ATTILIO IANNIELLO
Quando ho aperto la prima pagina del romanzo breve di Marzia Verona “Il canto della fontana” sono rimasto piacevolmente colpito dall’incipit: «Gli occhi non mi facevano più male, da quando avevano ripreso a guardare lontano».
La frase era di buon auspicio, chi sa guardare lontano, chi sa posare lo sguardo sulle cose, sulla realtà lontana diventa osservatore anche di ciò che è vicino, di ciò che è addirittura all’interno dell’osservatore; uno sguardo, per farla breve, che sa posarsi su una linea che va dall’animo all’orizzonte e dall’orizzonte all’animo con una visone abbracciante tutta la realtà.
Con una scrittura piana, coinvolgente a tratti di prosa poetica, Marzia Verona accompagna il lettore nella storia di un giovane uomo che in modo brusco, drammatico, si rende conto di aver speso la propria vita in un vortice virtuale («Avevo vissuto più nel virtuale che nella concretezza quotidiana», pag. 95), che lo ha reso straniero a se stesso e a chi lo amava.
Rimasto solo di fronte alla tempesta (esistenziale) non gli rimaneva che la fuga, atto che «permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione» come scrive in metafora marinaresca Henri Laborit nel suo Elogio della fuga.
Il protagonista quindi inizia a percorrere sentieri di montagna, quelli poco battuti che non portano verso vette, colli, rifugi o laghi, ma si interrompono in borgate ormai disabitate, con baite spesso ormai invase dalla vegetazione.
In una di queste sue peregrinazioni escursionistiche si accorge di stare camminando «lungo un antico canale che doveva aver portato l’acqua all’alpeggio» (pag. 25), un canale che qualcuno aveva voluto abbellire con un ingresso a galleria formato da rami intrecciati.
Comincia quindi una sorta di percorso iniziatico che lo costringerà anche a camminare a carponi fino all’arrivo ad una piccola radura dove alcune baite, ma soprattutto una fontana ancora attiva lo accolgono: «… rieccomi in un villaggio abbandonato. Le rocce sovrastanti l’insediamento formavano dei gradini naturali che conducevano tra le case. Li scesi con un’urgenza improvvisa, arrivando in una specie di cortile circondato da abitazioni su tre lati. A ridosso di una di queste c’era una fontana diversa dalla maggior parte di quelle che avevo incontrato nelle mie recenti esplorazioni tra gli antichi borghi di montagna: non era asciutta e muta, lì l’acqua scorreva» (pag. 27).
La borgata di Vignali, così si chiamava il gruppo di baite, diventerà il luogo dell’educazione sentimentale alla vita del protagonista, il quale in una sorta di diario esistenziale ci accompagna nella sua (nostra?) riscoperta della natura.
Le pagine che seguono non possono portare alla mente il libro di Henry David Thoreau Walden, ovvero vita nei boschi dove si può trovare questa dichiarazione di intenti: «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto». Quasi che “Il canto della fontana” potesse anche intitolarsi “Vignali, ovvero vita nelle baite”.
Qui la natura si rivela continuamente al protagonista; rivela nel senso pieno e duplice del termine ossia si svela, si mostra e nel contempo si rivela, si nasconde di nuovo nel velo della misteriosità, della percezione individuale, quella che solo la poesia può cercare di comunicare. Infatti, come ho già avuto modo di scrivere, spesso la prosa di Marzia Verona si trasforma in prosa poetica di grande suggestione e coinvolgimento. La stella che tramonta dietro gli alberi del bosco, lo stormo di gru che come un graffito celeste sorvola la borgata, la danza della felce, ma anche il temporale, la pioggia che addirittura si trasforma in alluvione, la neve; e le stagioni e la nuova percezione del tempo sono gradini di una scala esistenziale di conoscenza dei sensi e delle emozioni che trasformano in modo assoluto Emiliano Donati, così infatti si chiama il protagonista, ma, lo scopriamo solamente nelle ultime pagine del romanzo. Prima rimane un senza nome, forse, un escamotage letterario attraverso il quale Marzia Verona desidera che ciascuno di noi possa immedesimarsi, calarsi nei panni del ricercatore di senso.
Il protagonista non sarà solo in questa nuova fase della sua vita. Arriveranno da lui casualmente un cane, Bingo, un gattino, Minù e delle caprette. Questi compagni della sua solitaria quotidianità saranno a loro volta interpreti, mediatori tra l’uomo e la natura che lo circonda.
La borgata di Vignali diventa pagina dopo pagina il grembo materno da cui un giorno il protagonista dovrà uscire perché il canto della fontana è un canto eterno che nessuna vallata può tenere chiuso in sé.
Marzia Verona, Il canto della fontana, pentàgora 2018. Premio Prole di Terra 2017.
Il libro è stato presentato presso il Comizio Agrario di Mondovì in occasione della premiazione “Donne in agricoltura”.
Marzia Verona è appassionata di montagna e fotografia; da qualche anno per amore e per piacere alleva capre sulle Alpi. Coltiva il blog Di terre, erbe, pietre, bestie e persone. Ha scritto numerosi libri sulla pastorizia; l’elenco completo si trova nel suo sito http://www.marziamontagna.it/. Il canto della fontana è il suo primo romanzo.
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