CESARE MORANDINI
PROLOGO
Questo breve saggio è nato durante le sere della quaresima del 2020, quando il mondo si è ritrovato assediato da un virus nuovo ed insidioso, chiamato SARS CoV-2. È stato un periodo cupo e rivelatore. Mentre scrivo il contagio è ancora nel suo vigore, e il sentimento che mi attraversa e mi circonda è che molte cose, dopo, non potranno e non dovranno essere come prima. Abbiamo cambiato tutti il nostro modo superficiale e distratto con cui pensiamo noi stessi, il nostro stare al mondo e il nostro appartenere ad una comunità. Abbiamo toccato con mano il valore crudo e salvifico della verità, e il corrosivo danno della menzogna. La serietà della situazione ci ha investiti come l’acqua in cui si piomba nel tuffo. Nella bolla rassicurante in cui prima eravamo tutti (o quasi), la vita e la morte appartenevano alla responsabilità individuale di ciascuno, che le affidava al sistema sanitario ed ai suoi screening “sereni”. Le preoccupazioni si indirizzavano altrove, certo non alla mera sopravvivenza. Siamo usciti tutti, bruscamente, da quella bolla. Un pensiero ci ha trafitto, non tutti contemporaneamente, ma lo stesso pensiero: anch’io potrei morire, nel giro di alcuni giorni, io che ora sto bene, come stavano bene quelli che sono morti. La morte come improvvisa possibilità è diventata un ospite sgradito delle nostre giornate. Una morte peraltro solitaria e infingarda, annidata in una stretta di mano, in un colpo di tosse. Il pensiero della morte possibile fa appassire il gioco, la leggerezza, la bellezza della vita. Quel pensiero ci restituisce all’umanità di sempre, dalla quale ci eravamo illusi di essere usciti con gli antibiotici, i vaccini e la chemioterapia, e che non riconosciamo. Le angosce appartenute ai nostri antenati sono tornate ad abitarci, come un inquilino che torni a prendere possesso di una casa impolverata e priva di manutenzione da tanto tempo.
La chiusura alla vita sociale e l’obbligo di restare a casa sono stati come un naufragio: nella tempesta si cala la scialuppa, vi si ammassa in fretta ciò che si crede possa servire e ci si allontana, a colpi di remi, dal relitto che affonda. Il giorno dopo, al sereno, si fa l’inventario di ciò che rimane: l’indispensabile, il superfluo. Inutile è recriminare per ciò che manca. Nella mia scialuppa c’è molto, nulla di necessario manca, sono stato fortunato. Ho i miei cari al sicuro e il mio lavoro scolastico, condotto nell’apnea della didattica a distanza, simile ad un lancio di lenza nella notte. Per continuare nella metafora, in un angolino della mia scialuppa ho qualcosa che nessun altro ha. Custodisco in una remota cartella del mio computer gli ordinati comunali di Mondovì del 1630 e in parte del 1631. Sono gli anni della peste manzoniana. La cartella ha data 2015. In quell’anno avevo lavorato ad una ricerca sulla cappella di San Bernolfo, alla periferia della città, e nei minuti di attesa tra un faldone e l’altro, senza alcuna ragione immediata, avevo fatto il rilievo, come si dice “con la mano sinistra”, nella penombra dell’archivio comunale. Fotografati, lasciati in una cartella del pc, e quasi dimenticati.
Mentre il contagio si aggrava e diventa questione planetaria, leggo e trascrivo quei vecchi documenti, di sera, nel sottofondo della tv accesa sui notiziari. Attorno a me il paese tenta di deliberare le azioni corrette in relazione ad una situazione che non si era mai presentata, o meglio, che si era già presentata molte volte, ma troppo tempo fa. Il paese cerca di essere all’altezza di ciò che accade. E vive nella paura, attraversa la propria debolezza con la sua spada di legno. Io faccio la mia parte, e intanto scavo in una miniera che tutti ignorano, sotto quella piastrella del pavimento di casa. Io so che queste mura, questo panorama di monti e colline, questi nomi di luoghi, hanno già visto tutto questo. Inizio a raccontare, nella penombra segreta del mio schermo, immerso nell’aria tesa di questa storia di Coronavirus, quell’altra storia di peste. Senza ragioni particolari, se non per una elementare assonanza. Segretamente, inconsapevolmente, sperando di trovare delle profonde, imprescindibili differenze. E per un brivido maligno di disvelamento, quello che sempre prude tra le dita dello storico.
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Comincia così La peste e la città. Mondovì 1630 di Cesare Morandini, appena uscito per i tipi dell’editrice CEM.
È una lettura che, nonostante l’argomento, “allieta” nel senso etimologico del termine, cioè feconda e arricchisce, non tanto per il racconto in sé della peste “manzoniana” a Mondovì, quanto per le considerazioni “filosofiche” che compaiono non solo nel prologo e nell’epilogo del libro, ma che sono disseminate qua e là a commento dei fatti narrati: un commento che non deforma certo la storia, ma la vivifica e la rende interessante per il lettore.