Nostalgia

C. Sottocornola, Tramonti a nord-est

C. Sottocornola, Tramonti a nord-est

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Raggiunta un’età sufficientemente matura per concludere che, tendenzialmente, il mondo non è il luogo della nostra realizzazione, ma della nostra ricerca (la “lacrimarum valle” di quella straordinaria preghiera medievale che è la “Salve Regina”), assumiamo una capacità di giudizio e di valutazione complessiva delle cose che non è poi così lontana da quell’aurea mediocritas di oraziana memoria, che ci salva da ogni eccesso, e ci riconcilia con l’umile bellezza di un mondo in cui lo splendore va sempre cercato là dove si nasconde, nell’ordinario procedere quotidiano. E dunque appare sempre più denso di significato e valore il principio che la teologia cristiana attribuisce alla dimensione neotestamentaria del regno, inteso come la comunione di Dio con gli uomini predicata e attuata dal Cristo, cui si applicano, nel definirla, le categorie del già e non ancora, vale a dire si sottolinea che la vita di Dio, origine per il credente di ogni beatitudine per l’uomo, è in qualche modo già presente nella condizione storica finita e limitata in cui egli si muove, ma non manifesta e palesata nella sua pienezza ontologica, bensì solo evocata come annuncio, come presagio, come lieta e reale anticipazione ontologica.

Chi capisce questo acquisisce una sorta di maggior qualità di vita, perché tende a cogliere nel grigiore quotidiano un senso, un valore, una bellezza, altrimenti sopraffatte dalle contraddizioni e conflittualità, ma anche dalle brutture e dalle incongruenze, che la vita, nel suo rapporto con le persone e con le cose, spesso ci fa sperimentare. Una festa non è mai “la festa”, un regalo non è mai “il regalo”, un incontro non è mai “l’incontro”, e ciascuna di queste esperienze è, in certo qual modo, sempre segnata da una sorta di povertà o indigenza ontologica che un animo immaturo vorrà sempre eludere, da cui inesorabilmente fuggirà, perdendo mille occasioni di vita e di bellezza, che bastava saper cogliere, e far passare dalla potenza all’atto attraverso una consapevolezza più profonda.

Ci sono momenti nella vita – il sociologo Francesco Alberoni li fa corrispondere a uno stato nascente – che sembrano rivelare come in filigrana, ma in maniera indelebile e assolutamente nitida, il senso, la bellezza e il valore per cui ci sembra valga la pena esistere. Quando siamo piccoli, per esempio, le occasioni di felicità,  a fronte delle nostre attese e di una limpidezza primigenia dello sguardo e del sentire, producono in noi delle sensazioni di una intensità emotiva e mentale irripetibile (i primi Natali o la festa di S. Lucia, il primo giorno di scuola, le vacanze, i libri per l’infanzia, ecc.). Anche da adolescenti e da giovani si conserva uno sguardo proiettivo sul mondo, carico di speranze e di sogni, che ne fanno brillare la superficie e amplificano la nostra esperienza delle cose. Inoltre, tutto ciò è irrimediabilmente associato alle nostre attese, appunto alle nostre speranze e ai nostri sogni, che regalano a quel mondo i caratteri dello splendore e del sogno. Anche se in quel momento non ce ne accorgiamo, anche se lo rubrichiamo fra le cose consuete, anche se talvolta ci annoiamo, lo splendore, o l’attesa di esso, lo abitano e lo abiteranno per sempre, perché in quel momento abbiamo realizzato, esperito, o intuito, il valore. O meglio, perché quella condizione di attesa e di speranza, quell’intervallo temporale e di vita, era abitato dalla ricerca del valore, e quindi da un’intenzione trasfigurante di cui più tardi la nostalgia si incaricherà di fare memoria, di solito proprio in tempi che di quella esperienza trasfigurante sembrano mancare e che dunque ci dispongono al recupero, nella memoria e nel rimpianto, di un tempo bello e struggente.

“Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…”: così Marcel Proust descrive, in una delle più note pagine della Recherche, la straordinaria impressione che aveva su di lui il sapore di una madeleine intinta nel tè, ricordandogli evidentemente il sapore, il gusto, la dimensione profonda della sua infanzia lontana. E tutti conosciamo le pagine semplicemente sublimi dei Canti di Giacomo Leopardi, la cui poetica della nostalgia coincide con la possibilità di recuperare, attraverso la rimembranza, il sentire della propria adolescenza, che riscattava il mondo attraverso la speranza, l’attesa, il sogno.

Dunque che cos’è la nostalgia, se non il veicolo attuale verso il valore una volta percepito, magari in modo irriflesso e casuale, ma ora vivido nel ricordo e nella memoria, forse proprio in virtù della sua assenza, e dunque più radicalmente presente e agente? Che sia attraverso l’arte, la religione, il pensiero, l’amore, l’azione… qualunque sia la forma e il mezzo che la nostalgia trova per esprimersi, foss’anche il pianto o la malinconia più cupa, la nostalgia è sempre un potente mezzo verso l’elevazione del sé, il riconoscimento di ciò che è essenziale alla nostra speranza, e dunque alla nostra vita.

(Da Claudio Sottocornola, Parole buone, Marna 2020)