Con Giuseppe Marrone “sulla riva” della poesia

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GABRIELLA MONGARDI

In principio era il ritmo – il ritmo largo e fluente degli endecasillabi e dei settenari non rimati ma riuniti in strofe di varia lunghezza, a loro volta unite a due o a tre, a formare non singole poesie ma canti di un poema unitario, articolato in tre sezioni: non per niente le liriche non hanno titolo ma numero, e le prime due sezioni, La città, gli uomini e Le osservazioni, costituite ciascuna di trenta componimenti, sono seguite dalla sezione eponima, Sulla riva, comprendente solo quattro liriche lunghe, con funzione di “congedo”, di ricapitolazione finale.

Ma si potrebbe anche dire: in principio era T.S. Eliot, tanto il poeta anglo-americano, con la sua Terra desolata, è presente nei versi di Marrone, ora come modello implicito, ora attraverso espliciti rimandi e citazioni. Si direbbe che La terra desolata sia la lente attraverso cui Marrone prende coscienza del suo essere poeta, il filtro attraverso cui guarda e rappresenta il mondo, il suo mondo, vi riflette sopra, lo riscatta dalla desolazione e dall’abbandono. Nella mia lettura, però, cercherò di resistere alla tentazione del confronto con questo nume tutelare, per mettere in risalto gli elementi di originalità e freschezza di questi testi, il timbro peculiare di questa voce poetica.

La prima sezione della raccolta si apre e si chiude sul “vecchio borgo” di pescatori che “conosce partenze ma non ritorni”: la modernità, rappresentata dal treno e dal parcheggio, ha snaturato la città, lasciandola ai margini. Prevale il campo semantico della decadenza, del disfacimento, della rassegnazione a un destino ineluttabile: «i meli abbattuti, /i cascinali ridotti in macerie, / il muricciolo su cui sedettero / i vecchi, intenti a guardare i giovani / che si disperdevano all’orizzonte». Gli uomini però cercano di resistere, di vivere la loro vita «identica come / sempre eppure tanto, tanto diversa»: rimangono come “fantasmi”, eredi di una “antica tristezza”, perché «restare, / diventare un tutt’uno, amalgamarsi fin quasi all’amore, / questa è l’unica vera grande impresa». E questo è il compito del poeta: sedere «a un angolo della strada, / un po’ in disparte, ombra tra le tante ombre / di quel che è il tacito, ordinario / malessere di Sorrento alla sera» e raccogliere «frammenti, / ed esperienze, e ricordi, e passioni», degli uomini e della città. Marrone dimostra di avere “il cuore per farsi città”, e la sua Sorrento ricorda la Genova di Caproni o la Buenos Aires di Borges – o la Londra di Eliot, ovviamente. Ma c’è anche Montale, con i suoi “cocci aguzzi di bottiglia” colti in maniera originalissima tra i rifiuti che un netturbino rimette assieme con un colpo di scopa: il poeta ne denuncia l’ “infelice presunzione” di credersi migliori «perché estranei finalmente al corpo / che li stringeva a comune destino», e ha pietà del netturbino che «arranca a stento, intriso di sudore, / stretto nell’uniforme comunale, / martorizzato per un luogo estraneo». La parola chiave è “estraneo”: solo se radicata in una comunità la vita ha senso e cessa di essere l’assurda ossessione di chi si sente in credito con il mondo; solo se radicata in una comunità può nascere la poesia.
Non che sia assente la natura, da questa sezione: c’è la notte “gravida di stelle” a dare il senso dell’insignificanza dell’uomo, c’è una bufera imminente, che dovrebbe purificare «questi luoghi da troppo tempo ancorati al dolore», c’è il Golfo ancora affollato d’ombra, nell’ora prima dell’alba, in cui «sembra di non essere mai stati vivi, / se non soltanto in un sogno perduto».

Ma è dalla seconda sezione che il mare impone la sua presenza nei versi come personaggio o termine di paragone, più che come sfondo asettico della scena: e mare significa anche vento e sabbia e scogli e onde e sale, tutti elementi impastati, nel discorso poetico, con altri: il tempo, l’amore, il vuoto, il dolore. «Ogni bacio rubato al tempo è un mondo / che sfugge alla corrente e si deposita / tra i grani di sabbia sulla battigia». La novità di questa sezione è la frequente comparsa di una figura femminile come interlocutrice del discorso poetico, che si fa più “filosofico” e “sermoneggiante”, nel senso oraziano del termine: «Passioni, turbamenti e dubbi, / supremi dubbi di superna / origine, inconciliabili e lontani, / al giogo del pensiero fuggono», e ancora: «Tu nel frattempo guardi, ridi, piangi; / tieni il tempo coi battiti del dito: / le unghie si spezzano. Frammenti rossi / corrono sul tavolo. Un posacenere / raccoglie i nostri mozziconi spenti».

Veri e propri “sermones” sono i quattro testi dell’ultima sezione, quattro parti di un unico lungo, accorato dialogo, intercalato da riflessioni soffuse di mestizia, ricordi struggenti, fugaci descrizioni del mare d’inverno. Confluiscono e culminano qui tutti i temi e gli stilemi della raccolta: il paesaggio del Golfo di Napoli, le allusioni eliotiane-montaliane, l’oscillare tra apertura alla vita e disillusione – e soprattutto il luogo-non luogo che dà il titolo alla raccolta, la “riva”, la linea dove acqua e terra si toccano, linea che contemporaneamente separa e unisce, e qui diventa forse un emblema della “linea d’ombra” tra giovinezza e maturità che il giovane poeta sa di dover attraversare. Stupendo l’attacco: « Nessun suono dalle conchiglie sulla / spiaggia rimasta deserta d’inverno. / Il freddo ha un sapore ignoto d’amore / ma non saprei descriverlo a parole / come è uso che si faccia coi suoni, / coi colori, con le persone vuote / che siedono in pace sulle panchine / del Lungomare vestito a festa. / Si alza un soffio di vento. Spazza piano / la riva nel suo stanco torpore». In realtà, il poeta ha vinto la sua sfida, ha saputo descrivere a parole il freddo e il sapore ignoto dell’amore, e non solo le “persone vuote” e il “Lungomare vestito a festa”. Il soffio della poesia è arrivato sulla riva.

(Alcune liriche tratte da questa raccolta si possono leggere QUI)