CARLO CARLUCCI
Ad Iris Origo i.m.
Partiamo dal Manzoni con quella sua fissazione del toscano o della lingua di Firenze come referente assoluto per la formazione dell’italiano unitario. Concezioni che Graziano Isaia Ascoli aveva avversato, ma che soprattutto Leopardi, nel suo Zibaldone, ‘sequestrato’ dal Ranieri e finito nelle mani di una domestica (sarebbe stato pubblicato negli anni a cavallo fra i due secoli) aveva, in congruo anticipo, superato, anzi surclassato in una visione ampia, profetica e puntualmente rispettata dallo spontaneo, fisiologico sviluppo della lingua nazionale.
Fanno sorridere, nella celebre lettera al Carena (autore di un pedissequo ‘Vocabolario domestico della lingua italiana’, oggi curioso e gustoso per le migliaia forse di reperti lessicali perduti assieme ai referenti degli oggetti d’uso, cibi e quant’altro) i gentili rimproveri di Manzoni perché al lemma panna erano stati accompagnati altri in uso locale e non come ‘crema’, ‘fior di latte’, ‘capo di latte’ etc. Perbacco, nel momento in cui piselli si doveva affermare su bisi, pois, erbion non poteva il buon Carena affiancare altri sinonimi stante la necessità di affermare un referente unico , possibilmente toscano. Questa del vocabolario (toscano e cruscante) era un’altra delle fisse manzoniane. Ma molte delle principali città italiane avevano già edito dei buoni dizionari appena venati forse da localismi lessicali, e soprattutto esisteva una solida tradizione dei dizionari bilingui dal Baretti per l’inglese, all’Alberti per il francese che mostravano già come la linea di sviluppo si sarebbe discostata dalla sciacquatura de’ panni in Arno e dal rigore dei cruscanti. Ho per caso sotto mano un dizionario bilingue italiano latino: ‘Vocabula Latini, Italique Semonis edirto in Venezia nel 1771 e per il legume scelto a mo’ di esempio dal Manzoni trovo ‘pisello’ per l’appunto. Qual era dunque la necessitudo e l’idea innovativa del Manzoni riguardo al lessico unitario?
Qualche decennio prima delle formulazioni manzoniane intorno alla questione della lingua, Leopardi aveva previsto (come Dante per quanto riguardava il volgare illustre) che la nuova lingua si sarebbe formata molto democraticamente e altrettanto spontaneamente con l’apporto e partecipazione di tutte le principali città d’Italia. Quanto a modernità, quanto a stare al passo con il correre del cosiddetto progresso Firenze era, per il Leopardi che ne conosceva benissimo l’ambiente, piuttosto arretrata rispetto ad altre città come Milano, Torino, Bologna.
Nell’Appendice alla sua ‘Relazione sulla lingua’ il Manzoni riferisce l’aneddoto, riportatogli da un amico che aveva viaggiato in treno da Milano a Firenze con un francese. Questo francese in luogo del suo sortie aveva registrato uscita a Milano, egresso a Pistoia e sortita a Firenze. L’aneddoto doveva corroborare la necessità di un referente lessicale unico che era lì bell’e e pronto, il fiorentino appunto. Ma anche qui un Leopardi diciannovenne, in forma anonima, pubblicava nel 1817 sul milanese ‘Spettatore italiano’ (edito dallo Stella) un breve saggio dal titolo ‘Sopra due voci italiane’. Le voci ovvero i lemmi in questione, già condannati da qualcuno come barbari erano il participio passato reso, e il verbo sortire in luogo di uscire. Dopo avere con uno splendido excursus assolto il reso, con un altrettanto bella perorazione sortire viene invece bocciato in quanto pur non essendo un barbarismo( era rintracciabile solo presso due scrittori il Buonarroti e Andrea del Sarto) ‘non è stato accolto dalla plebe conservatrice della purità della favella, ma da chi o per vezzo o per abito pigliato senza avvedersene, parla il linguaggio che adesso si chiama colto’… Uscire invece era presente sia nel tradizione letteraria come pure nel parlato popolare. Era sempre il poeta di Recanati che aveva osservato come il latino nel suo progressivo raffinarsi sintatticamente e morfologicamente si era definitivamente staccato dal parlato popolare (il che non era accaduto con il greco) ed ecco come l’evolversi storico aveva fatto giustizia di questo elitarismo: il moderno volgare aveva conservato il lemma casa, la capanna cioè del popolo minuto, in luogo della domus romana abitata dai patrizi.
Nelle sue annotazioni alle dieci Canzoni pubblicate a Bologna nel 1824 il poeta a proposito di un incombe presente nella Canzone terza (Ad Angelo Mai) ribadisce come: ’questa ed altre molte parole, e molte significazioni di parole, o molte forme di favellare adoperate in queste Canzoni furono tratte non dal Vocabolario della Crusca, ma da quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, prosatori e poeti…’ Con ciò Leopardi intende alludere al vocabolario della lingua viva, quella degli scrittori ma anche quella del parlato e quindi dell’uso vivo. E ribadisce conclusivamente il poeta: ’E chiunque stima che nel punto medesimo che si pubblica il vocabolario di una lingua si debbano intendere annullate senz’altro tutte le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avuto verso la medesima; e che quella pubblicazione, per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa al mondo’. Ma come? Leopardi che anticipa il nostro neologismo (anni 1930) dall’inglese stoppare? E in effetti lo Zanichelli, etimologico e non, da stoppare come calco derivato dall’inglese to stop. Il fatto è che qui il Leopardi intendeva come senso e come etimo stoppare = turare con la stoppa (sia pure dandovi un traslato metaforico). Il termine latino stuppa (e stuppare quindi) è un calco dal greco στυππειον, etimi che sono alla base di to stop, del tedesco stopfen, del francese étouper, dello spagnolo estopar. Mentre la lingua spagnola, meno dipendente o bisognosa di calchi dall’angloamericano, non ha in uso derivati da stop (c’è anche da dire che la s seguita da altra consonante impone la presenza una e, estupor, espejo, estupendo rendendo cioè più macchinoso il processo di derivazione), il francese ha invece stop, come connotativo del cartello della segnaletica stradale e il verbo stopper di uso assai più circoscritto del nostro stoppare che noi, e non è un caso, invece adoperiamo in tutte le salse. Insomma Leopardi con quell’immagine della severità censoria del Dizionario della Crusca che stoppa le fonti della lingua (e forse il traslato metaforico lo è fino a un certo punto in quanto l’azione verbale è applicata appunto alle fonti della lingua) salta a piè pari quasi due secoli per permetterci questa simpatica e più che necessaria digressione.
Progresso. Si sa quanta poca fiducia il Leopardi degli ultimi anni nutrisse verso le magnifiche sorti e progressive che ci stavano preparando le scoperte scientifiche, vedi la profetica Palinodia al Marchese Capponi. Meno nota la circostanza che, appena diciassettenne, nel suo lungo e ponderoso Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in forma di pausa, al Capo nono DEL SOLE, riportava la notizia che un matematico francese, certo Biot, addietro si era dichiarato, in un convegno, rallegrato dei progressi delle scienze e certo che esse avrebbero dissipato nebbie e ignoranza e fantasmi. A queste radiose profezie sconsolatamente il giovanissimo poeta obiettava: … dorrebbemi finalmente senza misura di dover predire che la parte più grande del genere umano sarà sempre appresso a poco la medesima,, sempre schiava della prevenzione, sempre intrattabile al saggio… sempre cieca, sempre in opposizione col buon senso.
In quel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica di un Leopardi ventenne, che i nebbiosi, frettolosi e fumosi, al solito, accenni dei prof. al liceo seppellivano senza volerlo e senza cognizione alcuna, è invece una straordinaria perorazione sulla legittimità e preminenza del sentimento e del sentire sopra l’arida, imperante e, tutto sommato, votata al nulla razionalità. Incredibilmente nelle sequenze centrali del saggio Leopardi si appunta sulla nascente scienza dell’anima, e parla di analisi, e poco dopo di scienza dell’animo umano già certa e quasi matematica e risolutamente analitica. E subito dopo delinea in pochi tratti quella che chiamano psicologia della quale (la nuova scuola di pensiero) reputa e dice se stessa maestra e regina, e noi altri ignoranti. Chiaramente, evidentemente, e profeticamente come sempre, è leggibile, nel doppio accostamento, l’anticipo (con buona dose di ironia) di Freud e dintorni. La superba allure di cui il poeta, già allora sicuro profeta del post moderno, era dotato gli permetteva di saltare a piè pari i meandri psicoanalitici nei quali un secolo dopo in tanti si sarebbero irrimediabilmente persi.