SILVANO GREGOLI
Rimasuglio di cassetto (data incerta) trovato nel vecchio appartamento dell’autore in via delle Ripe. Rimasterizzato da Margutte nel novembre 2020
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Questo racconto narra di un fatto drammatico avvenuto a Mondovì, nel rione di San Rocco – ora chiamato Isola di San Rocco al Ponte delle Ripe – la seconda domenica d’agosto del 1949, giorno della festa patronale.
L’evento in questione è associato a uno dei frequenti litigi che scoppiavano tra San Rocco e un diavolo rissoso, molto attivo a quei tempi nella zona dei Ravanetti. Il problema è che quella sera, mio malgrado, nella lite sono stato coinvolto anch’io.
E così, dopo tanti anni, ho finalmente deciso di rinfrescarne la memoria Anche perché mi è rimasto un grosso debito da saldare con il San Rocco dell’antica cappella e un’ombra da mandar via, una volta per tutte.
Tanto per cominciare, diciamo pure che in quegli anni lontani le cose non stavano come stanno adesso. La cappella di San Rocco, per esempio, non era come quella attuale, anzi ne era quasi l’antitesi perfetta: spazio cupo e minaccioso trafitto da melopee nasali che si elevavano al cielo per esorcizzare l’onnipresente minaccia della morte: «… nunc et in ora mortis nostrae. Amen». E infatti, fuori della cappella c’erano la malattia, la povertà, la superstizione, i topi, le scarpe rotte, i geloni, il malocchio, le fasi lunari, i gabinetti sul ballatoio, l’analfabetismo, la dissenteria, le macerie, gli orzaioli e il torrente Ellero: furia scatenata in primavera, gelido spicchio di Siberia in inverno. Dentro stavano invece i peccatori pentiti: « … ora pro nobis, peccatoribus, …», prosternati davanti all’immagine di San Rocco misericordioso, pellegrino coperto di piaghe che figure sacerdotali addobbate di impressionanti paramenti interpretavano in vario modo per catturare il cuore degli oranti.
La festa patronale del 1949 era cominciata verso le sette di sera ma erano giorni che fervevano i preparativi. C’era il Pozzo di San Patrizio, santo irlandese dalle origini alto-borghesi e dall’aspetto stridente con la cagionevole mansuetudine di San Rocco. C’erano alcune bancarelle di torrone con pochi acquirenti. C’erano file di boccali di vetro pieni d’acqua, dal collo strozzato, in cui occorreva gettare una pallina da ping-pong per portarsi a casa il pesciolino che nuotava dentro. Sul greto dell’Ellero troneggiava un mucchio di fascine e sterpi pronti a essere immolati per il falò finale. Ma c’era soprattutto una batteria di povere fusëtte che cercavano di competere, senza riuscirci, con i “fuochi” di Mondovì Piazza durante le feste della Madonna.
In posizione strategica stava la cappella: volume tenebroso in cui si rifugiavano, anche al culmine della festa, certe vecchine determinate a ridurre al massimo la pena totale da scontare in Purgatorio. Era infatti chiaro che nessuno di noi peccatori avrebbe meritato un Paradiso secco. Il Purgatorio era invece il luogo in cui noi tutti speravamo di approdare evitando così la bocca spalancata dell’Inferno, spauracchio delle nostre notti.
Lì in mezzo c’ero anch’io, nove anni, esitante tra il Bene e il Male e tuttavia attratto dal Bene con una forza tale che parroci e curati finivano sovente con l’affidarmi incarichi liturgici di fiducia.
Quella sera, deciso a non cedere alle tentazioni delle bancarelle a pagamento, gironzolavo intorno alla cappella nell’attesa della novena. Non ero il solo, e all’ingresso della cappella cominciava ad ammassarsi una certa folla. Ecco: l’inesorabile catena di eventi che porterà al drammatico fatto sta per cominciare.
Mancavano pochi minuti alle otto e mezza e il prete che si apprestava a officiare aveva messo il naso fuori della porta in cerca d’aiuto. Vistomi piantato lì, in attesa, mi aveva allora detto: «Va’ un po’ a suonare la campana».
Non me l’ero fatto dire due volte: la corda della campana era subito a destra dell’ingresso. Il primo contatto con la corda di San Rocco era stato abbastanza deludente: il diametro era decisamente inferiore a quello della corda di San Pietro, che conoscevo benissimo, e la sua consistenza non ne aveva gli stessi connotati virili.
Dè-è-èng aveva fatto la campana al primo strappo. Peccato: non era il sonoro Dò-o-o-o-o-o-n! delle campane che incutono rispetto e una punta di religioso timore.
Dè-è-èng …, Dè-è-èng …, Dè-è-èng … Nonostante la relativa modestia del Dè-è-èng i primi fedeli cominciavano ad agglutinarsi ai piedi della facciata mentre alcuni ansiosi affluivano nell’interno alla ricerca dei posti migliori.
Dè-è-èng …, Dè-è-èng …, Dè-è-èng …. «Avanti, fatevi sotto, entrate, non fatevi pregare, non posso mica stare qui tutta la sera a tirare ’sta corda».
Dè-è-èng …, Dè-è-èng. Fu a questo punto che il Diavolo che si aggirava nei paraggi ‘…tamquam leo rugens, quaerens quem devoret[i]…’ mi fece la prima soffiatina negli orecchi: «Tira più forte» mi disse Satana che aveva parecchie rivincite da prendersi su San Rocco. «Se non tiri più forte quelli non ti sentono.»
A me era parso che la vocina provenisse dalla statua di San Rocco.
Diedi tre o quattro strappi più forti, che produssero altrettanti Dèi-èi-èing metallici piuttosto stridenti.
«Dàje ‘na bela beda! Dàje ‘na bela beda!» (Dagli una bella botta!) incalzò la vocina.
Per me la cosa suonava come un ordine impartito direttamente da San Rocco. Nessuno avrebbe pensato al Diavolo. Il Diavolo non parla in piemontese, lingua della brava gente; si rivolge alle sue vittime in italiano, lingua di avvocati, carabinieri, esattori e altri furbacchioni.
E invece, ahimè, era proprio il Maligno, perché vincendo ogni elementare norma di sicurezza balzai in alto di un buon metro, afferrai la corda il più su possibile e, una volta giunto a terra, la tirai con tutta la forza dei miei muscoli resi d’acciaio dal Demonio in persona.
Udii dapprima un orribile clàc di frusta, e la corda mi cadde addosso con la flessuosità di un serpente. Dopo il clàc venne un silenzio agghiacciante che mi sembrò durare un’eternità. Ma qualcosa mi diceva che il peggio doveva ancora arrivare. E infatti, da fuori, giunse dapprima il rumore di un tonfo rovinoso, poi uno sgangherato suono di campane – non era il Dè-èi-èing di prima, era un rumore bronzeo e terreo insieme, di una volgarità minacciosa – e in ultimo le urla disordinate della folla.
Nella cappella c’era un’altra uscita, una porticina laterale da cui scappai con la furia di un diavolo colpito in pieno da un getto di acqua benedetta. Feci tutta via Soresi di corsa e andai a infilarmi nella Viotta che a quell’ora era già tutta buia.
Girai così per più di tre ore nei quartieri deserti di Mondovì, tra Piazza e Carassone, attanagliato dal rimorso, inseguito da torme di pensieri orribili, di visioni agghiaccianti dove i bambini e le bambine massacrati dalla caduta della campana diventavano coppie di carabinieri che mi portavano in caserma con le mani legate dietro la schiena; e i miei genitori avrebbero dovuto pagare milioni, ma dove li avrebbero presi tutti quei soldi, mio dio, avrebbero messo in prigione anche loro! Infine c’era l’Inferno, altro che Purgatorio: omicidio! omicidio! omicidio! E chi avrebbe creduto che era stato San Rocco a dirmi: «Daje ‘na bela beda»? Non sarei mai più andato a scuola: mi era venuta così bene la scuola quell’anno! Forse mi avrebbero ucciso e sarei andato a raggiungere le schiere dannate dei bambini all’inferno …
Non c’era più nessuno per le strade di Mondovì e nemmeno in via Soresi che scendevo a passi guardinghi, il cuore pesante come un macigno. Al fondo di via Soresi cominciava il rione detto ‘il Borgheletto’ contiguo a quello di San Rocco. Avanti, pianissimo, rasente ai muri, senza far rumore nella strada deserta, col passo strisciante dell’assassino. Ormai si vedeva, di taglio, la facciata della cappella e sulla piazzetta non c’era più nessuno. Forse era stato solo un sogno: ecco, avevo sognato, avevo avuto una perdita di coscienza, succede a tutti.
Ma sulla soglia della cappella, per terra, c’era una campana: visione terrificante. Era là, accasciata, apparentemente intatta – il primo impatto l’aveva ricevuto il basto di legno – ma totalmente fuori posto sulla terra di quella piazzetta deserta. Mi avvicinai in un tumulto di pensieri angosciosi … No! Non si vedeva nessuna macchia di sangue … almeno non mi sembrava … però la terra era più scura lì attorno … anche se non sembrava sangue … certo che la terra beve e potrebbe anche essere sangue, era così buio … ma se fosse stata la pozza smisurata che per tre ore aveva avvelenato la mia vita avrebbe dovuto vedersi meglio, il sangue non è acqua … certo che la terra beve … la terra beve …
Mia madre mi sgridò: «Ma ti sembra l’ora di arrivare?» senza nessun accenno alla campana. Mi dissi che i carabinieri stavano ancora interrogando il prete che avrebbe sicuramente fatto il mio nome. Sarebbero venuti a prendermi l’indomani.
Ma l’indomani non successe nulla. Era proprio come se non fosse morto nessuno. Ogni mattina, nell’andare a scuola, ero costretto a passare davanti alla cappella, ma allontanavo gli occhi con ribrezzo dalla spaventevole campana atterrata che non poteva non avere ucciso nessuno quella sera, era pieno di gente là fuori, una campana così uccide dieci persone, non è possibile, i carabinieri stanno ancora facendo l’inchiesta, prima o dopo mi beccano, e se non mi avessero beccato loro mi avrebbe beccato Dio: Nòstr Signor a paga tard ma a paga larg diceva il proverbio.
Seppi infine con certezza che non era morto nessuno quella sera. La campana era caduta nell’unico, piccolo spazio senza crani del sagrato, si era infilata in quel vuoto come fosse guidata dalle mani di un santo. La cosa era finita lì. Punto e basta.
Ma non era finita per me, perché da quella sera, per anni e anni, – decenni diciamo pure – ogni tanto, anche in paesi lontani dove nessuno sa cosa sia un Santo né tantomeno San Rocco, mi è successo di svegliarmi la notte al pensiero che ho ucciso qualcuno ma che nessuno mi ha visto, e ritorno sul luogo del delitto, e provo l’indicibile piacere dell’impunità: no, non andrò in prigione, non mi ammazzeranno, non mi ha visto nessuno, l’unico che sa è il prete, ma non ha parlato e non parlerà mai; e provo anche l’amara tortura del rimorso e mi dico che stavolta andrò dai carabinieri e dirò tutto; e poi mi sveglio e vedo che non ci sono più campane nel mio mondo, né piccole né grandi, e ricordo che quel tale mi aveva detto che non c’era stato nessun morto e nessun ferito, e allora il sudore si dissolve e il cuore, poco alla volta, riprende a battere regolarmente, e mi riaddormento. Fino alla prossima volta.
Caro San Rocco, era bello un tempo, vero? Girala come vuoi, ma per un Santo all’antica come te, protettore dei pellegrini, ultima speranza contro la peste che ammorbava mezza Europa, deve essere ben tedioso, adesso, volteggiare sopra i caselli autostradali i week-end d’estate, deve essere ben triste aleggiare lungo i corridoi degli ospedali dove facoltosi negromanti in camice bianco usurpano il posto che era il tuo nell’anima dei piagati, dei contagiosi, dei moribondi. È andata così anche per la tua cupa cappella al ponte delle Ripe. È la vita, San Rocco, santo pellegrino. Dovresti già ringraziare che la tua cappella è finita nelle mani di due architetti Pellegrino – nome predestinato – che stravedono per te. Pensa un po’: se non era per loro, un altro avrebbe buttato giù anche la facciata con la campana, e al posto della tua cappella ci sarebbe adesso un parcheggio a pagamento.
Ma torniamo un momento a quella famosa sera della campana, vuoi? Vorrei chiudere quel discorso, una volta per tutte.
Nessuno meglio di te sa che le nostre strade si sono divise da un pezzo e che a Santi e miracoli, io, non credo più. Eppure, nessuno mi toglierà mai dalla testa che quella sera sei stato tu a metterci lo zampino.
Stammi a sentire: intorno alla cappella c’era una folla di densità media pari a quattro-cinque crani al metro quadro. Il massimo della densità si trovava ai due lati della porta d’ingresso dove la gente esitava a entrare. Il lato destro della porta stava e sta proprio sotto al campaniletto, proprio sotto la campana. Dunque, quella sera, sotto la campana ci saranno stati almeno sei-sette crani per metro quadrato.
Nonostante il suo Dè-è-èng, la campana non era un campanello, e per poter ruotare sull’asse era stata solidamente imbullonata ad un pesante ‘basto’ di legno. Quanto sarà potuto pesare il tutto? Cento chili? Duecento chili? E da che altezza è caduta la campana, quella sera? Otto metri? Dieci metri? Dodici metri? San Rocco: sono assolutamente sicuro che alla verticale della campana, quella sera, c’erano almeno sei crani. Sono assolutamente sicuro che se non fossi intervenuto tu, la pozza scura intorno alla campana atterrata sarebbe stata spaventosa. La terra non sarebbe riuscita a berla.
Sotto la campana, infatti, quella sera c’era tutta una famigliola. C’era il papà, la mamma, la nonna, il bambino e le due bambine. Quando la campana si è staccata dal supporto e ha cominciato a precipitare tu li hai chiamati: «Venite qui! Venite qui subito!» hai gridato. «Devo farvi vedere una cosa!» La famigliola si è dunque allontanata dalla base del campanile mentre la gente intorno, che cercava di capire da dove venisse quella voce, è rimasta lì ferma imbambolata. Sei riuscito a fare un buco nella folla, San Rocco; gran furbacchione. Non hai voluto darla vinta al Diavolo. E così, in quel buco, è andata a fracassarsi la campana che io avevo tirato troppo forte perché quel farabutto mi aveva detto: «Dàje ’na bela beda».
Ah, com’è semplice tutto ciò! Basterebbe crederci. Ironia della sorte: io, che non credo più, forse sono rimasto l’unico a crederci.
Comunque, grazie di cuore San Rocco. Con questa bella pubblicità, gratuita, sulle colonne di Margutte, spero di essermi sdebitato, di essermi fatto perdonare l’eccesso di zelo che, una sera lontana, ha fatto di me un potenziale assassino preterintenzionale.
Arrivederci, vecchio San Rocco. Molto probabilmente la peste ritornerà. Strani presagi sono già apparsi all’orizzonte. Avremo ancora bisogno di te. Ti ricorderai di noi?
[i] “…..come un leone ruggente, alla ricerca di chi divorare …”
(Una precedente versione del racconto è stata pubblicata a novembre 2002 sul n.52 dei Pòrti di magnìn)
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