Quel che raccontiamo di noi: la narrativa da inventare

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GABRIELLA VERGARI

«Di cosa moriamo, noi donne, oggi come un tempo?
Del volo in un mondo non ancora inventato, della ricerca di un modo di essere forti, virili e sensuali, accoglienti e attente. Del bisogno di una biografia nuova da scrivere, dove riconosceremo noi stesse finalmente diverse, attraverso immagini e storie ancora da inventare. Ma fino a quando i nuovi racconti, le nuove immagini di noi stesse non daranno una forma compiuta al nostro nuovo essere, saranno la rabbia e il caos a guidare disordinatamente i nostri passi, concedendoci solo un’illusione di sicurezza e forza, esponendoci senza protezione al rischio mortale di un simile errore di calcolo.»
Così, Monica Guerritore in un’intensa pagina del suo recente Quel che so di lei. Donne prigioniere di amori straordinari, dedicato, per i tipi di Longanesi, all’efferato delitto di Giulia Trigona, zia di G. Tomasi di Lampedusa, da parte del suo amante, il tenente di cavalleria Vincenzo Paternò.
Un femminicidio in piena regola, avvenuto agli inizi dello scorso secolo, il 2 marzo del 1911, che l’attrice prova a ricostruire cercando, non solo di cogliere le sfumature dell’animo della sventurata nobildonna palermitana – forse più vittima dell’adulterio del marito, il conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia, che del raptus omicida dell’uomo cui sceglie di concedersi in quel terribile pomeriggio d’incipiente primavera –, ma anche di farsi accompagnare, in questo suo peculiare viaggio di scoperta, da otto donne che hanno inciso un segno particolarmente profondo tanto nell’arte e nell’immaginario collettivo, quanto nella sua speciale esperienza di vita, costantemente intrecciata al teatro in un unicum indistricabile.
Ed ecco la Marianne di Scene da un matrimonio di I. Bergman, la Ljubov’Andreevna, de Il giardino dei ciliegi di A, Čechov, la Lupa dell’omonima novella verghiana, la Signorina Giulia di A. Strindberg, l’immancabile Emma Bovary flaubertiana, la Carmen di Bizet e, unica figura realmente esistita tra loro, Oriana Fallaci, i cui occhi hanno sempre visto la guerra e di sé a un certo punto esclama: «Sono un soldato! Un eroe sempre in guerra che si batte per la libertà, la verità, per la giustizia e per questo muore ucciso da tutti: dai padroni, dai servi, dai violenti e dagli indifferenti, dagli ipocriti. Un Uomo.[…]»
Ma è infine alla Sally di Mariti e mogli di W. Allen che la Guerritore affida il suo viatico per se stessa e (immagino) le generazioni future: « Ho messo in scena la mia versione di Mariti e mogli. E ho trovato quiete, sorriso e amore. Nel coraggio di reinventarsi finalmente lievi ho trovato l’uscita dal labirinto, la falla sgarbata, inaspettata. Lo sgambetto che interrompe l’eterno ritornare del vecchio schema odioso amore-tradimento-morte. Un circolo vizioso che ha segnato col suo profilo di sangue troppi secoli di storia al femminile e che adesso possiamo – dobbiamo – volgere nel suo contrario. Il sorriso di Sally ci indica una via nuova e meravigliosa. Adoro Sally. Sally stupenda, furente, pazza, cattiva. Sally la vendicatrice di Marianne e delle sue sorelle. Sally innamorata. […]
La Forza è un termine femminile ed è inclusivo. Non va intesa solo in senso oppositivo: non serve solo alla difesa, o all’attacco. Forza, oggi, significa anche concederci quella parte mancante che ci permette di essere finalmente intere, di essere autonome ma anche di amare con abbandono e fiducia uomini che ci amino con altrettanto abbandono e altrettanta fiducia. Come è accaduto a me con l’uomo che ho scelto di avere accanto ormai da tanti anni, Roberto.
Lungo la mia strada ho imparato che l’amore, il rapporto tra maschio e femmina, uomo e donna, va preso di petto, stravolto e inventato di continuo. L’amore, questo amore, è ciò che salva tutti – donne e uomini – dalla dialettica di morte, prevaricazione e sangue di cui la storia è costellata. L’amore, questo amore, è ciò che può volgere la tragedia in commedia, offrendo al nostro tempo il dono più grande di tutti: la leggerezza.»
Un approdo che può davvero allargare il cuore di chi abbia seguito le vicissitudini di Giulia e le altre, e con cui la Guerritore prova a tracciare, nel rapporto tra i sessi, la fatidica “terza via” – peraltro auspicata, anelata e predicata, da almeno un trentennio, dalle coscienze più sensibili e dal femminismo per così dire più illuminato e progressista.
Non meno importante mi pare tuttavia, nel suo testo, quel rimando (scelto non a caso come incipit di questo contributo) all’esigenza di “nuovi racconti”, dove le donne possano riconoscersi e conoscersi.
Una questione anch’essa non recentissima che tuttavia non perde lustro, data l’oggettiva difficoltà dell’impresa: per troppi secoli le donne sono state infatti abituate a sentirsi raccontare dagli altri e, quando hanno finalmente acquistato la loro voce, non sempre sono riuscite a farlo emancipandosi a pieno dagli stereotipi di genere o di qualunque altra natura.
A complicare ulteriormente la faccenda è poi per lungo tempo emersa la categoria estetica della cosiddetta “scrittura femminile”, che ha spesso rischiato di trasformarsi in lente d’ingrandimento distorcente e travisante di fenomeni intellettuali e creativi che, se osservati a grandezza naturale, sarebbero stati molto più facili da inquadrare e apprezzare.
Perché, stando a questo assunto, quali sarebbero le caratteristiche specifiche, quali i contenuti, le forme e i confini precisi della scrittura femminile?
E fino a che punto potrebbe essere lecito avvalersi di categorie esegetiche, critiche, estetiche, connesse alla mera differenziazione sessuale, per classificare in modo certo e univoco manifestazioni ed esperienze artistiche che, per loro stessa definizione, non possono non essere che varie e difformi tra loro, pena la propria negazione e dissoluzione?
Teorizzare, del resto, una capacità di elaborazione concettuale ed espositiva, nonché un immaginario o una poetica squisitamente femminili rischia di divenire pericolosamente fuorviante, quasi che necessità fisiologiche e biologiche costringessero le donne, tutte le donne di ogni tempo e latitudine, a ricorrere a certe strutture linguistiche e sintattiche e non ad altre, a certe tematiche e non ad altre, a certe forme artistiche e non ad altre, persino a certo lessico e a certe figure retoriche e non ad altro. Ma non basta: sulla base di tali presupposti si dovrebbe anche arrivare a sostenere:
1) che tutte le donne – e di conseguenza tutti gli uomini – pensino, parlino, scrivano, si esprimano in modo affine tra loro, cosa che è facilmente contraddetta dalla mera verifica empirica;
2) che si debba sostenere l’esistenza, non solo di una scrittura femminile, ma anche di una musica femminile, di una pittura femminile, insomma di un pensiero femminile, di un’arte femminile e, perché no? di una scienza femminile, ecc…
Con il rischio che simili etichettature, lungi dall’esaltare l’assunto dell’innegabile differenza tra uomo e donna, finiscano con il riproporre di fatto, magari un po’ imbellettati e nobilitati, vecchi criteri discriminatori e sessisti che, più che avvicinare, sembrerebbero allontanare i due sessi dalla strada di una parità rispettosa delle reciproche peculiarità.
Quanto meglio invece asserire che ogni scrittore, uomo o donna che sia, dà nella propria opera voce ad un proprio “specifico” unico e irripetibile, se e quando autentico, frutto del proprio vissuto oltre che della propria cifra poetica e stilistica, ma anche esito della propria interiorità, sensibilità, esperienza biografica, concezione esistenziale e visione culturale in senso lato, capace di indurlo a privilegiare certe forme artistiche o visioni del mondo, certi generi letterari e moduli espressivi rispetto ad altri.
Ben diversa potrebbe invece suonare la definizione di “letteratura delle donne”, se intesa come complesso delle produzioni, correnti, inclinazioni, tendenze e, in una parola, della globale attività letteraria svolta dalle autrici che, grazie ad un cammino, non di rado, lungo e penoso sono riuscite a conquistare il proprio posto di rilievo nel moderno panorama letterario.
È in questo spirito e in quest’ottica che Annalena Benini ha cercato, fra i testi più significativi della narrativa mondiale, venti racconti in cui scrittrici come Virginia Woolf, Natalia Ginzburg, Alice Munroe, Edna O’ Brien, Elsa Morante, «parlano in libertà all’interno del semplice e inesauribile groviglio dell’essere vive, fuori dal solito affresco di eroine affrante, abbandonate, sottomesse oppure impossibili e ribelli», aprendoci un universo insolito e complesso, come solo la vera letteratura è in grado di fare.
O, come si legge nella quarta di copertina del volume I racconti delle donne (Einaudi editore), «componendo un canone vivissimo e contemporaneo, sempre in movimento, in cui le donne riconosceranno molto di sé e gli uomini potranno rispecchiarsi».
Una lettura imperdibile per chi desideri intanto accostarsi alla grande narrativa, a prescindere dal proprio genere sessuale d’appartenenza. Ma pure una tappa non da poco verso quel nuovo modo di raccontare o raccontarsi che si spera possa dare nuova forma compiuta sì alle donne ma, perché no?, anche agli uomini del nuovo millennio.

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