Non una raccolta di liriche è questo sacro cuore di Franca Alaimo, ma un poema unitario o meglio un romanzo in versi, che dipanando la matassa dei tempi della vita li riordina per “narrare” – a lampi che squarciano il buio dell’oblio e del nonsenso – non tanto una recherche du temps perdu, quanto piuttosto la storia dell’éducation sentimentale e contemporaneamente dell’iniziazione sessuale di una donna vissuta in Occidente nel secondo Novecento, quando la rivoluzione femminile del ’68 ha consentito alle donne una libertà di movimento, di decisione, di parola, di iniziativa prima ignota, in tutti i campi, anche nella sfera sentimentale e sessuale e nel discorso su di essa.
Il libro, suddiviso in quattro sezioni, è in realtà bipartito, e ciascuna delle due parti “narra”, con ironia e commozione insieme, le varie fasi di una storia (rispettivamente la prima e la terza sezione) e il suo punto di arrivo (la seconda e la quarta sezione, comprendenti solo due-tre liriche): nella prima parte il tema di fondo è la scoperta del corpo e del sesso, fino alla “prima volta”; nella seconda la maturità del desiderio erotico, fino al matrimonio… come nelle fiabe.
Un’atmosfera fiabesca, una luce di sogno appunto avvolge tutta la raccolta e ne trasfigura il mondo e i personaggi che lo abitano – genitori, preti, insegnanti, bambine e bambini, giovani donne e uomini: è la luce dei “giorni sontuosi” dell’infanzia, che la poetessa ritrova nella lingua della poesia.
La prima lirica pone l’antitesi di fondo tra «i giorni sontuosi / in cui si incontrano fate / gnomi / creature miracolose» e «i giorni normali, il bene diviso dal male», sottolineandola, sul piano formale, con la struttura chiastica del testo (costituito da quattro periodi, rispettivamente di 3-4-4-3 versi), la presenza di altre antitesi e altri chiasmi di minor portata e il ricorso a quasi-rime, assonanze e consonanze che concorrono potentemente a esprimere un intatto stupore. Ma non si tratta tanto dello stupore del bambino di fronte al mondo adulto, quanto dello stupore del poeta adulto che ritrova (o ricrea?) la verginità edenica del mondo bambino, il mondo senza serpente né mela né tentazione, il mondo dell’ “innocenza” andato in frantumi «come vetro colpito da un sasso»…
Grazie alla poesia, la Alaimo può guardare a questo mondo non con struggimento e strazio, come a un mondo perduto, ma con la “dolcezza del lontano” che nasce dal “distacco”, e cominciare a “volare all’indietro” come gli uccelli «che cadono a terra / soltanto quando muoiono» per recuperare quel mondo infilando “le finestre / come lampi di piume”, con la stessa “grazia e leggerezza” che lei – a torto – invidia agli uccelli.
La poetessa così non si sofferma a piangere su questa perdita, ma è attenta a cogliere il nuovo: il corpo che cambia, i primi sogni d’amore a occhi aperti, il gusto dello sfidare i divieti, del capovolgere le regole. «Sediamo cavalcioni sul muretto di pietre, / in giardino, le gambe penzoloni. / Aspettiamo che il sole ci maturi / le susine affiorate sul petto. / Anche a te è venuta un’ombra… lì sotto? / Sì, dice ridendo (ma è imbarazzata), / ogni tanto la tocco e mi sento strana. / Leggiamo Piccole Donne e i romanzi rosa / aspettando che qualcuno ci sfiori / le labbra con la parola amore […]»
In realtà nella raccolta, come ben evidenzia Giovanna Rosadini nell’accuratissima prefazione, “non c’è perdita dell’innocenza, quanto una conquistata consapevolezza della legittimità di un sentimento amoroso messo in atto: «Un angelo tentatore / mi ha ordinato di peccare / mi ha detto che l’amore / giustifica se stesso. / Adesso non ho più paura / quando sento lievitare il desiderio / oltre la decenza».”
E così la seconda parte del libro è il trionfo dell’amore nella sua dimensione più concreta e sensuale – ed è un tema cantato con estrema delicatezza e “innocenza” grazie anche alla dimensione mitico-fiabesca creata dai riferimenti culturali: «Afferrala – urlo / (lui mi guarda / da sotto il balcone) lanciandogli un’arancia / tonda come il sole. / Io la principessa Nausicaa, / lui Ulisse, il marinaio astuto. / Oppure: lui Anacreonte, / il poeta nato a Teo, / e io la fanciulla dai sandali moderni / di plastica variopinta. / Ma tu, tu sei proprio matta! – / dice – mentre palleggia il frutto / da una mano all’altra / (stanno in bilico la vita / e i mondi e il sogno) / ma poi – e a un dio assomiglia – / divinamente ride, / e nella trama dorata del pulviscolo / risplende l’Ellade dei miti.»
In tutta la poesia della Alaimo “stanno in bilico” la vita, il sogno e i mondi che la cultura ci spalanca, le chiavi espressive che ci mette in mano, a volte di tradizione millenaria come questo splendido paraklausithuron “al femminile”: «Eccomi di nuovo qui / davanti alla tua porta. / Sono venuta attraversando / la pioggia e ora sono tutta / luccicante dalla testa ai piedi. / Ti chiedo la beatitudine. / Se non apri, butterò giù gli stipiti. / Non voglio altro che essere asciugata / dal calore del tuo giovane corpo, / solo questa notte, / solo per un poco».
E l’ultima lirica, il punto d’arrivo della raccolta, con quel “velo da sposa sul letto” richiama e uguaglia il misterioso simbolismo di A Wife – at Daybreak – I shall be – di Emily Dickinson…
I versi posti in esergo alla silloge alludono a un “comandamento non scritto”, dichiarando che “è spaventoso parlarne in questa vita”: forse sacro cuore nel suo insieme rappresenta appunto, fin dall’ambivalente, dissacrante titolo tutto minuscolo, una sfida – vittoriosa – a questo indicibile tabù.