GABRIELLA VERGARI
Il tuo naso non ha mai lasciato presagire niente di promettente .
Troppo affilato e diritto per essere accondiscendente.
E troppo delicato per lasciarsi travolgere dal puzzo del mondo.
Mi hai sempre dato l’impressione di un inguaribile snob, più forse per autodifesa che per autentica scelta, ma pur sempre inguaribile.
E così, è quasi inevitabile che, di te, sia questa la prima cosa che scorgo, appena esci dagli arrivi.
Vero è che, dall’ultima volta, sei decisamente cresciuto, eppure resti inconfondibile.
Almeno per me che, subito dopo il naso, ho modo di apprezzare il pregevole resto che contraddistingue la tua essenza su questa terra. Mai capito che cosa tu abbia per lasciarmi ogni volta priva di fiato, come a sedici anni.
Solo che ora ho imparato a non chiedermelo più e a consentire che agisca impunemente, senza però più ridurmi in suo potere.
Lo ammetto, continui ancora ad ammaliarmi, malgrado tutti questi anni e malgrado la nostra vita ormai distante e non posso farci granché. Come vuole il Poeta, sento che accade ma, se non altro, non rimango più crocefissa al mio dolore.
Coincidenza bislacca – eppure nulla avviene per caso, mi insinua una vocina interiore –, dalla suoneria di un cellulare riecheggiano le prime note di Sapore di mare.
Non che fosse proprio la nostra canzone, ma da quell’estate ad Aci Trezza non sono mai riuscita a risentirla senza pensare al tuo sapore di sale.
Amaro come le lacrime che mi hai fatto versare, ma pure irresistibile, se mai sale al mondo lo sia stato.
E non è che, da allora in poi, non ne abbia conosciuti o assaggiati, sia in senso proprio che traslato.
Da quello rosa dell’Himalaya, a cristalli puri e delicati, a quello grigio del Mar Celtico, sabbioso di brume nordiche e argilla, a quello nero, lavico e grezzo delle Hawaii, a quello persiano, blu come il serico sfondo d’un tappeto d’Isfahan.
Ma tu eri tu, ed eri l’incarnazione stessa del sale della mia vita, malgrado il tuo insopportabile naso e le tue arie da dandy consumato.
Per non dire di come a volte strascinassi le parole, quasi a dispensarle come gocce contate, nell’arsura dell’inadeguatezza dei tuoi interlocutori.
Ma chi ti credevi di essere? E, soprattutto, che ti aspettavi da te stesso?
Il massimo, ovvio, stando anche al ruolo che sei riuscito a ricoprire nel tuo settore che, ironia della sorte, guarda caso è quello che ho scelto anch’io, solo che, figurarsi, lo svolgo dalla parte opposta della barricata, nel senso che io sono un’autrice e tu l’editor al quale, per un’insondabile congiuntura del caso, devo questa volta far capo.
E certo, mi piace pensare che ti sia preso un colpo quando te l’hanno comunicato e immagino che quel simpaticone del tuo nasino si sarà arricciato almeno un paio di volte, com’ha sempre fatto nelle situazioni problematiche.
Aggiungo che sarebbe pure stato opportuno che ti sottraessi al compito, e magari ci avrai pure provato. Ma non ha funzionato e hai dovuto obbedire al tuo Re Savoiardo, come Garibaldi che, al tempo di gloria delle tue contestazioni all’università, tanto detestavi.
Certo, ad onor del vero, mi sarei potuta sottrarre anch’io, accampando chissà quali scuse e chiedendo di essere messa in contatto con un altro tuo collega. Ma, a dirla tutta, sarebbe stata una follia e il ricordo dei nostri tumultuosi anni insieme non è stato sufficiente a farmela compiere.
Sei, com’è noto, il migliore e solo una sciagurata sfigata, rancorosa e nostalgica, come sto cercando di non essere, avrebbe potuto declinare l’offerta del tuo infallibile fiuto.
Hai sempre avuto il gusto delle lettere, così come dei capi d’abbigliamento firmati e riconosco che, con l’età, il tuo aplomb sia divenuto ancora più elegante di quando indossavi i tuoi famosi dolcevita neri che mi facevano andar fuori di testa. Come li amavo. Quasi quanto amavo te.
Stamane non indossi nulla di tanto eclatante né esistenzialista, ma sei decisamente all’altezza del tuo ruolo e della situazione, e le due ore d’aereo non sembrano aver affatto scalfito né le pieghe del tuo cappotto di cachemire, né quelle dei tuoi capelli, ancora folti e mossi come li ricordo.
Sapore di sale
sapore di mare
Un gusto un po’amaro
Di cose perdute
Di cose lasciate
Lontano da noi
Dove il mondo è diverso
Diverso da qui
Ma che è, una congiura? Le parole mi risuonano dentro, mentre intanto anche tu mi hai intercettato con lo sguardo e mi fai un cenno con il capo. Gentile, affabile, professionale, direi anzi ineccepibile.
Bene, il primo imbarazzo dovrebbe essere ormai superato. Più che altro me lo auguro, dato che in realtà non ho idea di cosa tu stia davvero pensando di me o di come il tuo nasino mi vada adesso valutando e soppesando. Non credo abbia perso l’abitudine, c’è nato per questo e si è sempre posto in mezzo, come un’autentica suocera malmostosa.
Andiamo? dico con una leggerezza che sembra uscita dal doppiaggio di un film americano anni ’50. Oddio, spero di riuscire un po’ più autentica nelle prossime battute, impresa non facile mentre armeggio con le chiavi e sento il cuore percorrere le vie più strampalate. Ancora? A distanza di tanto tempo e malgrado tutto? Ma che caspita.
E così, per non lasciarmi sopraffare dalle emozioni, o forse per mettermi alla prova o non farti sospettare nulla, ma di sicuro con una sottile voglia di sfidarti, decido su due piedi di portarti proprio ad Aci Trezza e, appena giunti, arresto la macchina nel punto esatto in cui, quella sera, mi hai giurato eterno amore e perfino il tuo naso, già anche lui, sembrava pendere dal mio sì.
Mai monosillabo, per me, più auspicato e mai più rimpianto.
Lo faccio anche per lasciarti intendere che è ormai acqua passata, come a giocare a carte scoperte per dirti che, sul passato, sarebbe bene mettere una pietra sopra e che ad ogni modo nulla mi importa.
La parte adulta del mio essere lo sa a perfezione ed è da lungo tempo che si allena ad assumerne consapevole coscienza.
È l’altra parte, quella che ha ripreso a giocare a saltarello appena ti ha visto, che invece mi preoccupa e non capisco bene che intenzioni abbia, se non stia provando a mettere in atto un sabotaggio che comunque non le riuscirà, perché non sono più la ragazza di una volta e perché del tuo sapore di sale non voglio più saperne e perché stiamo qui per lavorare al mio nuovo romanzo e perché questi giganti di pietra non ci sono più custodi di alcun segreto né di alcuna promessa.
Restano sempre e comunque magnifici, perenni sentinelle scagliate, in mare, da un Ciclope furente di dolore e accecato dall’inganno di Nessuno.
Quante volte, dopo la nostra definitiva rottura, sono tornata a rivederle, accecata e furente anch’io per l’inganno del mio Nessuno, ovvero il tuo, ora ridottosi ad una cicatrice che solo chi ben mi conosce riesce nonostante tutto ad intravedere.
Oh, i Faraglioni…, esclami, e ti fermi come sospeso, o forse solo sorpreso di questa inattesa svolta del nostro incontro.
Forse ti sembra che io stia facendo una mossa troppo scontata, troppo prevedibile, o forse non ti ricordi, possibile?, più nulla e sei semplicemente rimasto soggiogato da uno spettacolo straordinario, che tutto il mondo ci invidia.
Non sono mai riuscita a leggerti dentro, nemmeno quando stavamo insieme. Non, quanto meno, con la stessa facilità con cui tu ci riuscivi con me, un proverbiale libro aperto.
Figuriamoci se sono perciò in grado di farlo adesso, con tutto il tempo trascorso, né mi dai nemmeno l’opportunità di provare a capire che ti stia passando per la testa, dato che subito ti fiondi nel bar più vicino e prendi posto.
E ti metti di spalle alle finestre, come se, il mare, non ti interessasse godertelo, in tutta la luminosità di questa splendente mattinata d’incipiente primavera.
Come se, insomma, la vista dei Faraglioni immersi nel sole ti lasciasse indifferente.
O, meglio ancora, come se volessi dare ad intendere di aver abbandonato, dietro di te, tutto quello che rappresenti il tuo passato in terra siciliana.
Oppure mi sbaglio in pieno, con te non è mai stato facile azzeccare, e forse ti stai solo comportando da cavaliere e preferisci concedere a me la vista del panorama che, grazie tante, grazie davvero, sto cogliendo in pieno, una cartolina di luci e colori vividissimi e vibranti, incorniciata dalle ampie vetrate di plexiglass del locale.
Poi ti metti più comodo e, sempre perfettamente a tuo agio, accavalli le gambe di lato, con una naturalezza da attore che ancora una volta mi spezza il fiato in gola.
Ma non ci casco, non oggi, non così.
Per non incorrere in alcun tipo di rischio, provo ad ogni buon conto a darmi un contegno anch’io, chiamando il cameriere per l’ordinazione e presto un paio di bicchieri di prosecco si accompagnano agli stuzzichini di un abbondante aperitivo.
Facciamo pure un brindisi veloce alla riuscita del libro.
Ti guardo di nuovo e mi sembra impossibile che sia passato tanto tempo da quando credevo fossimo una cosa sola, e insieme, che ci sia mai stato un tempo diverso da questo, in cui un uomo e una donna si ritrovano seduti da una parte e dall’altra di un tavolino da bar per parlare, cordiali quanto distanti, di lavoro.
Sembra in ogni caso tutto così fluido, così naturale, quasi da scaletta concordata.
Alla prima pausa utile, estrai finalmente la tua copia del mio manoscritto, dalla borsa in cuoio lavorato a mano che ti stai portando dietro come il più diligente dei portavalori.
E si comincia. Sono davvero curiosa di conoscere i numeri che sarai capace di tirar fuori, né mi deludi.
Leggi, sottolinei, discuti i passaggi nevralgici, esalti i punti di forza ed evidenzi quelli di debolezza che a quanto pare – lo stavo aspettando al varco, il tuo naso – non sono pochi.
Se lo dici tu, mi viene ad un certo punto da commentare, ma preferisco tacere, per non sembrare stupidamente polemica.
E poi, vederti e sentirti parlare di queste cose resta pur sempre un piacere e mi usi anche il riguardo di non strascicare nemmeno una volta le parole.
Quale grande degnazione da parte tua.
Dovrei essertene grata, ed è evidente che mi hai fatto salire di più di un gradino, nella tua graduatoria personale.
Ma poi, ad un tratto un raggio di sole scende a picco sul mare rendendolo un tersissimo specchio liquido e, come un brivido leggero, un tremolio azzurro si propaga tra le onde attraversate da una corrente veloce.
Mi ritornano in mente di nuovo le parole della canzone:
Sapore di sale
sapore di mare
Un gusto un po’amaro
Di cose perdute
Di cose lasciate
Lontano da noi
Dove il mondo è diverso
Diverso da qui…
…e non ti ascolto più.
Volo mille miglia lontano e perdo i confini delle cose.
Vorrei chiederti se hai mai nostalgia di quello che saremmo potuti essere e non siamo stati o se il mio ricordo ti abbia mai scosso, in questi anni, come il brivido della corrente che è appena passata.
Mi piacerebbe stringerti ancora per una volta tra le mie braccia e forse baciarti. Annullare tanta distanza. Una pazzia, certo, ma in quale vita degna di questo nome, non se ne commette, almeno una?
E qui, dove parli dei sapori, ti sento appena dire come in trance, sarebbe forse bene usare una similitudine, come, come…
Di sale, suggerisco a fior di labbra e già me ne pento. Rientro subito in me ma percepisco un tuo lieve sussulto. Speriamo non sia troppo tardi per riprendere il controllo della situazione.
Ma che mi è preso? La follia di un momento. Maledetti Faraglioni e maledetta me…
Mi attraversa in un lampo la consapevolezza del disastro che sono stata ad un passo dal combinare e, in un guizzo tremebondo, gli occhi mi corrono subito al tuo naso.
Non si muove, né si arriccia.
Bene, allora, è tutto a posto.
Continuiamo.
Dunque dicevi…
(tratto da: G.VERGARI, Magie d’amore 2.0, Giuliano Ladolfi editore)