CLAUDIO SOTTOCORNOLA
È sotto gli occhi di tutti, e degli educatori in particolare, il graduale declino degli standard formativi occidentali. È vero: non si fa altro che parlare di eccellenze, ma si omette poi di definirne gli ambiti di riferimento, che – guarda caso – sono quasi sempre tecnici. Si abbellisce una realtà, come accade nei media e nella moda, che ci mostrano donne belle o comunque particolarmente attente all’immagine, negando il reale mondo della quotidianità, sempre più grigia, sciatta, incapace di attenzione al dettaglio e alle sfumature. Così non c’è insegnante di qualche esperienza che non constati – a fronte delle altisonanti dichiarazioni di intenti e del proliferare di costosi progetti – il progressivo venir meno delle condizioni stesse di educazione, formazione, istruzione all’interno di classi, in Italia anche in relazione alla normativa più recente, che per il numero elevato di allievi e le condizioni di lavoro in genere, sempre più burocratizzato e spersonalizzato, sempre meno attento alla qualità del singolo insegnamento e sempre più funzionalistico, non permettono più la coltivazione del rapporto educativo.
La grande tradizione che la Storia dell’Occidente ha ereditato, quella della filosofia classica e delle sue scuole, dall’Accademia al Liceo, dalla Stoa al Giardino, ma anche quella medievale delle scuole abbaziali e cattedrali, e poi delle magnifiche universitas studiorum, per non citare accademie e cenacoli rinascimentali, o ambigue ma prolifiche realtà di mecenatismo cortigiano, era radicata nel rapporto personale fra individui e, soprattutto fra docenti e allievi, che stabilivano un sottile equilibrio fra rispetto accademico e scambio proficuo di vita intellettuale, ma anche sociale e in certo qual modo affettiva.
È stupefacente vedere quanto di questo oggi non sia rimasto nulla, o almeno nulla di ciò si dia come vincolante, essenziale, determinante del processo educativo, che invece appare totalmente connesso alla oggettività (o presunta tale) della funzione, ben esemplificata dalla perfetta interscambiabilità dei docenti (stabili o precari che siano), le cui competenze devono essere sempre più piatte ed equivalenti, i cui programmi devono sempre più assomigliarsi quando non identificarsi, le cui verifiche dovrebbero risultare sempre più oggettive e comuni, i cui libri di testo, forse per compiacere le potenti Case Editrici, dovrebbero essere adottati ab aeternum, e possibilmente dall’intero gruppo dei docenti all’interno della medesima area disciplinare. La tendenza è funzionalistica, dovrebbe cioè consentire una certa omogeneità di intenti e di risultati, una maggior condivisione, ma nei fatti tende a perseguire una formazione di tipo omologante, basata su presupposti estrinsecisti e tecnicisti (l’educazione cioè come insieme di tecniche memorizzabili e riproducibili da chiunque), paradossalmente non innesca nell’allievo il gusto della ricerca, il senso della domanda, non promuove la nascita della meraviglia o l’azzardo della interpretazione, ma al contrario induce l’idea che il sapere si acquisti come una merce al supermercato, e consista in una serie di tecniche – linguistiche, scientifiche, matematiche, operative – per gestire economicamente la realtà.
Ciò non stupisce di certo l’osservatore che sia attento all’evolvere del costume e dei paradigmi sociali: è evidente che l’unico fattore aggregante della post-modernità sinora esperito è proprio l’economia, da tempo sostituitasi al ruolo che fu una volta della filosofia, della teologia o della stessa scienza, oggi ormai assimilata alle sue applicazioni economiche. E se l’economia riesce a privare gli stati nazionali del diritto di battere moneta (è il caso della Comunità europea), e cioè di un esercizio di sovranità consolidato dalla prassi di secoli, figuriamoci se non riuscirà nell’intento di trasformare la pedagogia in una disciplina atta a coltivare individui ad essa funzionali, tecnici iperspecializzati, o almeno specializzati quanto basta al buon funzionamento dell’ingranaggio. Da anni vedo gli studenti che escono dai migliori licei iscriversi a facoltà come ingegneria, economia, giurisprudenza, medicina, psicologia e scienze umane in genere, o puntare anche in modo già fortemente specialistico a fisioterapia, comunicazione sportiva, benessere animale… Mancano ormai vocazioni – è il caso di definirle proprio così – alle Lettere, alla Filosofia, alla Critica d’arte, alla Storia – nel senso più astratto, disinteressato, gratuito, ove la disciplina non sia un semplice apprendistato all’esercizio di una remunerativa ed efficiente professione, atta a generare e consolidare benessere, ma proprio desiderio e volontà di mantenersi entro una condizione gnoseologica ed ontologica insieme di pensiero, di apertura e di domanda sull’essere, sulla vita, sull’uomo, come stabile condizione esistenziale e morale insieme. La Chiesa Cattolica ha supplito al declino delle vocazioni religiose in Occidente attingendo al grande serbatoio dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, verso cui il Cristianesimo tradizionale sembra ormai migrare, in un passaggio epocale che ricorda la predicazione del cristianesimo ai Gentili agli albori della nostra era. Ma chi raccoglierà le grandi rivelazioni della Filosofia e della Letteratura, dell’Arte e della Musica occidentali, se ne perderemo la memoria storica, la stessa capacità di interiorizzarne lo spirito, il senso profondo, la vitalità? Tale perdita segnalerebbe la fine di una civiltà, cosa che è forse nell’ordine del destino e del tempo, ma che in realtà potrebbe essere traghettata nel nuovo, nel futuro che si prepara, così come accadde per la cultura antica che Agostino di Ippona e altri con lui vollero portare con sé nel Nuovo Mondo che nasceva.
E non si tratta – è importante coglierlo – di trasmettere qualche nozione in più di esegesi dei testi, o di critica letteraria, o di competenze linguistico-filosofiche, ma di recuperare quell’humus che, all’origine della nostra civiltà, e particolarmente risplendente nell’età umanistico-rinascimentale, ci parla appunto di humanitas, di repubblica delle lettere o di solidarietà degli spiriti etici, il cui significato profondo, la cui cifra esplicativa non è l’efficienza dello schiavo, ma la contemplazione dell’uomo libero, uomo che esige tempo di interiorizzazione, misura nel pensare, nel parlare, nell’agire, ordine nel relazionarsi a un contesto. L’ideale dell’uomo vitruviano parla di completezza e interdisciplinarietà, di analisi e sintesi, di contemplazione e azione, di sperimentazione e di interpretazione, e colloca queste disposizioni in una condizione dell’animo, nella possibilità di degradarsi al rango di bruti e in quella di elevarsi al cospetto degli angeli e di Dio, grazie ad una libera scelta, ad una elezione che decide il proprio destino (Pico della Mirandola, De hominis dignitate). Anche i monaci medievali avevano colto ciò: nel loro desiderio di affrancarsi dalle cose del mondo e dalla schiavitù dei sensi era implicito il desiderio di elevarsi al massimo grado di universalità possibile, al massimo livello di comunione con Dio, o con l’essenza più profonda delle cose, che la condizione umana permettesse. Non a caso la regola del monachesimo occidentale, l’ora et labora di San Benedetto, comportava anche per i monaci dediti ad attività intellettuali momenti di lavoro manuale che dovevano equilibrarne le forze e le facoltà, generando armonia nell’anima, che si disponeva così a incontrare il suo Signore nella preghiera, nella meditazione, nella adorazione. La vita comunitaria poi imponeva un continuo adattamento, una esegesi del sé e della relazione, che portava gradualmente il singolo verso le vette della carità e del servizio, in una continua rinuncia alle seduzioni dell’ego e dell’ambizione personale. È evidente che l’ambito della esperienza spirituale si configura come privilegiato nel cogliere il valore della interiorità e della persona, per il carattere sacrale, riferibile a un principio o senso delle cose che la cultura laica per lo più non dichiara o non esplicita nello stesso modo. E prova ne è che quanto riferito al medioevo cristiano poterebbe benissimo adattarsi all’esperienza dei monaci buddisti impegnati nella tutela dei diritti eppure così attenti alla dimensione dell’interiorità, o ai mistici sufi nell’ambito dell’Islam, o ai fedeli ebrei che perseguono la giustizia… e potremmo continuare. E tuttavia non è difficile vedere che, in determinati momenti nella Storia delle civiltà si è creata una sinergia fra ambiti, spirituale e temporale, umanistico e scientifico, individuale e sociale, per cui tutta la cultura è rimasta impregnata di attenzione per l’uomo e si è adoperata nella promozione della sua condizione profonda: la Grecia di Pericle, il Rinascimento italiano, gli Anni ’60 in America ed Europa ove musica, rivendicazioni, cinema e letteratura hanno raggiunto una perfetta sinergia con la società ed hanno indotto al cambiamento…
Ma non c’è cultura dove non c’è desiderio, perché il desiderio, da Leopardi a Marcuse, configura l’ambito dell’utopia e del sogno, della assenza e del suo superamento, disponendo così alla ricerca, all’impegno, allo sforzo solidale per accrescere le condizioni di umanità, “il dominio sul pratico-inerte”, come voleva Sartre, che superava in tal modo l’originario pessimismo esistenziale a favore di un’etica del travalicamento e delle “mani sporche”. E il desiderio pertiene alla sensibilità, non alla tecnica che, semmai, lo trasforma in compulsione, cosa che tuttavia questo sistema socio-economico va cercando di attuare, al fine di dirottarne l’attenzione dall’oggetto che gli è proprio, trascendente l’opaca materialità delle cose, alla immanenza delle merci e della loro fruibilità.
Vi accorgete di quanto il desiderio, nel senso più interiore, radicale, assoluto, sia ormai assente dalla mentalità dei nostri alunni? Che certo desiderano le vacanze all’estero, l’iPad ultimo modello, un accessorio griffato, una scuola esclusiva, il successo personale, ma non sognano più l’infinito oltre la siepe, né lottano per diritti che non siano i loro, e soprattutto non si innamorano più, come una volta, dei loro maestri, poeti o professori che siano, perché sognano banche, villaggi turistici e l’ultimo video-game. Il desiderio si è degradato a contatto con media sempre più intrusivi e sempre meno etici, capaci di incidere radicalmente sul tessuto sociale e persino sulla elaborazione di cultura, sul dibattito politico, sugli andamenti economici e sulle tendenze religiose (la Chiesa cattolica ha scelto i media come moderno agorà…), e ancora una volta, sia per ragioni economiche che per grettezza di tanti operatori della comunicazione, si è deciso per una estetica del grossolano, della sollecitazione, dell’impatto immediato, al di là di ogni possibile giustificazione etica. La devastazione prodotta dalla sistematica esibizione di sesso (povero, meccanico, volgare), violenza (inaudita), gossip (capace di uccidere la dignità di qualsiasi soggetto pubblico), modelli sociali anti-sociali, e cioè esaltanti nei fatti o nelle idee, tutto ciò che è contrario a merito e valore, e magari connesso ad avvenenza, spregiudicatezza e cinismo, è tale che la volontà di fascistizzazione degli italiani nel famoso ventennio apparirebbe un gioco da ragazzi al confronto, non fosse per le terribili conseguenze da esso prodotte. Ed è tuttavia certo che oggi non ci troviamo di fronte a un fenomeno solo italiano, ma occidentale in genere e, se consideriamo la planetarizzazione del nostro modello, praticamente mondiale.
È possibile recuperare un’antropologia che sembra destinata all’estinzione? Tornare – che so – alla sobrietà degli anni ’50-’60-’70? Rivedere le piazze e i giardini pubblici la domenica con bambini che giocano e famiglie a passeggiare? È possibile che rinascano passioni politiche o civili? Che i ragazzi tornino a stupirsi per uno sguardo o per un’idea? Io credo che la partita in gioco è grande, se la pensiamo in termini di salvezza di un intero mondo di civiltà, di un intero ordine di valori, di una configurazione di senso che deve passare nel futuro che si prepara, perché siamo noi a prepararlo, e perciò dobbiamo farla passare: anche attraverso i compiti di ciascuno, e i compiti educativi, quelli che l’Atene di Socrate attribuiva ad ogni cittadino, in particolare.
Io credo che dobbiamo educare la soggettività, che dobbiamo passare dal modello dell’oggettività e funzionalità a quello della soggettività e discrezione, quello dell’abate medievale che ben conosceva i suoi monaci e applicava sempre la littera accompagnandola con la discretio, che lo portava a capire e correggere, fortificare e incoraggiare, persuadere e dissuadere con la parola e con l’esempio, a formare nel senso più ampio i suoi uomini, ad accompagnarli in un cammino di vita, prima ancora che di sapere. Ma è il modello, diversamente rappresentato e contestualizzato, che John Locke, il grande maestro dell’empirismo anglosassone, perseguiva nell’educazione del suo gentleman, che doveva non solo essere uomo di litterae, ma sociale e solidale, capace di agire e interagire con i suoi simili in una condizione collaborativa e benevola, aperta e serena. Gli stessi Gesuiti, che per secoli educarono le classi dirigenti di mezza Europa, approntarono un modello educativo, già nel XVI secolo, basato sulla dimensione performativa, ove si abituava l’allievo alla recitazione, allo sport, alla disamina pubblica e alla responsabilità sociale, in nome di compiti alti che attendevano l’educando al suo ingresso nella vita adulta. Mario Draghi, Mario Monti, Emanuele Severino ne sono, in tempi recenti, una espressione comunque significativa. E chi di noi non ricorda, posto che abbia almeno cinquant’anni, l’attenzione paterna e discreta del proprio maestro unico alle scuole elementari, negli anni ’60, il suo coraggio educativo e la sua libertà di scelta nel selezionare letture, poesie, temi da trattare in classe e nelle ricerche a casa, chi non si affidava ciecamente alla sua professionalità ma anche, umanità, nel valutare ogni situazione didattica, personale, relazionale, certo che alla fine egli era come un bravo medico, una mamma, un angelo capace di scrutare la natura di ogni questione e decidere per il meglio? Quanto lontani dalle petulanti richieste di attenzione delle famiglie di oggi, che trattano i propri figli come piccoli principi e li abituano a ogni tipo di capriccio cui le stesse maestre devono sottostare, in nome di un benessere immediato, di una assenza di sforzo, di un appiattimento delle competenze cui si costringono i migliori per un malinteso senso di democrazia che diventa invece arbitrio e abuso?
No, non abbiamo di fronte semplicemente delle funzioni, o dei soggetti interscambiabili, degli omini tutti uguali, dei piccoli robot che è sufficiente programmare e caricare, ma dei soggetti unici, irripetibili, personali e, come tali, attraversati dalle opzioni della volontà, dalle determinazioni delle loro libere scelte, dalla capacità motivazionale variegata, articolata, suscitata anche dai diversi contesti di provenienza o da un diverso Dna, abbiamo di fronte non un esercito di piccoli schiavi pronti a esercitare le tecniche apprese, obbedienti al modello sociale, politico o economico imposto, ma persone che dovranno prima di tutto vivere, e poi uomini che saranno cittadini o, comunque li si voglia chiamare, membri di una comunità umana (e questa è la formazione), poi futuri professionisti, medici, ingegneri, educatori, tecnici (e questa è la didattica), ma anche artefici di mondi, di universi semantici, e qui (seppur all’interno delle altre dimensioni, come collante di tutta l’azione pedagogico – didattica, formativa e organizzativa insieme) entra in gioco, e diventa determinante, la questione dei valori che una società, una scuola o un docente vogliono proporre, e quindi attraverso quali modelli vogliono proporre tali valori, e quindi quale docente è chiamato a farli passare in atto, a filtrarli e interpretarli per i propri allievi. E l’unicità del docente va salvaguardata, garantita, tutelata, valorizzata, ricercata, approfondita. Che ne sarebbe stato della filosofia, se avessimo obbligato Socrate a filosofare come Parmenide, Democrito a pensare come Aristotele, Hegel a ripetere Kant? E non mi si risponda che le attuali condizioni storiche non permettono più l’emergere dei Socrate o dei Kant, perché certamente non ne emergeranno fin che la scuola promuoverà una cultura da guide turistiche o animatori di week-end, penalizzando qualsiasi originalità, creatività e intraprendenza – teoretica, didattica o educativa in genere – come sospette. Ma tale unicità del docente si accompagna specularmente alla unicità dell’allievo, che è quello lì e non un altro, a cui si può parlare in quel modo, e non in quell’altro, a cui non ci si potrà mai rivolgere come a un qualsiasi altro… Discretio, linguaggio non previsto dai verbali preconfezionati della scuola informatizzata, che peraltro determinano gran parte delle modalità di svolgimento degli attuali Consigli di Classe…
Educare alla soggettività, dunque. Ma come? Riconoscendo finalmente, come accadeva in passato, che l’educazione intellettuale non è tutto. Occorrono anche l’educazione della sensibilità e l’educazione della volontà.
Molti miei alunni di liceo riferiscono, per esempio, di non avere mai letto o studiato poesie durante la scuola elementare – forse, poche, durante la scuola media. Ripenso alle “mie” scuole elementari, quando il maestro unico Erminio Federici ci leggeva, almeno ogni settimana, alcune poesie d’autore (Pascoli, D’Annunzio, Leopardi, Ungaretti, Rodari…), ci chiedeva di esprimere le nostre preferenze, quindi ne dettava due-tre, che dovevamo illustrare, imparare a memoria e, ovviamente, comprendere e spiegare. Quell’esperienza, prolungata negli anni della mia infanzia, ha senz’altro contribuito a plasmare la mia sensibilità, a formare il mio gusto, a permettermi di “sentire” il mondo attorno e dentro di me, oltre che di “comprenderlo” intellettualmente.
La cosa è poi continuata alle scuole medie e al liceo, dove la mia “educazione estetica” continuò attraverso impegno ma anche circostanze adeguate, fra cui una splendida capacità di lettura e interpretazione del testo poetico della mia insegnante di Lettere. Per non parlare del grande cinema d’autore che i cineforum dell’epoca proponevano proprio a noi – giovani studenti – dei vari Antonioni, Pasolini, Cavani, Kubrick… – e, almeno fino alla metà degli anni ’70, della sobrietà ed eleganza delle regie televisive (show, fiction, monografie, Tv dei ragazzi, documentari)… La mia sensibilità – quella generazionale intendo – ne è uscita rafforzata, integra, attenta al dettaglio e alla sostanza. Bene formata. Così, ancora oggi, qualsiasi distonia, stonatura, dissonanza, la cogliamo in modo quasi irriflesso e immediato. La grande Tv idiota con le sue macellerie di corpi, cervelli e pruderie, ci risulta immediatamente disgustosa ed anche un certo gretto, volgare, palestrato modello di uomo medio con la sua tracotanza ci appare ridicolo, come le tante coppie che platealmente esibiscono il loro capitale affettivo come si esibirebbe un orrendo Suv in carreggiata. Ma i nostri giovani? Quale educazione alla sensibilità e, quindi, al pudore? Quale iniziazione sentimentale? Quale gusto? Quali modelli in famiglia, nella società e, di nuovo, nei media?
Quindi, ricominciamo a far leggere la grande letteratura (ce n’è anche per l’infanzia e, molto più in generale, di comprensibile all’infanzia) ai ragazzi, anche delle elementari, alle medie e, certamente, nelle scuole superiori. Ma soprattutto, in un contesto ove la criticità, la riflessione, il pensiero subiscono minotaurici attacchi dai media, dal mercato, dalle lobby, diamo ai giovani, esseri sommamente in formazione, la possibilità di essere creativi rispetto agli ambiti dell’immaginazione e del sogno, dell’espressione letteraria e artistica, più in generale, della propria esperienza esistenziale in quanto tale.
Quando insegnavo Materie Letterarie, mi è capitato di invitare talvolta i miei alunni, accanto a test e composizioni di tipo tradizionale, ad affrontare qualche esercitazione meno abituale. Trovavo una di queste molto rivelativa. Proponevo più parole chiave (una per volta) associate ad una musica di sottofondo ogni volta diversa e imprevedibile. Le parole erano scelte per il loro valore simbolico e archetipico (neve, luna, madre, cielo, arco, automobile, bicchiere…), le musiche erano spesso distoniche, non scontate o convenzionali rispetto al tema dato, spaziando dalla classica al pop, dalla techno alla canzone d’autore, dal jazz al rock… Gli studenti erano richiesti di scrivere parole in base alla libera associazione di idee, senza alcuna preclusione logico-culturale. I risultati erano sorprendenti, e rivelavano che i ragazzi talvolta più inibiti di fronte al testo discorsivo o logico-argomentativo erano invece dei fuoriclasse per accostamenti estetici imprevedibili, struggenti o arditi, degni del più consumato dei creativi oggi sul mercato. E gli altri, pian piano, imparavano a superare rigidità e steccati concettuali, inibizioni e comodi cliché, per esprimere una sensibilità più autentica e libera. È un piccolo, anzi piccolissimo esempio, senz’altro praticabile solo in ambiti e momenti del tutto circoscritti. Ma segnala una direzione trascurata, che si può estendere – affrontando altre metodologie – alla stesura di recensioni a mostre o concerti, alla realizzazione di soluzioni grafiche o multimediali rispetto a un tema o percorso, o ancora, come mi accade nelle lezioni-concerto che tengo per un pubblico trasversale, di chiedere ai ragazzi che se la sentono di suonare uno strumento, cantare, ballare, recitare, leggere una propria poesia, ecc.
Togliamo i ragazzi dal banco, insegniamo loro che, mentre familiarizzano con i classici e la tradizione (e cioè studiano, come vuole Confucio), devono anche riflettere e agire (sempre come vuole Confucio) perché studiare senza riflettere (e aggiungerei, senza “sentire”) spegne l’intelligenza e alimenta solo la ripetizione (e quindi la perpetuazione dei cliché e dei ruoli esistenti).
Ci vedo un disegno, eversivo e reazionario per usare cliché politici, che consiste nel sottrarre ai ragazzi – ma ai cittadini più in generale – l’intelligenza delle cose, la comprensione dei fenomeni, la domanda sul senso, allo scopo di impedire una eventuale, pericolosa “riformulazione di senso”.
Li impegniamo a tal punto nell’acquisizione di tecniche e competenze (quindi nello “studio”) da trasformarli in semplici automi che le eseguiranno ed applicheranno entro una società predisegnata da altri o, meglio, da altro: il mercato e la finanza che ormai sono i principali referenti dei nostri sistemi educativi. La scuola sforna ormai solo “paté/ destinato agl’Iddii pestilenziali” (E. Montale, Il sogno del prigioniero).
Ma quando, come agli albori della civiltà occidentale, si ripropone la domanda del perché, le menti si risvegliano all’orizzonte dei possibili, i desideri si riaccendono, le passioni animano la vita che torna a sperare, e questo alimenta l’impegno, la solidarietà, la partecipazione. Modalità dell’essere che oggi non sussistono più, perché abbiamo insegnato ai ragazzi l’ordine della necessità (entrare nel mercato) e non quello dell’utopia (un altro mondo è possibile).
Per questo, ogni volta che posso, favorisco fra gli alunni nelle mie classi il dibattito critico-problematico: la questione aperta da un filosofo non viene cioè chiusa dalla soluzione che egli ne ha dato (e men che meno da quella della storiografia postuma) – formalizzata da una lezione-frontale – ma viene rimessa in gioco a confronto con l’esistente degli alunni, del docente e, ovviamente, con le loro diverse competenze ed esperienze storico-filosofiche. Non è una novità, lo facevano i maestri medievali nelle disputationes scolastiche, ma oggi, alla luce di un pluralismo centrifugo diffuso, di un pervasivo pensiero debole e di un prevalente approccio relativistico al sapere, riprendere il metodo vuol dire – di necessità – adottarne una gestione – o soluzione – ermeneutica. E cioè, non si tratta più di trovare una – unica – soluzione valida (l’ultimo pensatore studiato? il pensiero del docente come auctoritas? quello della maggioranza dei presenti? quello della ideologia o di una tradizione?), ma di produrre la comprensione dei diversi mythos fondativi, e quindi di promuovere la decodificazione reciproca attraverso strumenti di traduzione e trasposizione, giustificazione e avallo dei diversi punti di vista, processo che comporta la valorizzazione e, direi, la rivalutazione delle soggettività coinvolte, dei pensatori affrontati ma anche degli allievi, questi ultimi abituati ad aspettarsi una soluzione calata dall’alto, e qui richiesti di contribuire ad elaborarne una, sia pure con il ruolo di indispensabile “sorveglianza didattica” del docente, che vigila perché il processo avvenga nel rispetto e nella promozione plurale di tutte le soggettività coinvolte, teoretiche ed esistenziali, e dei valori che esprimono, teoretici ed esistenziali..
Educare la sensibilità; educare alla riflessione; sempre, educare alla creatività che travalica l’esistente a favore del possibile. Ma tutto questo non serve a niente, non si concretizzerà mai in progetto e impegno se non si educa il carattere. Che in effetti oggi non si educa, se non accidentalmente, indirettamente, di riflesso, e mai (è aborrito come un vero e proprio sopruso) programmaticamente.
La modesta rivalutazione attuale del voto di condotta è il magro premio di consolazione per docenti frustrati da una scuola che pensa ad allievi e maestri in termini solo funzionali, operativi, tecnicistici. E dove pertanto la condotta è solo il lubrificante della tecnica (c’è persino una tecnica del voto di condotta, una rigorosa quantificazione dei comportamenti da valutare: quante note?, quante assenze?, quanto valore?). Occorre tornare, come per i filosofi antichi, come nei metodi di scuola attiva, a educare, programmaticamente (anche se in modo dinamico, spontaneo e liberante) il carattere e, quindi, la volontà.
È sotto gli occhi di tutti quanto siano deboli le volontà, e fragili: nessuno oggi si impegna a tempo indeterminato, i progetti naufragano alla prima tempesta, i proponimenti si smentiscono e tradiscono con rapidità fulminante, i giovani non hanno disciplina, le coppie vivono in una bolla di sapone che si dissolve nello scontro degli ego, vulnerabili e narcisisti. Tutti tradiscono tutti, e se stessi in primis, per mancanza di speranza, di energia, e in ultimo di spina dorsale.
Come si educa la volontà? Educando alla fatica, all’impegno, alla continuità, alla sofferenza. E anche alla “normalità”, alla quotidianità e alla “realtà”. La Cina di Mao obbligava gli studenti a lavorare alcune ore alla settimana nelle fabbriche e nelle campagne. I monaci medievali, anche quelli che si dedicavano ad attività intellettuali, erano richiesti di svolgere alcuni lavori manuali “per non insuperbire”. Il disprezzo che una parte della cultura occidentale ancora riserva alle attività manuali, cicliche e ripetitive, che non si oggettivano in un’opera permanente (come nel caso di architettura, arti figurative, ingegneria e tecnologia in genere), e quindi, ad esempio, per i lavori un tempo tradizionalmente femminili, non è del tutto superato. E intanto studenti gettano cartacce per terra e sporcano e deturpano l’ambiente perché poi puliranno i bidelli… Ma educhiamo questi giovani a dare il loro contributo alla pulizia degli ambienti e a tenere in ordine le aule; permettiamo loro di fare un’esperienza di servizio, anche manuale, in una fabbrica, un’azienda agricola, una bottega artigiana, o un ospedale… Censuriamo i comportamenti irrispettosi per l’ambiente, oltre che per le persone…
Chiediamo contegno. Posture corrette nei banchi, in classe. Obbligo di chiedere il turno della parola, di ringraziare, salutare, scusarsi con un atteggiamento adeguato e non con una ridicola formula verbale che traduce totale indifferenza! Chiediamo, in primis, ai ragazzi, di essere collaborativi, solidali, rispettosi e cordiali. Educhiamo alla benevolenza. Sproniamo alla costruzione di una sensibilità viva, attenta, tenace e delicata, capace di cogliere la sostanza che è nel dettaglio.
Mostriamo la bellezza del volontariato e chiediamo ai giovani, nella fase più duttile e in divenire della loro esistenza, quella della scuola, di praticare qualche attività gratuita e libera di servizio al prossimo o all’ambiente, una specie di “servizio civile”, ove ci si possa cimentare nella raccolta di carta e stracci da riciclare, nell’assistenza a chi vive in strada, nell’affiancare gli immigrati che non conoscono la lingua, o i bambini abbandonati, o gli anziani soli nelle grandi città come nelle case di ricovero, nel ripulire le aiuole e le strade, le scritte sui muri, nel rinverdire aree abbandonate o nell’accudimento degli animali maltrattati. I piccoli despoti e i grandi narcisi che andiamo coltivando acquisteranno un volto ed esprimeranno gesti più umani, e il mondo che si prepara sarà anch’esso più umano.
Tutto questo però non produrrà frutti duraturi, se l’allievo non avrà uno spazio per interiorizzare e maturare, eleggere e assumere. E tale spazio è un ordine mentale, una scansione dell’impegno che sia in accordo col tempo biologico e psicologico – quasi direi “spirituale” – della vita umana. Un bimbo, un adolescente, un giovane che si ritrova ad avere un’agenda fitta come quella di un top manager è un povero bimbo, adolescente o giovane, che si prepara a una condizione adulta venale e ordinaria, fatta di tecniche da riprodurre e di efficienza da dimostrare, l’efficienza dello schiavo. Per anni non coltiverà immaginazione e fantasia, non avrà spazio mentale e biologico per scegliere, non potrà accordarsi con la propria sensibilità né coltivare sentimenti di dedizione e abnegazione. Ve ne fossero ancora, non potrebbe vedere le lucciole nelle sere d’estate, prepararsi al temporale che arriva o godersi il primo sprazzo di sole, non capirebbe Leopardi, mentre il Natale sarebbe per lui solo occasione di un nuovo modello di smartphone… Diamo tempo ai giovani, il tempo vuoto che anche la tradizione zen insegna, il tempo che la mia infanzia libera e studiosa mi ha permesso di riempire di ricerche e viaggi della fantasia, grazie alla poesia e alla narrativa, ma anche alla musica e ai misteri dello spirito, che potevo metabolizzare in uno spazio interiore che oggi certamente non avrei.
C’è un fondo della vita, un alveo oscuro e luminoso, una energia recondita e sovrabbondante che la attraversa, con cui dobbiamo sintonizzarci, che non possiamo ignorare o considerare come una variabile irrilevante, che ne è l’origine, la condizione o l’incognita per cui siamo, viviamo e agiamo. A partire da questa esperienza così essenziale di ciò che ci costituisce nel profondo, e indissolubilmente lega all’esistenza nella sua complessità e varietà, possiamo avvertire poi la chiamata, la vocazione alla familiarità con l’universo mondo, e quindi alla “cultura” che esso va sceverando e costituendo nella sua vicenda formativa ed evolutiva. E forse è il caso, considerato quanto ancora il pianeta si strutturi in regioni o recinti che pretendono alla totalità, e cioè all’esaustività, e quindi assumono letture integralistiche del reale e del valore ad esso sotteso, forse è il caso di parlare in termini plurali, di culture, di saperi, di paradigmi, nel segno però di una integrazione possibile, di un compito condivisibile, di un’armonia generatrice di speranza e di pace cui nonostante tutto è possibile tendere…
Parole d’ordine, direzioni praticabili e percorsi percorribili: pensiero divergente e prospettico, sapienza ermeneutica, ma anche assimilazione, laddove non basta identificare la forma di una virtuale interpretazione, ma empaticamente occorre coglierne il mythos di riferimento come degno e amabile, ancorché eventualmente così lontano, così diverso dal nostro, perché abbia luogo un’esperienza di condivisione, e quindi di tensione all’unità, che è poi aspirazione all’universalità, il luogo, come voleva Kant, della perfetta proporzione tra virtù e felicità.
(Da C. Sottocornola, Stella Polare, Marna 2013)