassosa / copre di carezze di sabbia / le sue ferite.
Dopo Montale, è d’obbligo ricordare l’altro grande poeta del Mediterraneo, Albert Camus, che tra l’assurdo e l’amore del vivere, tra questo rovescio e questo diritto del mondo, non volle mai scegliere, perché il senso sta soltanto nell’unità. Vince allora il desiderio di osmosi, la profonda sensazione del tutt’uno, la pienezza dell’essere negli attimi magici in cui si coglie l’unità del creato. È quello che percepisce l’autrice quando abbraccia Lou merze gros (Il grande larice): Ho abbracciato un albero / immenso, / padre figlio fratello, / ho fatto il nido / fra le sue radici, / ho imparato / l’alfabeto dei suoi rami, / la sua lingua / di vento.
Il secondo elemento di salvezza è la scrittura poetica quando canta il miracolo / dell’esserCi, quando cioè coglie il ritmo di un contatto profondo / con i ricordi e con i sogni. Il poeta non ha segreti del mestiere da rivelare, ha da offrire una visione abbagliante / una lente translucida per riflettere, come uno specchio, la profondità del mondo e la dimensione dei nostri fantasmi. Ma anche lo scrivere ha un diritto e un rovescio: Scrivo per errore, / perché l’Amore / è indicibile ma a non dirlo / mi scoppia il cuore.
Il cerchio è chiuso.