CLAUDIO SOTTOCORNOLA
È nota la distinzione tra felicità e gioia. Anche Kant lamenta che il virtuoso, in questa vita, non sempre vede corrispondere alla propria virtù una felicità ad essa proporzionale mentre, talvolta, il vizioso appare (almeno “appare”) felice. E dunque postula l’esistenza di un Essere Supremo, o Sommo Bene, capace di stabilire la giusta proporzione fra virtù e felicità, rendendo in tal modo congrua, sensata, ordinata un’azione morale altrimenti nata per restare in condizioni di scacco, di non riuscita, di fallimento. Di solito però quasi tutti sottolineano che, anche nel dolore, che per esempio attanaglia il virtuoso ingiustamente aggredito vuoi dal male fisico che la natura gli impone, vuoi dal male morale che gli altri esercitano su di lui, è possibile all’uomo retto mantenersi nella gioia. Che sarebbe quindi una condizione corrispondente a uno status o standard morale raggiunto, a prescindere dalle contingenze della vita e del caso…
Ma in cosa consiste tale standard? Una sorta di orgogliosa medaglia correlata a meriti accumulati e gelosamente conservati? Una tecnica a prova di collaudo e sempre efficace da applicare con cura? Una superiore gestione dell’imprevedibilità degli eventi?
Mi colpisce vedere che la qualità della gioia non è mai correlata alla quantità di scienza che le persone posseggono, anzi sembra più facilmente risiedere in coloro che si affidano alla vita e alle sue priorità piuttosto che all’intelletto e alle sue astrazioni. Del resto, dall’antichità classica al medioevo cristiano, la distinzione fra scienza e sapienza è sempre stata una costante della filosofia, e solo oggi, con il tramonto del pensiero critico e speculativo a favore di quello tecnico-scientifico, ma io preferirei dire economico, tale distinzione non è più frequentata e si preferisce parlare esclusivamente di scienza, che sembra aver colonizzato ogni ambito della cultura fino a identificarsi con essa nella sua totalità. Se la scienza è, fondamentalmente, identificare con un nome le cose e trasformarle in dati, la sapienza consta invece di un senso delle cose trovato, vissuto, dichiarato.
Due mondi che potrebbero non incontrarsi mai o, al contrario, sostenersi a vicenda. Agostino diffidava della scienza, che vedeva come buona solo quando finalizzata alla sapienza: un po’ come un bagaglio che serve per un viaggio, ma che lo inibisce se diventa troppo pesante e difficile da trasportare. Oggi, al contrario, si apprezza la completezza del bagaglio, o degli strumenti pronti per l’uso, ma non ci si occupa più della meta, della direzione del viaggio, che quasi sempre assomiglia, nelle moderne fenomenologie, al volo in tondo di una zanzara impazzita.
Annovero invece spesso, nelle persone che, per esempio, non vantano alta specializzazione o superiori competenze, ma si nutrono di un certo legame con la vita e con le sue relazioni, una sorta di più intrinseca sapienza, una specie di più stringente ordine di priorità, una qualche praticabile direzione al valore che mi convince, mi coinvolge, mi affascina e attrae. Quanta povertà umana (e culturale) in alcuni soggetti plurilaureati o professionalmente vincenti, quanta nobiltà e garbo in tante espressioni del popolo, che rivelano un’intrinseca sapienza esistenziale, una laurea in umanità, che è poi quella che definisce la qualità delle nostre vite e l’esito del nostro destino… “Ama e fa’ ciò che vuoi”, diceva ancora una volta Agostino, ma è evidente che ciò significa che devi assaporare il midollo della vita, che ti coinvolge, ti impegna, ti attraversa, regalandotene il gusto e il sapore. Ed è più facile a un povero – quelli amati da Saba, don Milani, Pasolini, Dalla, Testori e tanti altri – assumere tale rivelazione, tale sguardo e tale meraviglia, di quanto non riesca a fare un qualunque burocrate dell’anima.
È vero che le masse di questo tardo capitalismo sono degradate e corrotte dai media e che in esse si moltiplicano passivi e ignari replicanti del sistema, ormai obbedienti ai suoi diktat consumistici e biecamente edonistici. Ma è anche vero che qualche marginale frangia di sopravvissuti alla lobotomizzazione resiste, fra le periferie abbandonate, i residuali circoli Acli o Arci di qualche remota contrada, i centri anziani dove si gioca a carte a tempo indeterminato, i monti o le profonde pianure dove rimane aperta a ore improbabili qualche cadente osteria. E forse, nel Sud del mondo, quelle antropologie sono ancora maggioritarie, e feconde, dinamicamente orientate ad espandersi… Anche se è in agguato la conversione al capitale, ai consumi, alla rete.
Che cosa mi convince in queste culture marginali? La gioia, che non riesco a trovare altrove, e che sintetizzerei come una condizione di familiarità, un sentirsi a casa fra gli altri e nel mondo, in una sorta di agio, di spontaneità, di naturalezza, che divengono benevolenza, condivisione, al limite fraternità, e restituiscono un’idea di mondo, di essere umano, di senso, finalmente riconciliati e pacificati con il tutto. Questa gioia ha a che fare con la sapienza, e questa con l’amore per la vita e le sue varie manifestazioni. Ma si nutre di un domicilio, di un’appartenenza, un punto, che è un’intersezione nello spazio e nel tempo da cui appunto guardare e amare il mondo. La casa è il luogo da cui parte questo amore, ed è il luogo dove torna. Come per l’E.T. di Spielberg. Ma la casa è dentro di noi, nessuno ce ne potrà separare, è il luogo della familiarità che siamo stati capaci di realizzare, la cui intensità è data solo dalla misura del nostro amore.
(Da Claudio Sottocornola, Parole buone, Marna 2020)
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