Improvvisi & preludi di Giannino Balbis

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GABRIELLA MONGARDI
Poesia “dolorosa ma vera”, quella di Giannino Balbis. Talmente dolorosa che deve fingere di giocare con le parole – e ricorre ai calembours, attinge a tutte le varietà linguistiche dell’italiano, conia parole inesistenti sommandone due con un trattino, fa dell’ironia e della musica (fin dal titolo) – per smussare l’atrocità del dire. Del resto, come insegna Pessoa: «Il poeta è un fingitore / finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente»…

Nasce così un gioco di specchi, di rifrazioni continue fra realtà e letteratura, fra Erlebnis e Dichtung, in cui la seconda è il filtro – ora ironico, ora pietoso – che permette di “guardare”, di interrogare la prima, se non di accettarla, e il vissuto è ciò che evita alla poesia di risultare esangue e freddamente erudita, la rende palpitante di umanità, ricca di “motivi” e quindi davvero polisemica e inesauribile, aperta alle più varie interpretazioni – di cui la qui presente è solo un possibile “campione”.

È una “poesia dotta” quella di Balbis – e non potrebbe essere altrimenti, stante la biografia dell’autore, docente di italiano e storia nei licei e ricercatore universitario – ma gli elementi colti, i “prestiti” anche lessicali da altri autori non si riducono a sfoggio esibizionistico che copre il vuoto interiore: l’arte allusiva è dialogo vivo e vitale, confronto teso, richiesta di aiuto per navigare “il mare del periglio” fino all’ultimo oscuro approdo. 

Proprio quello, l’amletico “paese inesplorato,/ da cui nessun viaggiatore è tornato”, è il punto di partenza della raccolta, il tema di fondo, oserei dire l’ossessione, fin dal primo testo, che ha un’evidente funzione proemiale: contiene infatti una moderna “invocazione alla musa”, la “voce-seta”, “voce vera”, accanto alla “dedica” ai morti (“il tremolare d’ombra che voi siete”) e all’esposizione dell’argomento: “ditemi se vale questa sete…

Per quella voce-seta, che risgorghi
dal tremolare d’ombra che voi siete…

Oh voce, voce vera che si culla
(qui-oltre) come ponte nella sera
su mare d’onde e brezza e chiara luna…

Ma ditemi se vale questa sete…
e credere che sia – per me, per voi –
nel vostro altrove scorta d’acqua viva,
o solo nulla, atroce ebrezza, nulla…

Si tratta di nove endecasillabi riuniti in tre strofe di lunghezza crescente (due, tre e quattro versi) con rime sparse, in cui si concentrano parole-chiave che si dissemineranno nelle altre liriche della raccolta: voce, ombra, oltre, sete, nulla, tracciando una sorta di mappa tematica che è insieme una mappa delle linee di frattura, delle tensioni sotterranee cui solo la forma poetica permette di affiorare in modo non devastante. Così l’ombra s’intreccia all’oltre nella lirica 35: «E l’oltre…? Null’altro che l’ombra / d’un senso? Quell’ombra che allunga / le cose al di là del visibile…, / l’ombra che anche noi siamo […]»; l’oltre al nulla nella lirica 16: «Ma tu rinuncia a spingere alle mura / quest’ariete di dubbi e desideri / che petulante trai dal nulla all’oltre»; e la voce alla sete nel testo 42: «…Solo voci / voci antiche (chi parla…? a chi rispondo…?) […] Le persone che si amano, lo sai, / lasciano scie che paiono comete: / le coglie – come può – / la sete del tuo cuore…».

Al proemio seguono infatti 45 poesie senza titolo, semplicemente numerate come canti di un poema unitario: dalla seconda compaiono – con o senza punti interrogativi – le domande sul senso, sul destino, sull’inizio e sulla fine: domande destinate a rimanere senza risposta, ma che illuminano già nel momento e nel modo in cui vengono poste. E poi compaiono le persone amate, gli interlocutori del poeta, non importa se vivi o morti: persone conosciute in carne e ossa (parenti, amici) o autori conosciuti solo attraverso i libri, attraverso lo studio che – etimologicamente – è dedizione e devozione.

Balbis con terminologia musicale chiama le sue poesie “improvvisi e preludi”, quasi per alleggerirne la tensione drammatica, ma sono meditazioni su temi filosofici fondamentali, che si rincorrono e si intrecciano lungo tutto il libro, con continui rimandi e riprese da una lirica all’altra, sicché si potrebbe piuttosto parlare, per mantenere il vocabolario musicale, di “variazioni su un tema”.

Il tema di fondo si direbbe il bilancio di un’esistenza intimamente corrosa, resa vana dal cono d’ombra dell’eclisse definitiva sempre più vicina, sicché vengono in primo piano le perdite, i fallimenti, il non-vissuto, il disinganno: “Ditemi se vale questa sete…”. Eppure il negativo non trionfa: il poeta lascia uno spazio, per quanto minimo, alla speranza, addirittura alla felicità e all’amore (“l’immensità che fu / e ancora acceca il cuore”): non è che uno spiraglio, un barlume a mala pena intravisto, forse un sogno – ma basta a scaldare il cuore, perché ne sgorghi la poesia, «l’amore che non vuole perdonare  / le cose che non sanno – come tornano / le folaghe – tornare…», e quindi si ostina a farle ritornare, “ come può”: con le “voci” e le “parole” impigliate nel ritmo dei versi canonici della letteratura italiana, endecasillabi e settenari, novenari e quinari, che non smettono di ritornare.

GIANNINO BALBIS, Improvvisi & preludi, Aracne editrice, Roma 2019