Le mie prof. d’inglese (seconda parte)

La prof. Marchiaro e il prof Cocito (foto concessa da  Pier Luigi Cocito, figlio del professore)

La prof. Marchiaro e il prof Cocito (foto concessa da Pier Luigi Cocito, figlio del professore)

CARLO CARLUCCI

(La prima parte si trova qui)

La splendida scrittrice (unicamente di biografie…) Iris Origo, inglese di nascita (e in inglese sono i suoi libri, solo successivamente tradotti…), cresciuta a Villa Medici (residenza estiva di Lorenzo il Magnifico a Fiesole) dove la madre, nobildonna inglese, teneva salotto con ospiti illustri a cominciare da Bernard Berenson fu, verso i quattordici anni, mandata a ricevere una vera istruzione classica da un professore fiorentino. Si era accorta la madre che, a conti fatti, tutte quelle impettite istitutrici non avevano lasciato un segno che fosse apprezzabile nella mente della figlia Iris.
Questo nuovo insegnante era il prof. Solone Monti ricordato nella sua autobiografia (a mo’ di conclusione del lavoro di tutta una vita, quello di biografa appunto) Luci ed ombre attraverso le pagine più intense e vibranti di tutto il libro. Dopo gli anni delle istitutrici e istitutori a vario titolo, ingessati nel loro ruolo e incapaci quindi di scuotere, di far vibrare alcunché nella fanciulla, quando lei si venne a trovare improvvisamente al cospetto di questo nuovo insegnante nel suo modesto appartamento fiorentino, con libri disordinatamente dovunque, anche impilati sul pavimento, in stanze dove stagnava perenne il suo fumo di sigaro, lei che proveniva dalla villa di Lorenzo de Medici niente di meno… Beh, lì al cospetto di quel povero professore avvenne un vero e proprio miracolo, una palingenesi… «signorina la sua mamma mi ha pregato che dovrei in tutti modi, trasmetterle il gusto, l’educazione ai classici… a cominciare da Omero e Virgilio…». E a questo punto Solone Monti, senza frapporre indugi, delinea il suo metodo: lettura del primo canto dell’Iliade in greco, in inglese e in italiano e poi verso per verso il commento. Stesso copione per l’Eneide di Virgilio. «Ecco a casa poi la signorina Iris ripasserà il tutto e comincerà a studiare da sola le due grammatiche, latina e greca, non c’è certo tempo per perdersi in queste brighe…». E così unicamente attraverso l’interpretazione testuale compiuta da un’affascinante intelligenza e da un ancor più profondo spirito di umanista (mai quel nome, Solone, fu più appropriato) e da una ricettività e una sensibilità assolutamente fuori del comune, quella della geniale alunna scattò la sinergia. Un momento, ma in otto anni di latino (tre alle medie e cinque al liceo) non ricordo un solo giorno senza lo spettro, lo spauracchio condizionante della grammatica, della morfologia, della sintassi e idem più o meno per il greco (cinque anni). Mentre lui, il prof. Solone Monti unicamente concentrato sulla bellezza testuale… ma non appare evidente come la scuola, tel quel è stata congegnata, altro non si riduca che a una sorta di grande, impossibile e in definitiva assai poco funzionale meccanismo quando non è vero e proprio incubo?
Mallarmè, il geniale poeta della modernità, avendo avuto una volta tra i suoi ospiti nei suoi famosi mardìs literaires il Ministro della Pubblica Istruzione ebbe successivamente a scrivergli poche, accorate righe pregandolo che almeno la Poesia non venisse insegnata a scuola?
E perché mai Iris Origo una delle più attente, profonde interpreti dello, non saprei come definirlo… spirito italico?… senso (perduto) della bellezza senza tempo?…, come mai dicevo, nella sua conclusiva fatica, l’autobiografico Luci ed ombre, senza riserva alcuna riconosceva il suo immenso debito (di gratitudine oltretutto) a quell’oscuro prof. Solone Monti?
Quando ebbe a incontrarlo, per caso (era in vacanza) e per l’ultima volta, nei pressi di Sarzana, in un uliveto sovrastante il mare, guidata, attratta in mezzo alle piante, dalla sua voce inconfondibile fino a scorgerlo col cappello di panama, seduto su una sedia conversare amabilmente con un contadino, mentre alcune vacche stavano placidamente pascolando attorno… «ecco… per la prima volta divenni consapevole della poesia come qualcosa non disgiunta dalla vita, bensì un tutt’uno con essa, rendendomi conto di quanto profondamente la tradizione classica fosse ancora radicata nel mondo mediterraneo, trasmessa non solo dalla cadenza delle parole, ma dalla natura stessa e nei suoi oggetti quotidiani più familiari. Mi guardai intorno e non trovai nulla che Virgilio non avrebbe potuto vedere…».
Per la mia preparazione diciamo di rifinitura nei mesi a ridosso dell’esame di Stato ebbi a sottopormi ad una cura davvero impossibile, antitetica (apparentemente) alle mie naturali disposizioni, al mio cosiddetto temperamento: andai a lezione da una professoressa-cerbero (oltretutto piuttosto cara per le mie povere finanze), la temibile e temuta prof. Margherita Maino. Mi costringeva a ripetere a memoria una serie di attacchi assolutamente alieni a me e ben ricordo che ogni qualvolta dovevo delineare la figura del bardo di Stratford on Avon dovevo assolutamente, pedissequamente incominciare con Shakespeare was no isolated genious….Ovviamente capivo bene le intenzioni di tale attacco e cioè che Shakespeare si era formato su un humus fertile, ricco e stimolante, ma tale e tanta era la mia ammirazione per il più grande in assoluto tra i grandi di tutte le epoche che incominciare a parlare di lui con un’affermazione che in qualche modo suonava riduttiva della sua incommensurabile grandezza… Mi sentivo letteralmente urlare dentro… nooo he was an isolated genious, the greatest genious of all literatures… Niente da fare, la professoressa Maino pretendeva che snocciolassi il rosario delle sue formule di rito. Una cura per certi versi atroce, scelta da me oltretutto, rigidamente impostami, implacabilmente impartita, da domandarsi proprio il perché mai di questa mia scelta. Successivamente, a esame brillantemente sostenuto, me la ritrovai accanto non più cerbero e censore bensì ammirata e finalmente entusiasta di me e quindi negli anni successivi amica sincera e devota. Chiare erano divenute, col senno di poi, le ragioni di quella mia strategica scelta a ridosso dell’esame di Stato: la mia vulcanica, anche caotica, entusiasta, ma in definitiva troppo personale e forse individualista preparazione doveva essere filtrata, accomodata, irreggimentata, ricondotta anche dentro un alveo diciamo di normalità, routinario. E la prof. Margherita Maino, finto cerbero, si era prestata alla bisogna. E quindi anche a lei questo mio postumo, commosso, sentitissimo grazie.
Ultima in ordine di tempo giungeva la prof. Maria Lucia Marchiaro, la professoressa di Fenoglio, protagonista sottaciuta di un mio lungo saggio, L’inglese di Beppe Fenoglio, pubblicato su L’Approdo Letterario, rivista, era il 1971, allora prestigiosa. Ho detto protagonista sottaciuta in senso lato e tuttavia inglobante nel senso che lei e solo lei fu l’artefice di quel doppio vertere (italiano/inglese) della scrittura fenogliana. E fu proprio quella mia esperienza fondamentale, decisiva con la prof. de Cheluzzi, una volta terminata la lettura de Il Partigiano Johnny, a darmi la chiave interpretativa del rapporto tra Fenoglio e la Marchiaro, o meglio delle ragioni intrinseche, profonde del fondamentale rapporto dello scrittore con la lingua inglese.
Poco tempo dopo quella pubblicazione, presi il coraggio a due mani (sono un timido anche se non sembra) e le telefonai ad Alba. Dell’amicizia profonda che ne scaturì, di quanto lei la Marchiaro ebbe a scrivermi in varie lettere da me donate poi alla Fondazione Ferrero, del nostro unico incontro ad Alba credo di avere detto quanto basta. Lei fu a tutti gli effetti, anche se in modo indiretto tuttavia conclusivo, la mia quarta professoressa d’inglese, con questo intendendo una specie di completamento non tanto di cognizioni aggiuntive, quanto di una vera e propria maniera d’essere e di vivere il rapporto con l’alterità (della lingua inglese e della sua cultura), un viverlo in forma piena, vitalmente feconda, ricca, anno dopo anno, inesauribilmente.
E proprio questo fondamentale rapporto di alterità con questa lingua specchio e di fondo, il radicarsi definitivo di una relazione in certo modo dicotomica, ma arricchente per travasi continui, anche per splendidi calchi sui quali si doveva abusare o autocompiacersi, questo rapporto di alterità mi ha sempre permesso una rivisitazione in continuum della lingua materna, dandole una inesauribile, feconda, incessante rivitalizzazione (il che continua tuttora, da vecchio).
Fenoglio d’impeto e d’intuito percepì questa sorta di pozzo di San Patrizio dell’inglese in certo modo rivitalizzante e inesauribile fonte in parallelo (e vi era tutt’altro che trascurabile) e ne fu avvinto.
I suoi non erano mai calchi linguistici di prova, esperimenti, dilatazioni espressive parmi la langue. Si dimentica che la sua scomparsa fu assai prematura, a soli 42 anni lasciando un corpus espressivo, delle variazioni di scrittura sulle quale, a distanza di più di mezzo secolo si continua ad indagare. Nell’arco dei vent’anni si passa gli ‹afrodisiaci dialettali›, come ebbe a definirli Vittorini, de La Malora, de I 23 giorni della città di Alba, alle sequenze cinematografiche de La paga del sabato, allo splendido Primavera di bellezza, all’inarrivabile (e inesauribile) Il Partigiano Johnny, ai cupi, grevi, potenti affreschi de I racconti del parentado. Il tutto improntato da un’assolutamente ingenua, cioè non calcolata, preordinata genialità espressiva.
Sulla Marchiaro ha scritto e sta scrivendo con molto acume e competenza Giulia Carpignano, che ne ha nel frattempo ricostruito l’incredibile percorso dei suoi studi, ma non solo, sta mettendo bene in luce il suo decisivo, iniziale apporto nell’aiutare Fenoglio a muovere i primi passi verso i traguardi finali come scrittore.
Era da poco iniziata la corrispondenza tra me quando nell’estate del 1972 il mio piccolo e meraviglioso Vieri iniziò a stare male e iniziammo la sarabanda dei medici, dei ricoveri etc. finché verso il Natale dello stesso anno arrivò la terribile diagnosi: leucemia. E allora lo portammo a Parigi, altro colossale imbroglio ma durante quei ricoveri nei quali, io e il bimbo, ci sentivamo negletti e sperduti arrivavano di tanto in tanto dei pacchetti da Alba. Ricevevo il debito avviso, con quello passavo dall’ufficio postale (di Villejuif) e all’una (potevo stare con Vieri dall’una alle otto) arrivavo col pacchetto della signorina Marchiaro, con i sempre sorprendenti dolci di Alba.
In quel periodo inenarrabile, forse a dicembre, un suo bigliettino con il quale accompagnava un assegno (forse la sua tredicesima) dicendo che quei soldi forse mi avrebbero fatto comodo e che dovevo spenderli come più mi aggradava. Così mi comprai una vecchia Guzzi Falcone, modello militare, che, quando di lì a poco mi separai dalla moglie (Vieri non c’era più) divenne un po’ tutto per me: mezzo di locomozione, riparo psicologico, sorta di casa mobile. Con questa moto, tornando da Parigi, feci tappa ad Alba e così potemmo conoscerci di persona e la cosa per entrambi fu di profonda, incancellabile e inalienabile emozione.
In quanto primo ‹biografo› della professoressa, amico e testimone, travalico i limiti imposti dall’etichetta, accennando a fatti per così dire privati ma per niente ininfluenti o peregrini.
Vi è un dato oggettivo che per così dire accomuna queste mie professoresse e cioè l’assoluta dedizione all’insegnamento concepito come qualcosa di intensamente sacer, il che comportava una dedizione talmente estrema e coinvolgente che non lasciava spazio per altro, fosse un partner, una famiglia.
Mi ha raccontato Francesca Larcher de Cheluzzi, nipote della prima mia professoressa e che l’ha assistita negli ultimi anni, che un giorno riordinando le carte della zia trovò una specie di pergamena arrotolata ancora con il suo nastro intatto, la zia non ricordava di che cosa si trattasse e allora lei chiese il permesso di aprire il rotolo cosa che la zia accordò… «ma zia qui ti avevano conferito il titolo di Cavaliere della Repubblica e nemmeno l’avevi aperto…». Al che, con assoluta noncuranza la prof. de Cheluzzi liquidò con un gesto sia l’onorificenza sia ogni possibile suo commento in proposito, come cose superflue. Ovvero queste, per la cara prof. erano delle semplice cose mondane quindi transitorie, tali da non attribuirgli nessun conto. Mentre l’incontro col suo alunno Charlie, un incontro causale, per la strada ed ero uno dei tantissimi alunni (ma tutti dovevamo essere ben scolpiti nella sua memoria) le fece ricordare fatti che lo stesso Charlie, ovvero me che sto rievocando, aveva quasi dimenticato e cioè quelle esili poesie in inglese che di tanto in tanto le facevo scivolare quasi di soppiatto in qualche libro o registro. Lei le aveva tenute insieme, conservate, quasi tesaurizzate per poi restituirmele per posta vent’anni dopo e riportandomi quindi un lembo non certo banale della mia vita. Dunque disinteresse estremo per il mondo e le sue pompe (vedi il titolo di Cavaliere che le era stato conferito) ma quanta attenzione, quanta cura, quanto amore, rispetto per le personae dei suoi alunni. Davvero quale fortuna ho avuto nel respirare quanto promanava da questi esseri che, in varia misura, senza che io me ne rendessi ben conto allora, hanno plasmato e indirizzato tutta la mia vita.
Dunque queste non remote e ancor meno non evanescenti figure che hanno saputo compiere, in perfetta modestia, con esemplare coraggio e dedizione, il compito che era stato loro assegnato, trovino qui una sorta di non peregrina a futura memoria.