Che il pensiero debole regali una luce abbagliante in cui tutte le cose brillano ugualmente o una notte indistinta rotta da saltuari flash, poco importa. Medesimo è l’effetto di rimodellamento del paesaggio culturale in cui viviamo, con conseguenze ambivalenti: da un lato finalmente mettiamo in discussione contenuti e gerarchie valoriali pedissequamente date a lungo per certe; dall’altro perdiamo, con ogni priorità, direzione, speranza e metodologie di vita. Finiamo col girare in tondo, come una mosca impazzita.
Mi sono domandato a lungo, insegnando filosofia da molti anni, se in questo continuo proporre, con la storia del pensiero, punti di vista antitetici dei quali mi sforzo di sottolineare il reciproco valore, io non abbia finito per assumere una funzione pilatesca, in cui lascio ad altri responsabilità e oneri di scelta, limitandomi ad una variegata presentazione di gadget culturali… Mi sono poi chiesto se questo nella mia vita non mi abbia portato ad una complicità, silenziosa ma non meno colpevole, con ogni tipo di posizione culturale, sociale, ideologica, e con ogni tipo di effetto, dai collassi ambientali che attraversano il pianeta all’indiscriminato uso della violenza – non solo verbale – nella comunicazione e nella politica, per non parlare delle diseguaglianze Nord-Sud del mondo, di cui i meninos de rua brasiliani che vedo nei servizi fotografici mi attestano l’esistenza.
Confesso che nei miei primi anni di insegnamento ero leggermente infastidito ogni qual volta dovevo introdurre, nel mio corso iniziale di filosofia, la figura e il pensiero di Socrate. Sì, perché questo suo cercare come fine e fare della ricerca lo scopo della vita, mi appariva, senz’altro un po’ ingenuamente, come un viaggio senza meta, un impegno senza contenuto, un enigma senza soluzione. Altri pensatori, da Platone a Tommaso d’Aquino a Hegel, mi sembravano invece tracciare poderose coordinate di riferimento, mete ambiziose, additare traguardi e vette su cui piantare, finalmente, una bandiera, e anche questo era un po’ ingenuo.
Ma passando gli anni passano i paradigmi culturali. Personalmente ho utilizzato metodologie di ricerca e mi sono addentrato in contesti diversi, le lettere (per esempio, scrivo poesie), la musica (me ne sono occupato nella duplice veste di critico e interprete del popular), l’arte figurativa (ho composto collages, realizzato serie fotografiche e curato gli aspetti grafici delle mie produzioni…), le scienze umane e la teologia (sia nella didattica che nella ricerca). Intanto intorno a me si è passati dalla cultura del post ’68 agli anni ’80 del cosiddetto edonismo reaganiano, e poi dalla caduta del muro di Berlino a quegli anni ’90 caratterizzati dai nascenti fenomeni migratori e di globalizzazione, fino al nuovo millennio aperto così tragicamente dalle Torri Gemelle e dalla crescente solitudine dei rapporti umani che, come predisse Bauman, diventano “liquidi”…
Insomma, avvistare nel panorama culturale che mi circonda, ma anche in me stesso, tanti e tali mutamenti, mi ha portato a fare la cosa che in quelle circostanze mi pareva più etica, ad assumere l’atteggiamento teoretico e morale grazie al quale potevo valorizzare il punto di vista, le motivazioni, la condizione culturale ed umana che mi stava davanti. Così ho imparato a coltivare il valore della tolleranza, a scorgere possibilità di mediazione laddove altri avrebbero mosso guerre o coltivato inimicizie. E così ho capito che Socrate, ma anche tutta l’immensa schiera degli scettici, degli agnostici, dei relativisti hanno le loro buone ragioni, hanno un contributo rilevante da dare, quanto un Tommaso o Hegel.
Hanno cioè il compito di additarci le profondità della vita e della realtà in genere, la sua insondabilità, il suo mistero che nessuna posizione culturale potrà mai esaurire. E, d’altro canto, la missione di stimolarci ad andare oltre… alla ricerca di nuovi approcci per investigare ciò che comunque non si lascia mai afferrare. Così Proust che guarda Albertine nel sonno è tormentato dalla possibilità del suo tradimento nel sogno. L’amore di un altro non si possiede mai, è libero. La realtà ci trascende e ci investe con la sua inesauribile novità. Ai ragazzi delle scuole, quando spiego questo, dico sempre che possiamo scattare migliaia di foto della persona amata, ma questa le trascende tutte…
Detto questo, non ho però risposto al quesito, al problema, alla criticità iniziale: se c’è una certa equivalenza, un tendenziale relativismo delle posizioni culturali, e quindi valoriali, diremo, come fece per un certo periodo Sartre, che “È la stessa cosa condurre i popoli o ubriacarsi in solitudine”?
Perché, nel gusto post-moderno del “pensiero debole”, questo sembra evincersi. E lo si vede in questo possibilismo scenico, esistenziale e comunicativo, ove l’insulto spesso riscuote più consenso ed empatia del dialogo, ove il volume è più importante del messaggio, ove l’invenzione è più convincente della realtà, e la convenzione prevale sulla bellezza…
Per rispondere io credo si debba partire da un dato minimo, mostrare cioè che almeno tra due estremi non c’è equivalenza, e dimostrare in tal modo che la varietà delle posizioni non implica necessariamente omogeneità ma gerarchia o, con parola forse oggi preferibile, intensità diversa (ma si potrebbe dire energia, valore, intelligibilità, universalità, esaustività…).
Gli uomini, e – dicono – gli italiani in particolare, durante la guerra, le carestie, le calamità naturali, diventano più buoni, solidali, grati (è questa la ragione per cui molti rimpiangono da noi il dopoguerra e la ricostruzione, gli anni ’50 e ’60 con l’onda lunga del boom economico che faceva assaporare il primo – ma solo il primo – benessere al paese…); con la ricchezza molti – anche le masse – diventano più egoisti, cinici, spietati, o semplicemente tristi. È che il bisogno, il caldo e il freddo, la fame e la sete, il pericolo, ci mettono immediatamente di fronte a valori, elementari quanto si voglia, ma autentici, come la vita e la salute, l’amicizia, la solidarietà, il lavoro… Poi, quando ogni pericolo, ogni bisogno, cessa, allora ridiventiamo indifferenti e tutto sembra equivalersi.
Ma sempre nella mia didattica, quando voglio risvegliare il senso elementare del bene e del male o, più modestamente, del meglio e del peggio, dico ai miei alunni: se quando uscite da queste aule, invece di trovare persone che vi salutano cordialmente o addirittura si prendono cura di voi, trovate chi vi insulta, minaccia e percuote, o invece di chi pulisce le strade e le piazze trovate chi sporca, imbratta, distrugge… beh… non pensereste che gli atteggiamenti consueti di benevolenza, dialogo e cura siano preferibili a quelli che portano distruzione e morte? Qui è l’evidenza (direi quasi cartesiana) della vita a rispondere di sì.
E a riconciliarci con il vero. Dogma? No, perché la vita genera prospettive, relazioni, aperture ermeneutiche tutte splendenti e degne di venerazione e rispetto, ma anche intensità e universalità che vanno salvaguardate. Non posso, ad esempio, per salvare il mio cane – che amo veramente di tutto cuore come di più non si può amare un cane – mettere a repentaglio tutta l’umanità… E dunque, piano piano, temendo e tremando, da ciò che appare più palese ed evidente, si dovrebbe, si potrebbe arrivare a una trama di riverberi, rimandi e relazioni che finalmente convergono in armonia, ordine e bellezza… Vincere l’entropia, dunque!
Ma è il concetto – quello “scoperto” da Socrate – a guidarci in ciò? Dante, ai vertici della contemplazione mistica in Paradiso, sembra escluderlo, a favore di un excessus mentis, che è in fondo la resa dell’intelletto al cuore e, insieme, il suo potenziamento estremo, la sua trasvalutazione.
Ecco il punto, il punto su cui spesso ci si divide e combatte nel modo più “umanamente” irragionevole: il concetto. Il concetto di ciò che è bello e di ciò che è brutto, di ciò che è buono o cattivo, vero o falso, giusto o ingiusto, democratico o no.
Basterebbe poco – fermarsi un attimo a riflettere e a sentire – per accorgerci che usiamo i concetti con accezioni e significati diversi, che democrazia, bellezza o giustizia significano per ciascuno il riferimento a un mythos fondativo diverso, fatto di volti, esperienze, familiarità e abitudini che inevitabilmente risultano più profondi e calamitanti di qualsiasi concezione astratta.
Ecco perché “chi ama è nella verità” (1Gv 2,10), perché solo accettando il mythos fondativo dell’altro posso – finalmente – comprendere o almeno intercettare la prospettiva da cui origina il suo concetto, amare o almeno empatizzare con la sua interpretazione, con l’ermeneutica della sua apertura all’essere, con la sua “essenza”…
Ma non posso “amare il prossimo” se prima non amo me stesso, così almeno attesta il “come te stesso” dell’imperativo cristiano con la sua sapienza ontologica. Non posso non appropriarmi, non approfondire, non interiorizzare – agostinianamente – la mia apertura all’essere, la mia identità.
E il post-moderno con il suo pensiero debole ci ha aiutati a cogliere quanto questa identità sia intelaiata e strutturata da un’infinita serie di rimandi, di dettagli, di focalizzazioni in cui alto e basso, sacro e profano, accessorio, dettaglio e sostanza si intersecano, scambiano e danzano, in un fondo che è difficile distinguere o, quanto meno – illuminare – nella sua natura, tanto più difficile quanto più essa si avvita su se stessa e intorbida. I meandri della psicanalisi, i narcisismi letterari, i viaggi acidi o energizzanti dell’io, gli egoismi sentimentali e sessuali, i deliri di onnipotenza della scienza e della tecnica, l’assoluta priorità della finalità economica nell’ordine della conoscenza: sono tutti aspetti, modalità, articolazioni di questo desiderio dell’io di conoscersi e potenziarsi in una sorta di implosione e introiezione dell’alterità e della relazione.
Torniamo ad aprire le finestre. A guardare la luce che entra dalle persiane. A salutare i vicini di casa. A soccorrere gli indigenti. Perché la vita è relazione, rapporto, comunione, e questo attesta anche solo la mera sopravvivenza di qualsiasi forma di esistenza. Ma allora, il senso e l’identità saranno determinati dalle relazioni che ho? dai partner sentimentali o dai partiti cui aderisco? e se decido di cambiare? Ne sa qualcosa l’esteta di Kierkegaard… No, forse non è così, non è solo così: non è tutto qui. Forse solo paventando e cercando la relazione delle relazioni, il fondo di ogni relazione, la scaturigine possibile della comunione e del rapporto, trovo l’incardinamento a quella possibilità ultima che tutti ci attraversa e – sorprendentemente – travalica e precede. I nostri gusti saranno allora meno significativi, meno rilevante il nostro egoismo, meno banale vivere, perché riconosceremo che la realtà è più grande di noi. Non è quello che volevamo?
(Da C. Sottocornola, “The Gift””, CLD, 2010; foto dell’autore)