SILVIA PIO
Siamo tutti poeti, perché tutti siamo in grado di cogliere l’ineffabile e il misterioso che si trova dietro la realtà: la bellezza e la spietatezza della natura, la profondità dei sentimenti e l’intensità dell’attimo che fugge.
Ma questo non vuole dire che tutti siamo in grado di scrivere poesie. Tale attività presuppone un esercizio e una pratica alle quali raramente si pensa quando si parla di poesia.
Margutte vuole umilmente mettere a disposizione la sua esperienza redazionale per compilare una lista di consigli destinati a chi si accinge all’arduo compito di scrivere poesie.
1- Prima di scrivere bisogna leggere.
Come per la prosa, si acquista dimestichezza con la scrittura di poesia soltanto leggendone più esempi possibili. In primo luogo, i classici, i poeti mal sopportati a scuola che senza dubbio sono grandi e hanno molto da insegnare. Poi i contemporanei, i più famosi ma anche quelli sconosciuti. Sarebbe sempre meglio leggere le poesie nella lingua in cui sono state scritte e non in traduzione, quindi iniziamo dai poeti italiani, che per fortuna sono davvero tanti.
2 – Trovare lo stile.
Ci saranno poeti che ci piacciono più di altri: vale la pena capire perché. Che cosa c’è nei loro versi che ci attrae, quali argomenti ma anche quali forme e quali suoni? In qualsiasi libro di letteratura delle scuole si trovano informazioni su componimenti, metrica, figure retoriche: tutti elementi fondamentali per la poesia. Anche il verso libero ha un suo ritmo e usa il linguaggio figurato.
Il poeta che ci piace di più potrebbe ispirare i nostri primi tentativi di scrittura, che come spesso capita saranno di copiatura.
3 – Non aver paura di strappare il foglio.
Spesso prima che uno scritto prenda forma poetica deve passare attraverso numerose stesure e ripensamenti. Ancora più spesso la prima versione è da buttare: facciamolo. Se lasciamo spazio, arriveranno altre parole e altri versi più belli.
“Il primo verso è un dono degli dei”, diceva Valéry; non aspettiamoci che a quel verso così perfetto, che ci è venuto da chissà dove, ne seguano altri altrettanto facili. L’ispirazione è importante per iniziare, ma per terminare ci vuole lavoro artigianale sulla parola.
Lasciar riposare per giorni o addirittura mesi le poesie che abbiamo scritto può essere una buona pratica: crea il distacco necessario per rileggere con mente più obiettiva.
4 – Declamare!
Quando pensiamo di aver raggiunto un buon risultato, leggiamo la nostra poesia a voce alta. Leggiamo a voce alta anche il nostro poeta preferito, alternandolo alle nostre composizioni. È un buon modo di capire se siamo, non dico all’altezza del poeta, ma almeno in grado di risuonare con altrettanta forza e intensità.
La poesia è musica e deve diventare suono per poter essere ascoltata come tale.
5 – Far leggere a chi può stroncarci.
Una critica spietata insegna più di cento lodi. Non cerchiamo il consenso ma l’appunto.
Possiamo anche non essere d’accordo con le critiche, ma dobbiamo essere in grado di difendere fortemente la nostra posizione e giustificarla, altrimenti significa che la nostra scelta non è abbastanza fondata.
Però non aspettiamoci che i poeti più navigati abbiano voglia e tempo di occuparsi dei nostri componimenti; prima cerchiamo online, o presso le case editrici, i servizi di valutazione dei manoscritti, che a volte sono gratuiti.
Non sottoponiamo mai le nostre poesie per la lettura critica prima di aver seguito tutti i punti che precedono questo.
6 – Chiedersi perché.
Potrebbe essere una buona pratica domandarci perché scriviamo e perché vogliamo che qualcuno ci legga. Ci sono motivazioni deboli e motivazioni forti, e ognuno ha le sue, ma vale la pena sondarle e meditarci sopra.
Terminiamo con una pertinente citazione da Lettere ad un giovane poeta di Rilke (che senz’altro consigliamo all’aspirante poeta di leggere):
«Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione, le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è. E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista. Allora prenda su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno. Poiché chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.
Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo, sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso). Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà, da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.» (Lettere a un giovane poeta, Mondadori, Milano 1994, a cura di Marina Bistolfi)
Foto di Galina Chirikova.