DINA TORTOROLI
2. Il dipinto parla da sé (Affò)
Parma, anno 2019. Io lo so perché la mia mente mi ha fatto rivivere, minuto per minuto, quell’ora straordinaria di più di sessant’anni fa: vuole indurmi a parlare.
Non è più tempo di eccessivi timori reverenziali. Non dopo che neuroscienziati come lo spagnolo Antonio Damasio e come l’italiano Vittorio Gallese, divulgando le proprie scoperte, hanno autorizzato anche l’uomo comune a fidarsi dei miliardi di neuroni del proprio cervello.
Non è più il caso di rinunciare alla presa di parola, dopo che un pedagogista come il brasiliano Paulo Freire ha dedicato l’intera esistenza a perfezionare un metodo di educazione permanente in grado di restituire dignità e voce agli “esclusi” di tutto il mondo. Dunque parlerò.
Sì. Prima di tutto, per dire che la Camera del Correggio non c’è più. La “misteriosa meraviglia” (Dall’Acqua) non c’è più: un intervento di “illuminotecnica” ha azzerato ogni traccia di spiritualità oltre che di arcana atmosfera; e impedisce qualsiasi suggestione.
Ora si entra in un ambiente tutto concretezza: sedie da regista al centro, accostate a lampade a stelo, che proiettano la loro luce impietosa su cortei di figure cui sottraggono volume, significato e scopo. Si direbbe un set fotografico; comunque sia, un ambiente che non favorisce certo l’introspezione e l’empatia.
Non vi penetra più neppure la luce naturale. Stento a crederlo, ma è evidente che un Comitato scientifico – indubbiamente animato dalle migliori intenzioni – ha ritenuto opportuno occultare le due grandi finestre ai lati del caminetto, con un assito, uniformato alle pareti con una tinteggiatura giallastra. Forse si è cercato di imitare il colore dei cuoi – “i corami lavorati, intagliati e dorati” – che, a detta del professor Giuseppe Adani, rivestivano le pareti all’epoca del Correggio, ma io ho l’impressione di avere intorno del cartone da imballaggio e il dispiacere, nell’entrare in questo scatolone invivibile, è lancinante.
Mi auguro che il tavolato che annulla anche la strombatura delle finestre sia facilmente rimuovibile, ma intanto c’è e non permette che si faccia esperienza del capolavoro di Antonio Allegri.
La Camera del Correggio è patrimonio dell’umanità. A nessuno dovrebbe essere consentito di snaturarla. Però è accaduto e non mi risulta che ci siano state manifestazioni di scontento. Io stessa sono rimasta lungamente zitta, nonostante il mio rapporto con quella “divina” creazione sia stato per me di vitale importanza. Infatti, dopo il primo incontro, la Camera del Correggio diventò una “magnifica ossessione”.
Un anno dopo l’altro, ogni volta in cui ne ho avuto una più acuta nostalgia, sono tornata tacitamente a respirare quell’atmosfera, a condividere lo stato d’animo di Antonius Laetus dal momento in cui la badessa Giovanna gli fece sapere cosa si aspettava da lui fino a quando lui le mostrò come aveva interpretato desideri, suggerimenti, richieste, progetti.
Spesso mi balenava inaspettatamente davanti agli occhi qualche inquadratura della volta, qualche ritaglio, soprattutto mentre ero intenta a osservare capolavori di altri artisti, nessuno dei quali mi attrasse o mi coinvolse mai altrettanto.
Roma, Musei Capitolini: statuetta, in marmo bianco (già nella collezione del cardinale Alessandro Albani) di Ercole fanciullo che strozza con le mani i serpenti inviatigli da Era. Ercole uccide per obbligo verso se stesso, perché deve restare vivo. Lo fa, gli occhi negli occhi di uno dei due serpenti, portato all’altezza del suo viso: con serietà, con determinazione, senza odio, apertamente, e io riconosco in lui il putto che mostra la testa di cervo recisa; rivedo la fissità con cui i putti del Correggio si rivolgono agli spettatori, chiamandoli in causa.
Già, i putti! Entrando nella Cappella Sistina li rivedo tutti, anche in versione-fanciulla, qualcheduna coi capelli lunghi e sciolti come hanno le Tre Grazie del Correggio e l’adolescente appesa all’aria.
Per quanto non sia agevole farlo, con l’aiuto di un binocolo mi dedico all’esame dei putti michelangioleschi.
A un primo sguardo, possono sembrare cariatidi e telamoni, a sostegno delle mensole sulle testate dei troni marmorei dei “Veggenti”, ma Michelangelo anima questi altorilievi, e fa intendere – anche a 22.9 metri di distanza – che hanno una loro vitalità e altri interessi, per cui la loro attenzione è rivolta solo in minima parte alla funzione che debbono svolgere. Situati a destra e a sinistra di Profeti e Sibille, in maniera speculare, un putto e una fanciulla sono intenti a sé, si protendono l’uno verso l’altra, incrociano le loro braccia; sono anche di tre quarti o di schiena e alcuni non mancano di guardare giù, all’interno del salone. Insomma, torso, gambe e braccia assumono le più strane posture e la funzione di sostegno è svolta soprattutto dalle loro teste, senza che essi se ne curino.
Perché il Correggio ha fatto assumere ai suoi putti – una schiera di Ercole fanciullo – alcune posture analoghe a queste? E perché ha sentito il bisogno di ricorrere alla tecnica, scoperta da Leonardo per “vedere la luna grande”? Forse per obbligare l’osservatore a porsi domande, a riflettere su un compito che grava su questi attori, per quanto essi stessi non ne siano pienamente consapevoli?
A Milano, il pergolato, con cui Leonardo trasforma la Sala delle Asse da ambiente chiuso in uno aperto verso l’esterno, ricorrendo a sedici imponenti gelso-mori, mi conferma che il Correggio doveva avere avuto tutt’altre intenzioni: lui non aveva voluto far ricorso a nessun “arbor vitae”. Invece, lo aveva attratto il tema dei nodi, affrontato da Leonardo tra i rami dei gelsi, piegati ad arte. Pertanto, aveva approfondito la ricerca e imparato la tecnica del macramè.
Me ne rendo conto durante la prima lezione di un corso di macramè, cui partecipo per scoprire finalmente come erano state realizzate le frange di alcuni asciugamani che mi incantavano da bambina. Facevano parte del corredo della mia nonna paterna, mai conosciuta: la nonna Marcellina di cui sentivo spesso magnificare l’abilità nel “macramè”, imparato “dalle suore”. Mi basta che l’insegnante mostri come si deve avviare il lavoro, annodando l’uno dopo l’altro, intorno a un filo “porta-nodi”, i fili “annodatori”, piegati a metà, in modo che formino un cappio in cui introdurre le due parti. E poi come si deve proseguire, un “giro” dopo l’altro, annodando il filo destro che esce dal primo nodo con il filo sinistro del nodo successivo. Ma certo! Precisamente così ha proceduto il Correggio, lavorando in cerchio il proprio gigantesco macramè fatto di teli di lino come quelli che reggono patere, brocche e coltello sacrificale!
A Parigi, l’aspetto dinamico e il volto fiero, di cacciatrice, della Diana del Louvre, che indossa un corto chitone, stretto in vita dall’himation, e fra i capelli raccolti dietro il capo ha soltanto un sottile diadema, mi obbliga a riflettere sul ruolo di Diana-Giana-Giovanna: «Diana quale ce la descrive Claudiano […] Divinità tutta lieve» (Affò), dipinta dal Correggio come intenta a sé, al suo illusorio, momentaneo appagamento.
La statua proviene dalla valle del lago di Nemi, dunque è stata trovata nel recinto del santuario di “Diana Nemorensis”, la Dea del bosco sacro in cui «latet arbore opaca aureus et foliis et lento vimine ramus», «si nasconde nel folto di un albero un ramo dalle foglie e dal tenero stelo d’oro». Un ramoscello d’oro come quelli che aderiscono ai costoloni, coperti dalle due canne di bambù?
Ireneo Affò credo sia l’unico studioso ad averli menzionati: «gira attorno la Stanza un Fregio assai elegante, per cui allo spuntar di ogni costolone sostenuto da certi dorati fogliami di quercia a rilievo, rappresentò il Dipintore una mensola, da’ cui ambi i lati sporgono due bellissime teste di Caprone» (Ragionamento del Padre Ireneo Affò / Regio Bibliotecario / Socio onor. Della R. Accademia delle Belle Arti di Parma e della Clementina di Bologna / Sopra una stanza dipinta dal celeberrimo Antonio Allegri da Correggio nel Monistero di S. Paolo in Parma, Parma, Dalla Stamperia Carmignani, M.DCC.XCIV, p. 40).
L’Affò evita di indagare il significato dei dorati fogliami di quercia a rilievo, che molto probabilmente hanno una funzione di “sostegno”, ma a livello metaforico. Io, fidandomi dell’opinione degli antichi, secondo cui il ramo d’oro del bosco di Nemi si identificava con quello che Enea colse per invito della Sibilla, sono tentata di crederli analoghi proprio al «sacro dono del fatal virgulto» mediante il quale a Enea è concesso di «accedere a livelli profondi della realtà», anche perché «spiccato il primo, ne spunta un altro, d’oro, e la verga/ si veste di foglie dello stesso metallo» (Virgilio, Eneide, LibroVI, vv. 136-137 e 143-144).
Ma i fogliami del Correggio potrebbero anche alludere al “Mistero di Nemi”, al rituale che obbligava il “Rex Nemorensis”, sovrano e sacerdote – come tutti gli antichi sovrani –, a una prova di forza: un duello mortale con un pretendente. Infatti, la sensazione della precarietà del potere è una nota dominante dell’intero appartamento della Badessa, rivelata proprio dalla sovrabbondanza dei segni che ne vogliono ribadire la trionfale conquista (un iter autocelebrativo di motti latini e greci, intarsiati sugli usci e incisi sui caminetti e lo stemma fra le iniziali IO / PL, in altorilievo, sulle sovraporte in pietra di ogni stanza).
Infine, si fa largo nella mia mente un’ulteriore valenza che potrebbero assumere questi fogliami di cui quasi nessuno si accorge, nonostante il Correggio li abbia voluti davanti «allo spuntar di ogni costolone»: la facoltà che deriva dall’aspetto attribuito dai commentatori dell’Eneide al “ramo d’oro”. Esso doveva ricordare la ipsilon pitagorica, simbolo iniziatico raffigurante una strada o un tronco che si divide in una biforcazione: due sentieri dalla valenza morale alternativa: quello di destra che conduce alla salvezza e quello di sinistra che conduce alla tentazione e alla perdizione. È dunque l’alternativa salvezza-perdizione il tema fondamentale dell’affresco?
L’ipotesi sarebbe avvalorata dal gesto di Diana, che orienta gli sguardi dei visitatori verso la parete in cui l’immagine della fanciulla legata riportò alla mente dell’erudito Padre Ireneo Affò i versi di Omero: Non ti sovvien quando dall’alto impesa / Strette tenesti a piè due gravi incudi, / Con laccio d’or le man legate e presa, / Che scoter non potevi i membri ignudi, / Né alcun de’ Dei ti potea far difesa? (Ragionamento, cit., p. 48).
Il Correggio avrebbe dunque voluto rappresentare – come monito – la “Juno punita” del XV dell’Iliade, minacciata da Giove di ulteriori, terribili punizioni, in quanto “di frodi maestra” e “di trame inique”.
E come evitare di immedesimarsi nello stato d’animo della Badessa – consapevole delle proprie trame –, quindi nella sua crescente ansia per la propria sorte, durante l’immancabile declamazione dei versi omerici, da parte di qualcuno degli umanisti suoi ospiti?
Innumerevoli flash, associazioni di immagini: una sovrapposizione continua della dimensione del reale e dell’immaginario. Verità o illusione? Come penetrare “arcanos sensus”?
Il professor Enrico Bruschini, nella Prefazione del Saggio I segreti della Sistina. Il messaggio proibito di Michelangelo, scrive: «Gli autori ci avvisano che per poter pienamente apprezzare il miracolo che è la Cappella Sistina, il visitatore deve comprendere a fondo le motivazioni di Michelangelo, il suo background culturale, i suoi anni di apprendistato e di fermento intellettuale nel palazzo fiorentino dei Medici».
È un criterio cui è facile attenersi. A me basta ricorrere alla “lezione”, “regalata” dal professor Giuseppe Adani, in qualità di Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Il Correggio, al numerosissimo pubblico di uno degli “Incontri”, previsti dagli organizzatori della mostra romana del 2016: Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento.
È importante persino il titolo: Correggio: genius loci, genius mundi. Mi dispiace dover rinunciare a molte delle “cose da contemplare nella vita di Antonio Allegri”, evidenziate dal Professore – anche a commento di diapositive -, ma almeno alcuni brani posso trascriverli fedelmente.
Antonio trascorse l’infanzia nella bottega di pittore dello zio paterno, ma, dice il professor Adani:
Quando un bimbo nasce in bottega, assume tutto quello che c’è nella bottega, automaticamente: conosce i mestieri, conosce i materiali, conosce gli arnesi, conosce i procedimenti. E così sicuramente Antonio, molto repentinamente, si è rivelato un bambino eccezionale, tanto è vero che i Conti di Correggio lo prendono quasi come un figlio, diventano gelosi di lui, lo curano, lo allevano, lo fanno partecipare. Lo fanno partecipare a un primo fondamentale costitutivo che era la vita di Corte, dove c’erano letterati, c’erano storici, latinisti; c’erano scienziati. E poi lo fanno viaggiare. Ecco, questo inserimento in una Corte viva del Settentrione, nel cuore del Rinascimento, è stato un primo elemento della sua formazione. Il Correggio ha avuto una formazione profonda, culturalmente vasta, impressionante, come si rivela dalle sue opere, e feconda, ferace: una formazione capace di generare. Il Correggio è stato un artista fortemente generativo.
Un altro elemento della sua formazione è stato il privilegio di poter entrare – giovanissimo – nell’atelier di Andrea Mantegna. Era una cosa eccezionale: il Mantegna aveva un carattere quasi terribile. Pertanto, qualche collaboratore l’ha preso, ma con una selezione rigorosissima. Ha preso questo giovanissimo Antonio.
Un altro elemento importante nella formazione del Correggio: la conoscenza precoce delle opere di Leonardo, a Milano – in tempo reale – e a Firenze. Ma chi lo portava a Milano? Un grande amico di Leonardo, che era il conte Nicolò da Correggio. [Nicolò, rifondatore del teatro italiano, "maestro delle delizie" della Corte ferrarese, ideatore di fastose strutture architettoniche e costumi per gli spettacoli e le feste. Costumi anche "a nodi". Leonardo era il suo disegnatore]. E allora, un altro elemento importantissimo è questo: essere adeguato a quello che stava succedendo nell’arte, con i più grandi dell’arte. Ha viaggiato anche moltissimo il Correggio. Poteva raggiungere facilmente tutte le città del Settentrione: Milano, Venezia, Bologna, Ferrara, Firenze, Urbino. Ha potuto aggiornarsi assolutamente.
Ma un altro elemento della formazione del Correggio è stata la sua frequenza partecipante alla vita del Monastero Magno di San Benedetto in Polirone, questo immenso monastero che era la più grande officina sapienziale dell’Italia settentrionale, presieduta dall’abate Gregorio Cortese. Una sapienza che comprendeva tutto: la sapienza biblica, religiosa, evangelica, teologica; la sapienza cosmologica, astronomica; la sapienza simbolica e simbologica che il Correggio ha introiettato. Andare a San Benedetto, essere a S. Benedetto! Questo è stato uno degli elementi della sua formazione, che poi affiora sempre nella sua opera.
Andiamo avanti: quand’è che il Correggio davvero “incipit esse suus”, cominciò a essere se stesso? Quando affrontò un grandioso dipinto – tre metri per due e quarantacinque -, una tavola lignea per l’Altar Maggiore della chiesa di San Francesco, in Correggio. Una commissione quasi pubblica. […] E la Pala per l’Altar Maggiore – siamo nel 1514 – doveva seguire una traccia ormai consolidata: doveva essere una Sacra Conversazione.
Voi conoscete certamente decine di Sacre Conversazioni di grandi nomi del Quattrocento e del Cinquecento, ma, se voi le memorizzate tutte, in tutte quelle Sacre Conversazioni nessuno conversa.[…] C’è la presenza delle figure sacre, ma non c’è la comunicazione. Invece il Correggio rompe, infrange questa paratia strana. E, allora, che cosa fa Maria con Gesù Bambino? Viene giù veramente dal cielo. Una Sacra Conversazione comporta che Maria e Gesù vengano giù dal cielo, tra noi. E non c’è un trono che disturbi questa venuta. […] C’è invece un suppedaneo, portato dagli spiriti angelici. Quei due angelini, li vedete, lì sotto? Hanno portato giù Maria e Gesù che sono senza peso, perché sono figure divine. […] Gli angeli hanno portato giù questo trono; l’hanno appoggiato sulle acque del Giordano. Pensate, il Correggio! Dove sta un trono salvifico? Da dove viene la salvezza? Ecco, il Giordano passa appena dietro al trono e le acque bagnano tutto l’invaso, tutto il piano geometrale, il piano di calpestio, sul quale sta San Giovanni Battista con la sua croce, che pianta nell’acqua e ci chiama. Ecco una conversazione! Giovanni Battista ci chiama! […] Ecco, c’è questa comunicazione strepitosa.
John Shearman, grande autore inglese, ha proprio detto che qui lo spazio liminale, cioè lo spazio che si interpone tra i fedeli e le figure sacrali viene eliminato. Siamo nello stesso spazio. Pertanto ha valore quell’Empireo che scende dal cielo; ha valore il paesaggio che è la natura, è la creazione. La creazione è il capolavoro di Dio! E ha valore questa nostra vicinanza che voi vedete meglio qui, con l’acqua in terra, sotto ai piedi di San Francesco che mostra le sue piaghe a Maria che gli parla. E vedete anche che questo trono è teologico, perché sotto c’è la fascia del peccato e della cacciata dei progenitori, poi c’è la fascia della Legge, il primo dono di Dio: la legge di Mosè. E sopra c’è il fiore che è Gesù Bambino. Passando dal Peccato alla Legge, dalla Legge alla Grazia: questa è teologia. Non si può fare questo dipinto se non si è profondamente teologi.