GABRIELE PRIVITERA
L’Onorevole intratteneva ormai da due ore il Senato con un discorso su quanto fosse necessario il nuovo accordo economico per l’ex Ilva, per non deludere i mercati, per sbaragliare le concorrenza cinese, per lo spread, per la borsa…
Come non vedere la necessità di trarre il maggior vantaggio economico da quello stabilimento?
Come non capire che questo avrebbe risolto tutti i problemi finanziari dell’azienda?
Un punto di PIL, per Dio, un punto di PIL! tuonava l’Onorevole penetrando con gli occhi i banchi dell’opposizione.
Grazia fissava la sua TV, il discorso dell’ Onorevole si sentiva a tutto volume nella sua cucina.
Perché non riusciva a capire l’importanza strategica di quei provvedimenti per l’Ilva?
La domanda la accompagnò in ascensore, in garage, in macchina e per strada, fino al parcheggio.
Arrivata, Grazia tossì quattro volte, senza chiedersene più il motivo.
E poi ancora: altri quattro colpi. Sei. Otto. Dodici.
«Che brutta tosse eh, Grazia?» le disse Luca, salutando la collega prima di entrare ognuno nel proprio spogliatoio.
Mentre si spogliava, Grazia cercava di controllare, dalla finestra, se avesse chiuso la macchina.
«Inutile che ci provi, non si vede niente.» la interruppe Marcella indicando la polvere di ossido ferrico che ricopriva tutta la finestra, come se il vetro fosse arrugginito da quel minerale, di cui lei e le sue colleghe stavano per andare a produrre tonnellate su tonnellate.
Due colpi di tosse.
Tutti li fecero quando Marcella aprì la finestre e la polvere rossa invase gli spogliatoi.
«Meglio un po’ di polvere che questa insopportabile puzza di sudore..»
Un po’ di polvere scatenava ogni giorno migliaia di colpi di tosse, che si moltiplicavano per ogni metro che gli operai facevano per entrare in acciaieria.
Lì la tosse diveniva totale, indomabile, se non mettevi subito la mascherina e arrestavi – almeno per il momento – l’avanzata del veleno nel tuo corpo.
Alle 17, puntuale, Grazia attraversò il parcheggio per tornare alla macchina.
O almeno tentò di farlo.
Glielo impediva lo striscione. Un numero, grande, rosso: 4.
4 morti di tumore, al giorno, solo a Taranto.
Con la vergogna ancora più pesante su di sé, le guance rigate dalle lacrime, arrivò in clinica: era giovedì, e quel giovedì era anche il primo del mese.
Grazia estrasse la sua busta paga e la controllò bene: milleduecentotrentasei euro.
Poi estrasse il carnet e scrisse un assegno: uno, zero, zero, zero: tanto costava l’assistenza mensile nel reparto (privato) lì, a Taranto, che aveva scelto per suo figlio Lorenzo, sei anni di felicità, allegria, spensieratezza, sei anni di costante avvelenamento per la polvere rossa nei polmoni.
Tornata a casa sentì presto il richiamo del letto, forse perché di lacrime per quella sera ne aveva già piante abbastanza o perché voleva concentrarsi sulla lettura dell’importantissimo nuovo piano di risanamento ambientale promesso dall’azienda.
Però si addormentò subito.
Di bugie non voleva leggerne altre.
***
Mi chiamo Gabriele Giuseppe Privitera, sono nato 17 anni fa a Catania, città che amo e in cui ho la fortuna di studiare, al Liceo Classico “Mario Cutelli”.
Ho scritto questo testo perché, durante un corso di scrittura che frequento, sono stato sollecitato a riflettere sui conflitti: ho scelto quindi di proporre quello che secondo me è il più importante dei nostri giorni, quello di chi deve scegliere fra salute o lavoro.
Questo conflitto secondo me si inserisce in quello ben più ampio tra capitale e lavoro, tra profitto ed etica, che l’impresa responsabile dovrebbe cercare di conciliare.
Sono certo che la “buona” politica non sia morta, e cerco ogni giorno di dimostrare che proprio noi giovani riusciremo a riportala in auge, costruendo un nuovo modello etico, sociale ed economico per noi e per i nostri figli.
Scrivo perché non potrei fare altrimenti, è questa la forma di espressione che più amo e che sto cercando di coltivare.