LORENZO BARBERIS
Francesco Franco (Mondovì, 4 ottobre 1924) è indubbiamente uno dei grandi maestri dell’arte monregalese del secondo Novecento (e in questi primi anni 2000).
“Pensieri e altre realtà”, la mostra voluta in suo omaggio dalla città di Mondovì in questo scorcio tra 2013 e 2014, nelle due sedi principali di Santo Stefano a Mondovì Breo e nell’Antico Palazzo di Città a Mondovì Piazza, va a indagare soprattutto un aspetto della produzione di Franco relativamente meno nota al grande pubblico rispetto alla sua incisione: la produzione pittorica.
A Piazza sono esposte sia le acqueforti- per cui l’autore è universalmente noto – sia opere pittoriche, in tre sale tematiche: Segni, Nuvole, Ouessant. ”Ouessant”, la prima sala, presenta le opere – pittoriche – realizzate nell’omonimo piccolo villaggio bretone, dove l’autore era solito trascorrere le vacanze estive.
“Nuvole”, la seconda sala, mostra il suo studio sulle nuvole descritte da Goethe, nel 1820, nel suo “All’alta memoria di Howard”. Luke Howard era l’inglese che, nel 1802, aveva proposto la classificazione delle nuvole ancora in voga oggi, nella distinzione tra cirri, cumuli e strati. In parte, la nascente mentalità romantica accoglie anche con sospetto la volontà di classificare l’inclassificabile per definizione, quasi una perdita di poeticità del mondo nel momento in cui le nuvole cessassero di essere sogni per divenire meri fenomeni atmosferici.
Goethe invece, affascinato dalla transizione tra pensiero magico e scientifico in corso in quegli anni della prima rivoluzione industriale (non dimentichiamo che si tratta dell’autore che aveva compiuto l’Urfaust e stava lavorando all’ampliamento dell’opera) elogia Howard esaltando, nella sua classificazione, l’aspetto eminentemente alchemico. L’Alchimia è infatti arte di sublimazione e coagulazione, passaggio di stati dal basso (materia solida) all’alto (materia aerea), passando per quella acquosa.
Howard studia la transizione tra tre stati diversamente rarefatti della materia aerea, e Goethe lo elogia insistendo minuziosamente sul concetto di transizione tra “alto” e “basso”, che diventano simbolo – nella fase aerea – di una sublimazione – impossibile, lo sa anche Goethe – dell’essenza dell’Anima.
Franco riprende tale opera – apparentemente minore – di Goethe nel 1997, e la fa diventare metafora della cangiante tramutazione del suo segno sui due poli apparenti (ma in realtà, per l’autore, indistinguibili) della “figura” e dell’”astrazione”. Le nuvole si prestano perfettamente a porsi quale stadio intermedio tra figura e forma astratta; concetto che Franco esalta non raffigurando, come illustrazione scientifica, dei perfetti esempi di cumuli, cirri e strati, o di altre categorizzazioni, ma nuvole cangianti, strati intermedi, in tramutazione. Proprio come sulla tramutazione insiste Goethe: ma in Franco, probabilmente, più che all’ars alchemica tutto ciò diviene riferimento all’impossibilità di incasellare davvero il segno, come la nuvola.
“Segni”, la terza parte della mostra, espone infine una piccola selezione delle ricerche astratte sul segno dell’autore, dove notiamo come il segno tende a rarefarsi, partendo talvolta da una suggestione concreta, una visione come ad esempio la Sagra di San Michele, per poi farsi frammentario e indecidibile, volutamente sfuggente, mostrando così appieno la propria autonoma potenza.
Sotto il profilo del tema di Franco pittore che la mostra si è data, il nucleo più rilevante di questa prima fase è il primo, Ouessant: qui le spettacolari vedute marine bretoni divengono il campo da gioco scelto per l’indagine pittorica dell’ambivalenza segnica figura/astratto. Viene in mente, per certi versi, il pittore inglese William Turner (1775 – 1851), preimpressionista e addirittura settecentesco nelle sue origini, che tuttavia giunge ad esiti che paiono quasi di astrazione informale, sebbene sempre a partire, invece, dalla visione della natura colta nel suo manifestarsi kantianamente sublime.
E così è per Franco, che già nel ’78, intervistato da Ezio Briatore nel suo volume sulla scena pittorica monregalese dell’epoca, interrogato sul confine tra figurativo e astratto, rispondeva in questo modo:
“Questo aver voluto codificare con una terminologia impropria un unico linguaggio, che è quello del fare in sé, è stata una delle tante cause che contribuiscono a distogliere da una visione più semplice… Non esiste, in generale, alcun divario in un linguaggio che è sempre figurativo. Non può non esserlo. Un semplice segno su una qualsiasi superficie è figurazione, ideogramma, è leggibile sempre. Se si pretende di vederlo immediatamente riferito a una realtù tridimensionale, allora il discorso diventa capzioso, ed è da rifiutarsi.”
Franco era divenuto, l’anno prima (1977), titolare della cattedra d’incisione ereditata da Mario Calandri, di cui era stato assistente dal 1957, a pochi anni dall’esordio espositivo, nel 1954; una carica che avrebbe mantenuto fino al 1989. In quello stesso 1977, tra l’altro, egli avviava appunto la sua produzione di opere pittoriche, quelle presentate oggi a Santo Stefano a Mondovì Breo.
Le prime di queste opere, sullo scorcio tra ’70 e ’80, sono prive di titolo e quindi più avvicinabili a una concezione “astratta” (per usare, paradossalmente, la terminologia che l’autore ha rifiutato), mentre
negli anni ’90 appare appunto il riferimento a luoghi concreti, in primis appunto Ouessant e l’Atlantico.
Tuttavia, appare evidente dalla loro continuità l’assenza di significato nell’istituire una simile distinzione astratto/figura. Come detto sopra, per l’autore l’opposizione perde ogni senso nella centralità del segno che è per sua natura stessa figura, irriducibile al reale tridimensionale nemmeno se, per avventura, si facesse di un iperrealismo “fotografico” (e sul realismo del fatto fotografico, ovviamente, vi sarebbe da aprire un enorme capitolo a parte, a sua volta).
Nella mostra di Santo Stefano, secondo polo di questa ampia mostra monregalese, si è voluto sottolineare l’elemento importante delle opere come “Pensieri”, a evidenziarne appunto l’importanza concettuale, di innovazione nel modo, appunto, di “pensare” il reale e quindi l’arte, superando appunto la distinzione preconcetta tra figura e astratto.
Una riflessione presente anche in questa mostra, come sottolinea una interessante didascalia: “Stiamo osservando da lontano, oppure è un particolare che si presenta quasi come fosse sotto la lente d’ingrandimento?” Ancora una volta, quindi, a distanza di trentacinque anni (1977-2013), l’autore gioca sui confini impossibili tra figura e astrazione, uniti dall’inevitabilità del segno. L’immagine “astratta” potrebbe non essere altro che un “campo lunghissimo”, in cui i dettagli si perdono, oppure un particolare microscopico, ingrandito fino a cancellare ogni riferimento al quadro d’insieme.
Materialmente, le carte si danno soprattutto come fisarmoniche squadernate di fogli, quasi come mappe o cartografie presentanti quattro ripiegature o più, anche se non mancano fogli dalla piega singola, bipartiti come le pagine di un libro: e questo forse suggerisce la prima ipotesi, di un ingrandimento appunto cartografico, che ci restituisce il segno come annotazione geografica da decifrare con apposita legenda, descrizioni sintetiche di mappe mentali dell’immaginario.
Non mancano tuttavia opere singole, più affini a un quadro tradizionale, in cui similmente linee nitide e precise, per quanto morbide nel tratto acquerellato, tracciano un simile, più ridotto, sistema di segni: e qui forse possiamo immaginare di cogliere un dettaglio magnificato, se dobbiamo tenere attiva la metafora in didascalia della mostra.
Una prospettiva quindi, quella di Franco, di estrema lucidità e modernità, sostenuta con grande chiarezza fin da tempi “non sospetti” (prima, cioè, che questo stesso discorso “a la Baudrillard” divenisse “luogo comune” perlomeno nell’ambito di un dibattito artistico alto, universitario), e in continuità comunque col segno, appunto, della sua opera, che ne diviene dichiarazione manifesta fin dalle prime prove degli anni ’50.
Una posizione che, nella sua evidenza, assume una verità quasi tautologica (come ogni grande verità): ”Un segno è un segno è un segno, una figura è una figura è una figura”, un po’ sulla falsariga di “una rosa è una rosa è una rosa” del nominalismo medioevale, di cui Franco pare cogliere la profondità reale (e prima del recupero pop di Eco, nel 1980).
E frammenti di una rosa ol(e)ografica appaiono nell’ironico quadro “Eri una rosa?” dove il fiore in questione è scomposto e cancellato nelle forme primarie che lo compongono.
Del resto, lo stesso nome di Francesco Franco è uno dei rari “nomi tautologici” (stando alla definizione dell’enigmista Bartezzaghi), in cui il cognome è la definizione del nome, e viceversa. Una caratteristica condivisa dall’autore con un celebre dittatore spagnolo e un celebre comico italiano.
Ma soprattutto (non può essere un caso, junghianamente parlando) omologo a Francesco Gallo, il genius loci del monregalese del ’700 (in cui la tautologia è declinata, come si può vedere, in una sfumatura sottilmente diversa): un altro autore, tra l’altro, che era stato in grado di ripensare i segni del barocco in chiave più moderna, sulla scorta forse dei “Penzieri” di Juvarra (che l’aveva aiutato nei calcoli della cupola del Santuario di Vico: e tout se tient?).
Tuttavia, questa parte della lezione di Franco non sembra, va constatato, aver avuto una presa così rilevante nell’arte monregalese del secondo Novecento, segnata principalmente da una netta preminenza di una scuola locale di tipo figurativo (nel senso diffuso del termine, appunto), sia pure con esiti talora alti.
Nemo propheta in patria? Forse l’aver associato, in modo corretto ma limitato, l’azione del grande maestro all’ambito della grafica ha reso meno intensa l’influenza del suo pensiero sulla scena pittorica. L’occasione, offertaci oggi dalla Città, di riscoprire l’autore anche nella sua produzione cromatica, è uno spunto utile per una riflessione seria in questo senso, per chi volesse coglierlo.
Le fotografie (autorizzate) sono opera di Margutte