GABRIELLA MONGARDI
Non poteva esserci copertina migliore che un disegno dell’Escher “designer d’inferni” per le poesie di L’assedio di Famagosta di Gugliemo Aprile, LietoColle editore, Faloppio (CO) 2015. Come di fronte alle geometriche prospettive del pittore olandese ci si accorge solo lentamente che “qualcosa non quadra”, che la spirale delle scale in salita non ha sbocco o che gli uccelli in volo sono pesci, così leggendo “Il tiranno nel labirinto”, prima sezione della silloge, si ha sulle prime l’impressione che la lingua usata sia l’italiano standard, semplicemente “messo in versi” di varia lunghezza, non rimati (a mo’ d’esempio: Io non so se lasciarlo / parlare, ignorarlo, o se metterlo / con la forza a tacere: un novenario sdrucciolo tra due settenari), ma ben presto ci si accorge che anche qui “qualcosa non quadra”, che l’accostamento di quelle frasi così “ordinarie” produce un senso “straordinario”, un discorso per così dire allegorico, misterioso, da decifrare, con l’aiuto dei personaggi che compaiono in queste pagine.
I versi di Aprile sono infatti abitati da una vera e propria galleria / di tipi eccentrici, a partire dall’Irochese che balza fuori ululando / dai margini della tovaglia apparecchiata, per arrivare al tiranno a sua insaputa incatenato al letto o al re spodestato, rinchiuso nella torre più alta, o all’uomo della steppa che intimidisce i muri del carcere quando urla: ma chi vi appare più spesso è un bambino, un barbarico bambino, di cui forse le altre figure non sono che proiezioni, che perpetuano / con le loro infantili dispute e incomprensioni uno stato endemico / di guerra civile nell’io.
L’autore sembra dirci che noi siamo moltitudini, che gli antenati selvaggi continuano a vivere in noi, così come il bambino selvaggio che eravamo; che siamo assediati come i Veneziani dai Turchi a Famagosta, alla fine del ’500, e l’atmosfera espressionistica e carceraria si avverte fin dal titolo della raccolta.
Date queste premesse, ansia, panico, senso di minaccia incombente, senso di colpa, sentirsi sotto accusa senza sapere perché sono i sentimenti (kafkiani) che dominano nella seconda sezione, dal titolo emblematico di “Barbari alle frontiere”, e convergono nel tema centrale dell’insonnia, da Xanax (hai solo strappato una proroga / all’abbattersi del ciclone / che si befferà del castello di carte/ delle tue tre ore stentate / di sonno a notte ) ad Assedio (Cani neri del panico / mi incalzano mi assalgono / da ogni lato [...] in attesa che io / (guai se cedessi) esausto / prenda sonno, per farmi / a mia insaputa a pezzi).
In questa sezione pullulano gli esseri a vario titolo mostruosi: il demone egizio Ammit, il minotauro, e poi murene, iguane, locuste, rettili, tarantole e ragni; vi compaiono anche personaggi nuovi, quali il ciarlatano, il custode del gazometro, il burattinaio, il Sabotatore, l’Arrotino, lo zingaro, accanto ai già noti irochesi, al tiranno e soprattutto al bambino, che è allo stesso tempo minaccioso e minacciato, come in questa allegorica dichiarazione di poetica “per interposta persona”.
Le risate dei bulli fuori scuola
riecheggiano sotto le spoglie
dello slogan pubblicitario
che l’altoparlante fa rimbombare
nei corridoi della stazione,
travestite in quella necessità
curiosa di scarabocchiare
le ceramiche e il pianoforte
ereditati dai suoi avi
con ingiurie e bestemmie.
Si vendica accoltellando le nuvole,
per interposta persona,
fa a pezzi ogni ritratto
di barone medievale, ogni medaglione
che porti impresso un volto
barbuto e venerando, e scoppia a ridere
appena il sermone della domenica
ha inizio, per pareggiare i conti
con la cartella che i compagni
per gioco si tiravano sotto i suoi occhi
il primo giorno di settembre in classe.
Il bambino che subiva gli scherni e le risate dei compagni “bulli” è diventato a sua volta “cattivo”, violento, dissacratore: ingiuria, bestemmia, accoltella, scoppia a ridere contro gli emblemi della tradizione – le ceramiche, il pianoforte, i ritratti e i medaglioni di volti venerandi, il sermone della domenica, le nuvole: sì, anche le nuvole, simbolo di una poesia vaporosa e delicata fino all’insignificanza, una poesia da salotto, consolatoria e vacua. Non è così la poesia di Aprile, che ha il coraggio di guardare in faccia la Gorgone e non restarne pietrificata; che scoperchia la sentina dell’inconscio senza esserne disgregata, grazie alla forza di un linguaggio che si ricollega a certe esperienze novecentesche (surrealismo, espressionismo, futurismo) per incandescenza visionaria e innovazione semantica, ma originalmente trova nella regolarità delle architetture sintattiche e metriche l’argine ironico da contrapporre al Negativo, ai mostri che ci assediano dal buio. Il poeta, novello Orfeo, deve ammansire i mostri, per sé e per gli altri: a che altro serve, la Poesia?