GABRIELLA MONGARDI
Sessant’anni fa moriva in un incidente d’auto, insieme con il suo editore Michel Gallimard, Albert Camus, tre soli anni dopo aver ricevuto il premio Nobel per la Letteratura. Una morte assurda, per cui si era anche avanzata l’ipotesi di un attentato – una morte che ha impedito a Camus di veder proclamata indipendente l’Algeria, nel 1962; una morte che gli avrebbe vieppiù confermato la legge dei contrasti che aveva segnato la sua vita lacerandola drammaticamente, come ben evidenzia Yvonne Fracassetti nel suo prezioso studio su Albert Camus, figlio del Mediterraneo (edizioni Gli Spigolatori, Mondovì 2011).
La sua esistenza è stata marchiata a fuoco dalla Storia: nato nel 1913, è vissuto infatti in anni terribili, segnati da due guerre mondiali, da guerre coloniali, da totalitarismi neri e rossi. Suo padre è morto nel 1914, nella prima battaglia della Marna, ma è stato il colonialismo il fenomeno che più ha determinato il suo destino, facendolo nascere in Algeria, in un villaggio creato di sana pianta dalla colonizzazione francese, dove i suoi antenati si erano trasferiti a metà Ottocento, in seguito alla conquista francese dell’Algeria. Camus ha sempre considerato come sua patria l’Algeria: a Parigi, lontano dalla luce trionfale del Mediterraneo, si sentiva in esilio e la guerra di liberazione algerina iniziata nel 1954 è stata per lui, che si definiva un “francese d’Algeria”, un evento devastante. È stata una guerra particolarmente cruenta, con il ricorso a tortura, attentati, terrorismo, rappresaglie, napalm – a cui Camus ha cercato invano di opporsi in nome di una storicamente impossibile “conciliazione”: impossibile perché la Storia è al servizio delle ideologie e non degli uomini. Ma se la frattura coloniale rende impossibile la conciliazione sul piano politico, questa tensione ideale profonda verso la fratellanza, verso l’unità, è senz’altro una delle “forze oscure dell’animo” di cui secondo Camus si nutre l’opera d’arte, e come tale è alla base della sua attività letteraria: si potrebbe definire la molla di tutta la sua scrittura, sia di quella più direttamente ed esplicitamente collegata all’attualità, con cui Camus ha tentato di incidere sulla Storia – gli articoli, i pamphlet, i saggi – , sia di quella propriamente letteraria, cioè di invenzione – i romanzi, i racconti, le opere teatrali, oggetto di questo mio esame.
Non ho certo l’intenzione – né la forza – di affrontare tutte le sue opere, anzi non oso nemmeno prendere la penna in mano, dopo tante analisi e studi sullo scrittore Albert Camus: che cosa posso ancora aggiungere io, che arrivo buona ultima in tutti i sensi? Ma – come insegna Calvino – “un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, e continuamente se li scrolla di dosso”, e soprattutto “un classico non ha mai finito di dire quello che ha da dire”, quindi anche la mia umile voce può arricchire il coro delle interpretazioni di questo autore. Nessuno dubita oggi che Camus sia un classico: l’assegnazione del Premio Nobel, nel suo caso, vale appunto come conferma della sua statura artistica, anche se lui nel discorso di Stoccolma lo interpreta non tanto come un riconoscimento alla sua produzione letteraria (all’epoca aveva già pubblicato i romanzi Lo straniero, La peste, La caduta e i racconti L’esilio e il regno), ma come un onore reso alla sua patria, l’Algeria, che “vive una costante tragedia”. Un onore peraltro inutile sul piano politico, perché non ha impedito che la tragedia degli uomini “algerini” – arabi o europei che fossero – si consumasse fino in fondo: circa mezzo milione di civili sono morti negli otto anni della guerra algerina, e dopo la proclamazione dell’indipendenza un milione e mezzo di francesi pieds noirs (come erano spregiativamente chiamati dagli altri francesi i coloni algerini) sono fuggiti in Francia, vittime della Storia. Agli occhi di Camus è ben chiara la contrapposizione tra la Storia politico-militare, ideologica, la Storia con la “S” maiuscola, e la storia con la “s” minuscola, quella degli uomini che subiscono i traumi della prima, e non ha mai dubbi sulla parte da cui stare: quella degli uomini comuni, degli “oppressi”. Afferma Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli oppressi. E per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele ad entrambi», indicando nell’integrazione tra letteratura e storia un’altra ardua, se non impossibile, conciliazione. La letteratura non esaurisce certo il polo della “bellezza”, ma che altro è, se non “bellezza”? Ma se fosse solo “bella”, sarebbe sterile, esangue, paralizzata: la linfa che la nutre non può che essere la vita, cioè la storia, perché la storia “riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi” (A. GRAMSCI, Lettere dal Carcere, XXXVI). Il rapporto tra letteratura e storia in Camus è quello tra due poli, il bello e il giusto, o meglio la ricerca del bello e del giusto, e in definitiva del vero, come scrive G. FOFI in Fedele al bello e agli oppressi, “La Domenica del Sole-24Ore” del 29-12-19, ma i suoi romanzi non sono “romanzi storici” nel senso classico del termine perché, animati come sono da una tensione mitica all’Assoluto, diventano inevitabilmente allegorici e filosofici.
L’unico romanzo che si può considerare “storico”, perché in esso le due Storie – quella con la maiuscola e quella con la minuscola – si intrecciano e si affrontano è Il primo uomo: e su di esso appunto mi soffermerò.
Camus quando è morto aveva con sé in una valigetta il manoscritto di questo romanzo incompiuto, che sarà pubblicato postumo solo nel 1994, cioè trentaquattro anni dopo la sua morte, a cura della figlia Catherine. E questo non solo per le difficoltà materiali di trascrivere una grafia fittissima, spesso indecifrabile: è stato necessario aspettare la caduta del muro di Berlino e la scomparsa di Sartre, che aveva “emesso” una sentenza di condanna nei confronti del Camus comunista “eretico”, perché si potesse dare alle stampe – scrive la Fracassetti – «un capolavoro dal tono insieme intimistico ed epico, perché rivolto a salvare dall’oblio la memoria di altri oppressi».
L’opera si compone di due parti, intitolate rispettivamente “Ricerca del padre” e “Il figlio o il primo uomo”, ma dagli appunti lasciati da Camus (e pubblicati in appendice) si intuisce che avrebbe dovuto comprendere anche una terza parte, intitolata “La madre”, e fermarsi non alla fine dell’infanzia del protagonista, Jacques Cormery, ma narrarne anche l’adolescenza e la maturità, con l’impegno nella Resistenza, la sua presa di posizione di fronte alla questione araba, le sue riflessioni sul destino dell’Occidente: essere quindi ancor più “storico” di quanto non sia.
Il romanzo si apre con la narrazione della nascita di Jacques, al termine del viaggio di due giorni che i suoi genitori, appena sbarcati ad Algeri, avevano dovuto fare in treno e in calesse per raggiungere il villaggio di Solferino e la tenuta che era stata assegnata al padre, un colono francese: riecheggia quasi il racconto di una nascita a Betlemme, nella povertà assoluta di una capanna, da una madre che aveva a lungo viaggiato…
Dal secondo capitolo ci si sposta nello spazio e nel tempo: siamo in Francia, quarant’anni dopo, su un treno da cui un viaggiatore guarda sfilare la campagna. Il viaggiatore è Jacques Corméry, che sta andando a Saint-Brieuc, a cercare il padre che non ha mai conosciuto e che è sepolto nel cimitero di quella cittadina, insieme con altri morti della guerra del 1914. Jacques, che da anni vive in Francia, aveva promesso alla madre, rimasta in Algeria, di recarsi un giorno sulla tomba del padre e poi di tornare a raccontarle: ma il viaggio in Algeria sarà soprattutto l’occasione per cercare di scoprire come fosse veramente quel padre sconosciuto, attraverso i ricordi di chi aveva avuto a che fare con lui, innanzitutto la madre. Così, d’ora in avanti, il tempo del racconto è distorto dalle continue incursioni nel passato, o meglio nei passati: vengono narrate, più o meno di scorcio, più o meno dettagliatamente, non solo le varie età del protagonista, ma anche le epoche, più o meno lontane, precedenti la sua nascita. In questa capacità di “manipolare” il tempo senza per questo disorientare il lettore, si vede il talento artistico dello scrittore “classico”, e la superiore libertà della Letteratura rispetto alla Vita e alla Storia, che però la finzione non tradisce, ma anzi invera su un piano più alto.
Dal quinto capitolo il romanzo è di nuovo ambientato in Algeria, e nelle ultime pagine di questo capitolo, intitolato “Il padre, la sua morte, la guerra, l’attentato”, la Storia viene in primo piano: non solo la remota Prima Guerra Mondiale, ma anche la contemporanea guerra per l’indipendenza dell’Algeria, fatta di attentati terroristici. La storia politico-militare viene filtrata qui attraverso il punto di vista della madre, praticamente sordomuta, povera e analfabeta, e in tal modo ne viene smascherata e denunciata tutta l’assurdità, senza bisogno di ulteriori commenti o esplicite condanne.
«La madre non aveva la più pallida idea della storia e della geografia, sapeva soltanto che viveva su una terra vicino al mare e che la Francia era dall’altra parte di quel mare […] e c’era una regione chiamata Alsazia da cui venivano i genitori del marito, fuggiti, tanto tempo prima, davanti a nemici chiamati i tedeschi, per stabilirsi in Algeria, una regione che bisognava strappare agli stessi nemici, da sempre malvagi e crudeli, soprattutto con i francesi, e senza nessuna ragione. […] Non aveva mai sentito parlare né dell’Austria-Ungheria né della Serbia, e la Russia era, come l’Inghilterra, un nome difficile, e ignorava cosa fosse un arciduca e non sarebbe mai stata capace di formare le quattro sillabe di Sarajevo. La guerra era come una brutta nuvola, gravida di oscure minacce, ma non si poteva impedirle di invadere il cielo come non si potevano impedire l’arrivo delle cavallette o gli uragani devastatori che si abbattevano sugli altipiani algerini.»
Più avanti, nel capitolo dedicato alla scuola, sarà l’amato maestro a parlare ai bambini della guerra «ancora recentissima, che aveva fatto per quattro anni, e delle sofferenze dei soldati, del loro coraggio, della loro pazienza e della gioia dell’armistizio» e ad ammettere con gli allievi di avere «una preferenza per Cormery, come per tutti quelli di voi che hanno perso il padre in guerra. Io, che ho fatto la guerra insieme con i loro padri, sono ancora vivo. E cerco di sostituire almeno qui i miei compagni morti».
Ancora più velate e tacite sono le allusioni alla guerra d’Algeria, presenti soprattutto nel capitolo dedicato a “Mondovi: la colonizzazione e il padre”, dove si parla di “ribelli” e il colono che accompagna Jacques nella sua ricerca del padre commenta: «Cosa vuole, è la guerra. Ma questo spiega perché, nel paese dell’ospitalità, le porte ci mettano tanto ad aprirsi», aggiungendo, poche righe dopo: «La guerra c’è sempre stata. Ma ci si abitua in fretta alla pace. E si crede che sia normale. No, quello che è normale è la guerra». Può sembrare una battuta alla Hobbes, quello dell’homo homini lupus, ma se la si contestualizza esprime invece un’idea della colonizzazione e dei rapporti intrinsecamente violenti e inevitabilmente “bellicosi” tra colonizzatori e indigeni che Camus non condivideva, ma che era la più ovvia, la più “naturale”. Ma è nell’ultimo capitolo che la reticenza di Camus sulla questione si incrina e i rapporti tra arabi e francesi vengono delineati in modo insieme netto e sfumato, terribile e poetico, attraverso i ricordi del bambino di fronte al “paesaggio immenso” e al “pericolo permanente di cui nessuno parlava”: il pericolo rappresentato da “quel popolo attraente e inquietante, vicino e separato”, quegli arabi così numerosi che «sebbene stanchi e rassegnati, facevano aleggiare con la sola forza del numero una minaccia invisibile». È l’unico modo (non retorico) in cui la Letteratura può parlare della Storia, mettendola di fronte alla Bellezza di una natura generosa e selvaggia, eccessiva e feroce come quella africana, «dove ognuno era il primo uomo», senza storia, senza radici, senza fede ma con il coraggio: perché solo il coraggio permette di vivere in un paese così. E anche in tutti gli altri.
Ha scritto il critico francese J.-L. Saint Ygnan a proposito di Il primo uomo: «Attraverso l’autobiografia romanzata e trasferita a livello mitico, lo scrittore riporta la storia, la sua e quella dei suoi avi, a un rifiuto degli eccessi che la Storia può generare». Il livello mitico lo attinge solo la Letteratura dei Grandi, come Albert Camus.