GIACOMO LEOPARDI
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se né stima
Ricco d’or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
(da La ginestra o il fiore del deserto, terza strofe. Torre del Greco, 1836)
Mi permetto di commentare questi versi sublimi, “traducendoli” in italiano moderno, perché sul loro contenuto tutti dovrebbero meditare.
Leopardi sviluppa il suo ragionamento in versi partendo da un caso concreto, particolare, che costituisce il primo termine di paragone di una similitudine sottintesa: «Un uomo di animo nobile e grande, che sia in ristrettezze economiche e in precarie condizione di salute, non si vanta di ciò che non ha, non si finge diverso da come è, ma guarda in faccia la realtà, il “vero”, e si mostra per quello che è, “senza vergogna”, perché non ha nessun motivo di vergognarsi di una condizione che non dipende da lui. Per questo motivo – continua Leopardi generalizzando ed estendendo il discorso al genere umano nel suo insieme – è da stolti che gli uomini, esseri nati per morire e per soffrire tutta la vita, si credano destinati a chissà quale felicità e promettano mari e monti a chi può essere spazzato via in un attimo da uno tsunami, un terremoto, un’epidemia… Al contrario, dimostra di avere animo nobile e grande chi guarda in faccia la cruda realtà del comune destino e per così dire lo smaschera, dando la colpa del proprio male non già all’uomo, ma alla natura, “matrigna” e non “madre”. Non contro gli altri uomini deve combattere l’uomo, aggiungendo alle proprie “miserie” anche gli “odi e le ire fraterne”: aggredire i vicini, fare guerra ad altri popoli è come attaccare i propri soldati quando si è circondati da nemici esterni. È la natura la vera nemica dell’uomo, è contro di lei che si è costituita quell’alleanza tra gli uomini da cui è nata la società: tutti gli uomini sono “confederati” fra di loro in questa “guerra comune” e sono tenuti ad aiutarsi reciprocamente. Le virtù civili, la solidarietà, l’onestà, la giustizia, la pietà trovano qui il loro vero fondamento, senza che ci sia bisogno di inventare delle “superbe fole” (favole) per giustificarle».
A scanso di equivoci, occorre ricordare il radicale antiantropocentrismo di Leopardi, la sua profonda sensibilità alla bellezza della natura e alla sua incommensurabile superiorità nei confronti dell’uomo. Ma il suo appello a sollevare gli occhi al “vero”, l’utopia solidaristica che qui delinea non devono cadere nel vuoto, non devono passare sotto silenzio. (Gabriella Mongardi)
(N.B.: nel testo leopardiano sono state mantenute le convenzioni ortografiche originali)