ENZA SIRIANNI
Sudore, caldo, sole. Si respira a fatica nelle lagune di Aigues-Mortes, che si tingono di rosa fino ad un rosso che sembra sangue lavato. L’umidità che spira dalle vasche, si appiccica sugli indumenti mentre le labbra si asciugano per l’accanimento del mistral, la pelle brucia e le gole ardono di sete inestinguibile. È tempo di raccolta del sale: due mesi tra agosto e settembre in cui, un numero imprecisato di uomini, si affolla a stormi in Camargue, per fare montagne bianche di cristalli di cloruro di sodio. Lavorano infaticabili, in una catena umana di montaggio, rompendo le lastre che si sono formate nel resto dell’anno. Frantumano, battono, ammassano. Picconi, pale, carriole e forza di braccia. Manca l’acqua in tanta acqua salmastra e sapida che non può dissetare. Ce n’è così poca che è razionata in catini da dividere tra gruppi di cinque, sei saliniers. Manca anche il pane, sospirato, bramato fino a sera quando, sfiniti, gli operai torneranno nelle baracche in cui vivono in condizioni disumane. Prima di gettarsi a dormire in pagliericci di fieno ispido, un pasto frugale, fatto di una minestra e una pagnotta. La mattina, sveglia alle sei, per ricominciare ad accumulare brina salata, ognuno con il suo compito, sotto la sorveglianza dei capi squadra.
Tutto in questi luoghi, ha la radice del sale. La ricchezza degli azionisti della Compagnie des salins du Midi e le briciole dei poveracci che lavorano per loro.
In tale contesto accaddero i fatti che qui ricostruiremo avendo come bibliografia di riferimento, essenzialmente, due libri: Barnabà Enzo, Aigues-Mortes, il massacro degli italiani, Infinito edizioni, Formigine (Modena)2015; Gèrard Noiriel, Il massacro degli italiani. Aigues-Mortes, 1893. Quando il lavoro lo rubavamo noi, Tropea, Milano 2010.
«Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati.»
Questa netta constatazione, tratta da un articolo di Lenin del 1913, riassume la causa principale delle migrazioni di allora con uno degli effetti, validi entrambi, purtroppo, ancora oggi: fuga dalla miseria e disponibilità a lavorare a qualsiasi condizione.
Guardando all’Italia, è indubitabile che la fame di lavoro, unita alla speranza di una vita migliore per uscire da una di privazioni, ha costituito la potente molla dello spostamento di nostri connazionali dalla seconda metà dell’ottocento in poi, verso le Americhe e i paesi che offrivano maggiore richiesta di mano d’opera nell’agricoltura, nell’edilizia, nell’industria, nelle attività estrattive, nei porti.
Il bisogno che piega, obbliga, non dona scelte, spingeva a “trasferte” stagionali molti nostri connazionali in terra di Provenza, negli ultimi due decenni del 1800.
Nelle saline più grandi del Mediterraneo, dette di Aigues-Mortes dalla cittadina fortificata in cui sorgono a pochi chilometri di distanza, nel periodo della raccolta, servivano almeno 1200 uomini.
Essi erano reclutati, in modo più massiccio, da zone della stessa Francia, soprattutto dalle Cévennes nel dipartimento di Ardéche-i cosiddetti ardèchois-a cui si aggiungevano i trimards, lavoratori nomadi. Parte di questa mano d’opera, era costituita inoltre da italiani, piémontais-detti dispregiativamente piémos- per il fatto che in maggioranza giungevano dal Piemonte con gruppi più ridotti dalla Toscana, Lombardia e Liguria. Ai nostri connazionali, erano assegnate le operazioni di battitura e raccolta del sale, da farsi in tempi rapidi per timore delle piogge che potevano mettere a rischio l’integrità dei cristalli.
Perché questo incarico agli italiani? Organizzati in squadre con un capo, si mostravano resistenti, rapidi, efficienti, rendendo il doppio degli altri sfruttati. Una massimizzazione delle prestazioni che faceva comodo ai padroni e consentiva ai lavoratori di ottenere, grazie al cottimo, paghe più cospicue, fino a dodici franchi al giorno rispetto ai cinque di media con cui venivano retribuiti gli altri ingaggiati.
Una differenza che provocava gelosie, invidie, tensioni nella commistione di disperati, tutti alla ricerca di pane per sé e le famiglie. Uno dei problemi, infatti, delle comunità temporanee che si costituivano nelle varie saline, era la convivenza pacifica tra uomini sottoposti a condizioni durissime di lavoro. Bastava un banale pretesto per scagliarsi accuse a vicenda e attaccare lite.
A volte, nelle risse, spuntavano i coltelli che i francesi additavano come arma di inseparabile compagnia degli italiani. È noto che negli stereotipi dispregiativi e caricaturali verso un gruppo etnico, entrano aspetto fisico, oggetti, abitudini, tradizioni, modi di dire, di vestire, che vengono assurti, spesso, a segni connotativi e identificativi di una presunta minorità, avvertita come un pericolo, una minaccia.
Orsi, rospi, mangiatori di maccaroni, christos, erano alcuni degli appellativi xenofobi francesi contro i nostri connazionali.
Nella Francia di fine ‘800, gli italiani che arrivavano numerosi non solo da stagionali, ma con l’intenzione di stabilirsi definitivamente lì, non suscitavano in tutti simpatie.
La diffidenza verso gli stranieri era crescente in un contesto di crisi economica e di tumultuosi mutamenti politici. In particolare, i rapporti tra Italia e Francia si erano incrinati in seguito alla questione tunisina e alla stipula da parte del governo italiano della Triplice Alleanza che ci legava in un patto difensivo all’Austria e alla Germania. Quest’ultima era particolarmente invisa ai francesi dopo la sconfitta di Sedan (1870), costretti a cederle l’Alsazia-Lorena, da cui si alimenterà un acceso revanscismo fino allo scoppio della prima guerra mondiale.
Alle tensioni in politica estera, si sovrapposero le difficoltà interne per gli effetti della Grande depressione (1875-1895) che ancora attanagliavano la Francia. La paura, l’insicurezza, diedero man forte alla xenofobia e all’antisemitismo che avrà il suo acme nel famoso caso Dreyfuss.
In tale miscela di disagio e crisi, scattarono meccanismi di ostilità e difesa nazionalistiche che si ripropongono pervicacemente, ancora oggi, nei paesi a forte affluenza migratoria.
Si agitò lo spauracchio dell’’invasione fomentato da opuscoli come «L’invasion pacifique de la France par les étrangers» di Marchal-Lafontaine in cui si parlava di “colonizzazione” lenta e incessante da parte di un “esercito” che infettava il paese.
Non conosceva battute di arresto, intanto, la vocazione colonialista della Francia non più impero ma Terza repubblica. Il primo ministro Jules Ferry, nel celebre discorso al Parlamento francese del 1885, dichiarò : «Compete alle razze superiori un diritto, cui fa riscontro un dovere che loro incombe: quello di civilizzare le razze inferiori.»
Due decenni dopo circa, nel 1907, lo scrittore ultranazionalista Bertrand Louis, pubblicò il saggio «L’invasion» in cui, se si avesse l’interesse di leggerlo, si trovano triti luoghi comuni di chiara impronta razzista diretti agli italiani di Marsiglia che, allora, erano un quinto della sua popolazione.
Riguardo alla consistente componente italiana nella città portuale, facendo un salto indietro, occorre ricordare i cosiddetti “Vespri marsigliesi”, un movimento xenofobo che nel giugno del 1881 organizzò spedizioni punitive contro gli italiani, “ rei” di avere accolto con freddezza le truppe francesi di ritorno dalla Tunisia, lì inviate per contrastare le ambizioni coloniali del nostro paese.
Nel calderone bollente, entrarono altri ingredienti come le accuse di rubare il lavoro ai francesi e di abbassarne il costo.
“L’italiano e soprattutto il piemontese lavora in generale per un salario inferiore di un terzo di quello degli operai francesi.” Così scriveva in quell’anno Benoît Malon su Le citoyen de Paris.
La città conobbe tre giorni di scontri violenti con il bilancio di tre morti (due francesi e un italiano) e di ventuno feriti.
Ritornando alla promiscuità forzata accennata sopra, occorre dire che, fino al 1893, i capi responsabili delle saline, avevano tenuto separati i gruppi secondo la loro provenienza, consapevoli che fosse meglio non mettere a stretto contatto ardéchois, trimards, piémos. Ma da quell’anno, probabilmente per ragioni di organizzazione del lavoro e per risparmiare sullo spazio da destinare alle cambuses dove si stipavano i lavoranti, tale precauzione era caduta per cui i gruppi erano misti.
“Tre mondi sociali (la comunità locale di Aigues-Mortes, i lavoratori stagionali e i trimards) estranei gli uni agli altri e profondamente destabilizzati da una crisi economica senza precedenti, si ritrovarono faccia a faccia senza averlo voluto, costretti ad accettare il lavoro forzato imposto dalla potente Compagnie des Salins du Midi (CSM) pur di non morire di fare. Bastò una piccola goccia per far traboccare il vaso.”
Così Gérard Noiriel nel suo saggio, già citato in apertura, sul clima teso e avvelenato che si respirava nelle saline della Fangouse e della Gojouse, dove lavoravano tutti i forestieri.
Proprio nella prima, la mattina del 16 agosto del 1893, si verificarono alcuni incidenti tra ardéchois, trimards e piémos.
In paese, dopo la festa del 15 agosto con la tradizionale corsa dei tori, un gruppo di operai di nazionalità francese rimasti senza lavoro, avevano insultato i capi squadra, accusati di preferire gli italiani a loro. Nella salina della Fangouse, le cose andarono peggio perché si passò dalle parole ai fatti. Pare che un francese avesse deliberatamente sfiorato con la carriola un piemontese. Alla provocazione, l’operaio indicato come torinese, avrebbe risposto sporcando l’acqua da bere dei trimards, immergendovi la sua camicia sporca e sudata. La rissa fu inevitabile: i francesi attaccarono le cambuses dove vi erano più italiani, con pietre e blocchi di sale, ferendone uno. Nella pausa pranzo, i piemontesi si organizzarono in forze per dare una lezione ai trimards che cercarono rifugio presso la casa del guardiano. Uno di loro fu ferito a pugnalate e, forse, altri cinque subirono percosse a colpi di bastone e pietre. I francesi non stettero a guardare e chiesero aiuto ai connazionali della vicina salina della Gojouse. Arrivarono sul posto i gendarmi e Louis Hugou, giudice di pace. Per sedare gli animi, furono posti in arresto due italiani, tra cui Giovanni Giordano, bilingue e con il piglio del leader. Il giudice, persona di buon senso, tuttavia parlò agli operai delle due nazionalità, convincendoli a calmarsi e a non farsi una guerra tra loro da cui non avrebbero tratto alcun vantaggio. Quindi, si affrettò a rilasciare gli arrestati. Tale gesto pacificatorio, fu interpretato dai francesi come uno smacco, un’umiliazione per cui corsero in paese spargendo la falsa notizia che gli italiani avevano ucciso alcuni aiguesmortesi.
Cominciò il deragliamento della ragione, a macchia d’olio.
A partire dalle ore 15 del pomeriggio di quel giorno, gli animi eccitati da un’atmosfera pregressa di ostilità verso chi gli “rubava” il lavoro, surriscaldati dalla falsa notizia che gli italiani avevano ucciso tre francesi alle saline, scaricarono la loro rabbia contro una squadra di piémos, che si erano radunati davanti al locale panificio per ricevere la paga dal caposquadra. Ci fu un vero e proprio assalto contro questi poveracci da parte di gente armata di bastoni. Per fortuna, la padrona del forno, la vedova Fontaine, non esitò ad aprire la porta ai lavoratori che si rifugiarono dentro in circa sessanta. Grazie anche all’arrivo di altri gendarmi, guardie e doganieri, invocati dal sindaco e fatti giungere dal prefetto, i piemontesi, assediati fino a mezzanotte, furono messi in salvo.
La situazione rimaneva incandescente- questo era ben chiaro alle autorità cittadine- visto che a stento si era evitato il linciaggio degli italiani stipati nel panificio e difesi da un numero insufficiente di forze dell’ordine. Non c’era che da sperare che gli animi si calmassero in attesa di truppe dell’esercito richieste dal prefetto alle 4:40 del mattino del 17 agosto. I primi rinforzi, invece, giunsero ad Aigues-Mortes alle 14:30, quando ormai la strage degli italiani era avvenuta.
Nella mattinata, al grido di “caccia all’orso”, una folla di paesani, ingrossata da trimards, impedì ad un gruppo di sedici operai italiani di salire sul treno per Nîmes. Il prefetto, infatti, era riuscito a fare giungere alla stazione quasi tutti gli assediati, protetti dai gendarmi.
Il sindaco, Marius Terras, purtroppo, eccitò ulteriormente i facinorosi con l’affissione di un avviso che recitava: «La compagnia revoca ai soggetti di nazionalità italiana tutto il lavoro. [....] Dalle 15 di domani, i diversi cantieri saranno aperti per gli operai che si presenteranno.»
Una banda di esagitati decise, allora, di recarsi alla Fangouse dove vi erano ancora parecchi italiani.
Si mossero al suono di tamburo, intonando la Marsigliese, con il tricolore e dei drappi su cui vi era scritto: “Morte agli italiani! Oggi ne faremo salsiccia!”
Nella salina erano rimasti circa 50 lavoratori, che bisognava proteggere dall’assalto dei francesi. Tempestivamente, per questo motivo, fu mandata la gendarmeria che pensò di radunare gli operai sotto tiro nelle capanne. Ma non fu una buona idea visto che i trimards, guidati da un certo Marcel Biblemont, salirono sui tetti delle baracche e in preda ad una furia incontenibile, accompagnata da ingiurie e frasi rabbiose, riuscirono a colpire e a ferire alcuni italiani. A quel punto, i gendarmi decisero di scortarli tutti fino alla stazione del paese dove erano raccolti gli altri. Il corteo, quindi, partì alla volta di Aigues-Mortes seguito da una folla di circa seicento “giustizieri.” Quando il gruppo, protetto dalle guardie, giunse in prossimità del paese, avvenne l’irreparabile. Gli italiani si trovarono tra due fuochi: da una parte gli assalitori della Fangouse, dall’altra, numerosi aiguesmortesi che si precipitavano dall’interno della cittadina verso le mura. Impazienti anche loro di dare la “caccia all’orso”, erano capeggiati da un operaio giornaliero di nome Joseph Constant che agitava un fucile. Dunque non più solo bastoni e sassi, ma armi da fuoco impugnate dai contadini, braccianti locali.
I pochi gendarmi non erano certo in grado di fronteggiare oltre mille persone accalcatesi intorno ai poveri scortati. Oggetto di lancio di pietre pure loro, tentarono di disperdere i rivoltosi sparando in aria. Nella condizione di topi in trappola, gli italiani furono spinti in un fossato poco profondo, con un livello di acqua basso. Sopra e intorno avevano uomini inferociti che li colpivano alla cieca con pali, come se battessero il grano. Nel crescendo di ottundimento della ragione, alla rabbia xenofoba e sociale, si aggiunse anche quella contro l’ordine costituito. Si udì inneggiare a Fourmies (città in cui vi era stato l’eccidio di quattordici scioperanti da parte dell’esercito) e a Ravachol, un anarchico ghigliottinato per i suoi efferati crimini nel 1892, assurto a simbolo della lotta contro il potere. Ormai nessuno, se non un battaglione di soldati che non c’era, avrebbe potuto fermare quell’ondata di violenza che si abbatté sugli italiani. Il bilancio dei morti fu di dieci, quasi tutti piemontesi. Nove cadaveri furono riconosciuti, il decimo rimase senza nome. Un centinaio furono i feriti, altri dispersi perché, verosimilmente, riuscirono a nascondersi e a fuggire. Tutti questi eventi accaddero tra le 10 della mattina e le primissime ore del pomeriggio.
Quando, alle 17, arrivò finalmente l’esercito composto da 250 uomini dell’artiglieria a cavallo, la strage era stata compiuta.
Invano i pochi gendarmi e altre persone “giuste” tra cui l’abbé Mauger, tentarono di mettere al sicuro agli italiani.
Ci fu un possidente terriero, tal Granier, che si rifiutò di aprire il cancello della sua villa.
Scene di selvaggia violenza si videro ovunque ci fosse un piémos, dalla piazza del paese alle vigne dove alcuni cercarono di nascondersi.
Si usarono pietre, bastoni, forconi, coltelli, fucili, perfino bottiglie rotte per uccidere.
Alle 15, il sindaco emanò un secondo avviso alla popolazione che esordiva così: “Gli operai francesi hanno ottenuto piena soddisfazione.” Poi invitava i suoi concittadini a sospendere le manifestazioni, non mancando di chiudere con un “Vive la France, vive Aigues-Mortes!”.
L’intervento, tardivo, dell’esercito, consentì di condurre gli italiani sopravvissuti, asserragliati nella torre del paese, alla stazione. Sul treno per Nîmes si trovarono uomini e donne terrorizzati, increduli di essere ancora vivi. Tra di loro, la signora Caterina, moglie di Bartolomeo Calori, scampata alla morte per miracolo, mentre il marito, davanti ai suoi occhi, veniva massacrato a randellate.
Di solito, dopo le carneficine, si leva un silenzio irreale. La nausea del sangue, lo sbigottimento per la belva feroce che si annida nell’animo umano, i morti inguardabili, provocano una sospensione. Sentimenti diversi e contrastanti abitano gli assassini, le vittime, i complici, i vigliacchi, gli ignavi, i giusti. Si può congetturare una sorta di bilancio personale, tra il profitto e la perdita, a seconda di che parte si è stati o non si è stati.
Verga, nella novella «Libertà» sul massacro di Bronte, raffigura con scabra potenza il senso di disorientamento che aleggia nei ribelli dopo l’orgia di sangue, colti da un oscuro presentimento di castigo, sciagura.
Non fu così ad Aigues-Mortes, almeno nell’immediato. Una folla assetata di vendetta, seguì la colonna dei superstiti scortati dai gendarmi e dalla cavalleria, lanciando insulti, minacce, oggetti per cercare di colpire, ferire ancora. “Morte agli italiani!” echeggiò nella stazione fino a quando il treno non scomparve alla vista dei sediziosi.
Cosa avvenne dopo quello che subito apparve come un vero e proprio pogrom?
L’eco dei fatti ebbe una notevole risonanza in Italia. Ma, passata la prima ondata di sdegno, con proteste in alcune città italiane cavalcate da Crispi e dagli ambienti più reazionari, con titoloni in prima pagina, interventi di firme illustri (Scarfoglio, Lombroso), le cose assunsero il colore grigio della rimozione e dell’opportunismo politico.
Tra il 27 e il 30 dicembre del 1893, ad Angoulême, cominciò il processo. I rinviati a giudizio erano 17 (tra cui anche l’italiano Giovanni Giordano) dai 41 indagati iniziali. Nonostante le testimonianze dettagliate, i rapporti delle autorità che avevano assistito ai fatti, dopo un breve dibattimento, gli imputati furono tutti assolti per le pressioni dei nazionalisti. Magra consolazione furono le dimissioni a cui fu costretto il sindaco Terras.
In Italia, a parte la riprovazione per la scandalosa sentenza espressa dai giornali, non si ebbero particolari reazioni politiche, viste le difficoltà che attraversava in quel momento il Regno.
La lapide che, a distanza di oltre cento anni, è stata eretta per le vittime italiane ad Aigues-Mortes , in piazza Saint-Louis, il re santo dei francesi che dalla cittadina fece partire due crociate, rende un servigio alla memoria, visto l’oblio in cui era caduto questo fatto. La giustizia è impossibile renderla ai dieci trucidati, un lusso che ancora oggi non spetta agli ultimi, agli invisibili ai quattro angoli del pianeta.
(Immagine tratta da Wikipedia)