DINA TORTOROLI
3. Quicumque vult salvus esse…
Dopo aver ascoltato il professor Adani, ho pensato che proprio la fama della Sacra Conversazione, dedicata al tema della salvezza, avesse indotto la Badessa a convocare il Correggio. Doveva preoccuparla non poco il problema della salvezza, sapendo che il suo cuore era dominato dalla superbia: uno dei sette vizi capitali, che causano la morte dell’anima.
Lei infatti si comportava come le Badesse descritte dall’Affò, in pagine di cui diventa necessario trascrivere almeno alcuni brani:
[…] le Badesse de’ Monisteri erano anticamente perpetue, e […] amministrando dispoticamente l’entrate, di cui liberali già furon loro i fondatori, vivevano fra lo splendore, ed assai più dignitosamente, che ora non fanno. Il loro spirituale e temporal dominio di Chiese, Corti e Castelli, l’autorità di giudicare le persone al Monistero soggette, conceduta singolarmente a quelle di San Paolo dall’Imperador Federico II, ed altri privilegi le rendevano assai rispettabili. […] Quindi, giacchè il giunger al grado di Badessa era lo stesso che divenir Signora, gagliardi impegni nascevan sovente nelle elezioni, leggendosi nell’Istrumento steso allorchè quel di S. Paolo fu messo a clausura [nel 1524, dopo la morte di Giovanna Piacenza], quod in dicto Monasterio propter electiones Abbatissarum dicti Monasterii, tendentibus in diversa vota Monialibus et earum consanguineis et amicis, discordiae et rixae saepenumero evenerunt. (Rog. Di Galeazzo Piazza, e di Girolamo Balestra 28 Agosto 1524). Quindi le elette, predominate bene spesso da spirito di partito, avvolte si ritrovavano nelle civili fazioni; […] Aggiungasi, che in tale stato di cose, vivendo quasi secolarescamente, e dando bene spesso luogo ne’ petti loro all’ambizione ed al fasto, studiava d’ordinario ciascuna a distinguersi con qualche opera, onde perpetuar suo nome. Donna Cecilia Bergonzi Badessa in San Paolo cingendo il Monistero di alte mura nel 1494, esposta ne volle a pubblica vista l’incisa memoria verso il così detto terragliuolo colle armi sue. Anche in più luoghi della interna fabbrica da lei rinnovata e ristorata dette armi si scorgono, e magnificato leggesi il nome di lei in un distico latino inciso sopra una pietra […] il quale dice: Caecilia Antistes nulli virtute secunda / Fecit, Bergonzae gloria magna Domus. Venutale appresso Donna Orsina dello stesso casato, rifabbricata probabilmente la Chiesa, che, giusta il costume antico, aver già dovea la fronte volta all’occidente, invitò Alessandro Araldi egregio Pittor Parmigiano, […] a dipingerne il Coro. Intrapresa appena quell’Opera, venn’essa a morte il giorno 25 di Aprile del 1507; e tosto e per unanime consentimento di voti eletta fu a succederle Donna Gioanna da Piacenza figliuola del Signor Marco da Piacenza Nobile Parmigiano e di Agnese Bergonzi […]. Ora questa Badessa, che non la cedeva a verun’altra in magnificenza, fece prima dall’Araldi contiunar la Pittura del Coro […]. Volle poscia ornar il Coro medesimo di eleganti Sedili, dandone carico a Luchino Bianchino da Parma celeberrimo intagliatore […]. Ciò ottenuto, volse ella il pensiero ad una grandiosa fabbrica per abitazione sua propria, consistente in un grande Salone a terreno lungo trentadue braccia e largo sedici, […] cui venivano appresso due Camere grandi, un picciolo Gabinetto, un camerino, e un’altra Cella a uso di Oratorio. A lato di detto Salone e dette camere volle una Loggia o Portico ben magnifico, da cui pigliassero lume tutte le finestre dell’Appartamento, facendo porre dovunque, cioè nelle volte, cammini, uscj e finestre, e nelle colonne tutte di pietra delle nostre cave di Serravalle, il proprio nome colle armi sue gentilizie consistenti in uno scudo bandato di tre mezze lune con un Pastoral per cimiero; e collocata volendo poi nel muro, che guarda il giardino, al di sopra delle finestre del Camerino e dell’Oratorio, la seguente iscrizione: JOANNA PLACENTIA ABB. INSTIT. OPTIMIS ANTIQUIORA NON NEGLIGENS AD PERPETUITATEM LUCULENTIORE APPARATU COENOBIUM EREXIT NOVIS TECTIS INDUCTIS AMPLISS. (Ragionamento, cit., pp. 23 – 30).
Davvero non possono sussistere dubbi sul fatto che anche Giovanna Piacenza – proprio come il reuccio, che il Correggio avrebbe poi dipinto in un ovato – portasse a testa alta il masso della colpa da cui avrebbe dovuto invece sentirsi schiacciata.
Antonio Allegri, teologo, dovette sentirsi profondamente turbato dalla perseveranza della Badessa in quel peccato, la superbia, che San Tommaso – riprendendo sia Sant’Agostino che San Gregorio Magno – definiva “amore smodato della propria eccellenza”, quindi “il” peccato capitale contro Dio.
Nella Sacra Conversazione in cui “incipit esse suus”, il Correggio aveva messo anche se stesso, come protagonista, nelle vesti del santo di cui portava il nome: Antonio. Un Sant’Antonio che attira l’attenzione, perché è un’immagine inusuale: non ha la testa nuda, bensì il cappuccio del saio ben calcato sul capo, alla Girolamo Savonarola e alla Luca Pacioli.
Io ho visto soltanto riproduzioni fotografiche di quell’opera, ma mi è sembrato che Antonius de Alegri-Santo, con un benevolo sorriso d’intesa, stia dicendo agli astanti: «Nessuno creda che questo sia un gesto qualsiasi, una civetteria d’artista».
A me pare proprio che il Correggio, in quella chiesa, avesse voluto comunicare la sua professione di fede: avesse ufficialmente dichiarato di voler vivere alla maniera del frate matematico e del predicatore del bene, con la medesima dedizione a Gesù del Santo portoghese. In quella sua grandiosa opera io leggo l’invito a condividere un’ansia, un’aspirazione: Antonius de Alegri era un pittore che voleva vivere secondo la Santa Regola benedettina, espressione del Santo volere di Dio.
La Badessa, però, non era in grado di cogliere la gravità degli intenti di quell’artista, uomo di Dio: a lei interessava una clamorosa legittimazione del proprio potere, dopo avvenimenti terribili che lo avevano messo in forse.
Le parole con cui Ireneo Affò li sintetizza, mi si dispongono nella mente quasi a didascalia della drammatica “caccia” di cui sono indotta a credere che il Correggio abbia mostrato il prologo e l’epilogo attergati: l’assordante segnalazione dell’inizio, data dal putto che fa risuonare il corno con tutte le sue forze, e l’ostensione della testa dissanguata del cervo, divenuto vittima sacrificale, fatta dal putto che gli volge le spalle, nell’ovato adiacente.
Donna Gioanna da Piacenza […] tolta ai Garimberti l’amministrazione de’ beni […] ed affidatala al Cavalier Scipione Montino dalla Rosa, cognato suo, diede origine ad una feroce inimicizia tra i Garimberti ed il Cavaliere, cresciuta a tal segno, e da Cesare da Piacenza fratello di lei fomentata per guisa, che dopo una finta pace contratta il dì 28 Gennajo del 1510, fu a’ 22 di Luglio dell’anno stesso per opera di Scipione e di Cesare, anzi con l’intervento di ambidue, trucidato Gianfrancesco Garimberti Commessario delle Tasse in casa del Conte di Cajazzo; dal che vennero in seguito disordini assai, non senza molestia del Monistero, che oltre all’essere stato allora visitato dai ministri della giustizia, persuasi di ritrovarvi i complici del grave delitto, temendosi un’altra volta nel 1516, che vi si fosse rifugiato il detto Cavaliere Scipione, cercato fu tra le notturne tenebre dal Conte Francesco Torello governatore della Città, che ne sforzò le porte, siccome imparo dalla Cronica di Leone Smagliati allora vivente, che scritta a penna presso di me conservo (Ragionamento, cit., pp. 27-28).
Il Monastero era stato violato. Serviva un “sacri-ficio”: lo si doveva nuovamente “fare sacro”. Divenuta consapevole delle proprie colpe, per l’orrore che impietrisce, come quando lo si vede riflesso negli occhi della Gorgone, Giovanna Piacenza si doveva essere illusa che bastasse celebrare un solenne sacrificio di espiazione, per ottenere la riconciliazione con Dio.
Ma l’artista incaricato di tradurre le sue esigenze in figure era quell’essere eccezionale – descritto dal professor Adani – che il vasto patrimonio di sapere aveva reso consapevole delle straordinarie capacità attribuite dal Creatore all’uomo. Non si era lasciato trasformare in un erudito come tanti: lui era diventato un uomo orientato alla ricerca della verità. In perfetta sintonia con Pico della Mirandola, uno dei pensatori più amati del Rinascimento, il Correggio era diventato davvero “artefice di se stesso, arbitro della possibilità di innalzare o di degradare la sua natura”.
Non molti anni dopo, avrebbe ottenuto un “Decreto di fratellanza alla Congregazione cassinese”. Si conserva nell’Archivio di Stato di Parma la pergamena miniata, su cui esso è registrato, datata 1521, maggio 15, Praglia (Padova). Afferma il professor Adani: «l’Abate generale di tutti i Benedettini del mondo gli assegna con un documento meraviglioso i benefici spirituali dei monaci stessi».
Quali benefici? Ne siamo informati, leggendo quanto scrive Gabriel M. Brasò – che è stato Abbate Presidente della Congregazione benedettina Sublacense – a proposito della situazione dell’oblato, oggi:
[…] Il fatto di essere vincolato a una famiglia monastica, gli procurerà normalmente quegli stimoli di comprensione, di buon esempio, di carità e di aiuto fraterno, che gli faciliteranno l’approfondimento e la pratica della spiritualità benedettina.
Sarà aiutato prima di tutto a esercitare la vera carità, a svellere ogni forma di egoismo e di amor proprio, tanto radicato nel cuore umano, […] ad assumere l’atteggiamento fondamentale che S. Benedetto chiama umiltà, e che è dimenticanza di se stesso, esclusione da ogni forma di egoismo, disponibilità a ogni servizio, accettazione coraggiosa di ogni contraddizione e di ogni ingiuria, sicché niente possa essere di ostacolo o di impedimento per seguire Cristo nella sua via dell’obbedienza fino alla morte per amore al Padre e ai fratelli. E tutto questo senza far la faccia triste, senza perdere l’umore né il senso pasquale della vita cristiana, giacché il discepolo di S. Benedetto affronta qualunque situazione e circostanza della vita “con gaudio dello Spirito Santo”.
A questo punto, non desta più meraviglia il fatto che il Correggio abbia accettato l’incarico della Badessa: i credenti hanno il dovere di aiutare i peccatori a rinunciare al male e cambiare stile di vita: i peccatori, per quanto grandi, possono sempre convincersi a cambiare strada. Egli poteva assecondare la «brama di bellezze e di simbologie, di significati» (Adani) della committente, ma con un intento analogo a quello di Michelangelo che, nella Sistina, aveva sovvertito l’intero progetto del corrotto papa Giulio II, per promuovere il proprio messaggio di tolleranza universale.
Giovanna Piacenza voleva che fosse consacrato il suo potere, fosse conferito un nuovo splendore allo stemma familiare? Ebbene, Antonio Allegri glielo ha dipinto tutto d’oro, sulla chiave di volta, ma a un osservatore attento non può sfuggire che ha poi soffuso di una sfumatura rosata – capace di evocare la cupola del Battistero dell’Antelami – i lini del macramè che lo attorniano. Perché è il Battesimo che ci fa diventare Cristiani, e come Cristiani crediamo che l’unico sacrificio in cui possiamo sperare sia quello compiuto da Gesù Cristo morendo in croce per la salvezza di tutti gli uomini. Il Battesimo: “il gesto simbolico che indica l’abbandono di un modo di sentire corrotto”.
Poi l’artista ha adottato un ingegnoso stratagemma: lavorare sul piano della finzione. Constatarlo è facile: dopo aver dato prova della propria competenza, sia nell’avviare il lavoro sia nei primi « giri » del macramè, negli ultimi due il pittore non ha annodato le strisce, ma ha soltanto sovrapposto il lembo destro che esce da un nodo al lembo sinistro del nodo successivo, torcendoli uno intorno all’altro. Così facendo, non ha creato una rete robusta: ha finto di farlo.
C’è bisogno della stranezza per illuminare il senso? Non pago di avere proposto – proprio lui, l’Antonio Allegri che «in certi documenti di Parma viene chiamato pictor et architectus» (Adani) – una struttura alla quale nessuno scenotecnico potrebbe mai dar forma e funzione vera, eccolo operare in maniera assurda anche al centro della scenografia, dove cornici di foglie coprono brandelli di canne che i putti utilizzano come ringhiere sicure dei “praticabili” – a livelli discontinui – che si suppongono al di fuori degli ovati. Infatti, il putto suonatore di corno vi si puntella contro, per soffiare più forte; uno – in corsa – vi si aggrappa per non cadere; un altro, seduto su chissà cosa, vi posa sopra le gambe, protese verso l’interno della stanza; un altro ancora vi appoggia la gamba destra piegata, mentre si protende arditamente al di fuori dell’ovato, verso uno degli opulenti mazzi capovolti, avvinghiato al putto al suo fianco, che glielo sta indicando.
Splendido l’inno del Correggio al creato, ai frutti della natura, celebrati nelle loro importanti varietà. Ma darne un’immagine capovolta non equivale forse ad alludere all’uso distorto che i privilegiati osano fare dei beni della terra?
E che dire delle teste d’ariete con espressioni di umane vittime sacrificali? Esemplificano gli atteggiamenti dei defraudati di beni e di memoria, in tutti i tempi? L’insegnamento dei martiri?
E che pensare dell’assenza di un luogo per tutta la schiera di Ercole fanciullo, ognuno connotato da un gesto, da un attimo della propria esistenza? A me viene in mente la celebre allocuzione: «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua…». Ancora Pico della Mirandola: De hominis dignitate.
Un’ultima considerazione, fra le tante che tralascio, per non indisporre chi vorrei indurre alla restituzione dell’autentica atmosfera della Camera del Correggio: fin dal Medioevo, in Occidente, il giorno del Signore era diventato un giorno consacrato alla Trinità, perciò era prescritto dalla liturgia recitare, nell’ufficio divino delle Domeniche, il così detto “Simbolo atanasiano” o “Professione di fede trinitaria”. Il Simbolo che inizia con le parole: “Quicumque vult”.
Ebbene, nella volta del Correggio, il mistero trinitario affiora in due immagini: quella del putto che regge la testa di cervo, aiutandosi in modo del tutto innaturale, con due sole dita opposte al pollice e – nello spicchio diametralmente opposto – quella del putto che, con due dita, rischiando anche di farsi male, si appoggia alla cornice dell’ovato dal quale si sta allontanando, di corsa. La Trinità è simboleggiata dalle altre tre dita che si riuniscono verso il basso rispetto alle due rialzate.
Così, nella mia mente, alla visione dell’apparato scenografico che dichiara “vana” una visione della vita che può soltanto portare alla perdizione, si aggiunge – ammonitrice, ma anche portatrice di speranza – la colonna sonora: non il Te Deum, che la Badessa avrebbe voluto fosse intonato, per celebrare il trionfo familiare, bensì il Credo trinitario cui il Correggio intendeva conformare la propria vita:
Quicumque vult salvus esse, ante omnia opus est, ut teneat catholicam fidem:
Chiunque voglia salvarsi, deve anzitutto possedere la fede cattolica:
Quam nisi quisque integram inviolatamque servaverit, absque dubio in aeternum peribit.
Colui che non la conserva integra ed inviolata perirà senza dubbio in eterno.
Fides autem catholica haec est: ut unum Deum in Trinitate, et Trinitatem in unitate veneremur.
La fede cattolica è questa: che veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell’unità.
[…]
Non mi meraviglio più se altri osservatori hanno percezioni, impressioni, sensazioni discordanti dalle mie. Al contrario, oggi sono convinta che un’opera d’arte sia tale quando ci permette di leggerla attraverso le nostre inquietudini, quando riesce a parlarci di noi stessi. E poi è problematico anche il nostro “guardare”, il nostro “vedere”.
Mi spiego con un esempio: ho davanti a me la fotografia dell’incisione a sanguigna di Francesco Rosaspina, raffigurante Diana sul suo cocchio, tratta dall’in folio bodoniano Pitture di Antonio Allegri detto il Correggio.
Dovrebbe essere una «riproduzione» della Diana dipinta dal Correggio sul caminetto, ma il Rosaspina non copia il Correggio: parla di sé, del suo amore per “gli ornamenti, i leggiadri contorni, i fregi, la squisitezza della incisione, le sottigliezze dell’arte”. Non rispetta neppure le proporzioni del trapezio in cui Diana è raffigurata: l’altezza è molto aumentata, e la differenza fra base maggiore e base minore è così ridotta che si ha l’impressione di avere di fronte quasi un rettangolo.
Sia Diana sia il carro si snelliscono e si allungano (l’incisore amava il Parmigianino). Aumenta il cielo sopra la testa della Dea. Le decorazioni del carro si arricchiscono. Cambiano forma la faretra, l’arco, le frecce. Il manto è tutto pieghe. Di più: il Rosaspina, all’interno dell’indice destro della Dea, aggiunge due corte redini, appoggiandone una sul dito medio.
Considero adesso un’altra fotografia. Mostra l’acquerello con cui Paolo Toschi riprodusse Diana, mantenendosi fedele all’originale del Correggio per quanto riguarda la figura della Dea, il suo abbigliamento, il manto, la faretra, l’arco, le frecce e il carro. Ma, inaspettatamente, l’indice della mano destra non è più puntato verso la parete est: è leggermente inarcato, a sostegno di due redini molto più lunghe di quelle aggiunte dal Rosaspina.
In entrambi i casi, la Dea guida il suo cocchio e, a chi entra, non ha più nulla da comunicare.