Dante e il Novecento… 25 anni fa

Dante Alighieri - Statua Santa Croce, da Wikimedia Commons

Dante Alighieri – Statua Santa Croce, da Wikimedia Commons

GABRIELLA MONGARDI

Una domanda per molto tempo ha turbato i miei sonni, all’inizio della mia carriera di insegnante di Liceo: perché i programmi ministeriali prevedono la lettura del Paradiso dantesco nell’ultimo anno del triennio? Solo perché, per una felice coincidenza, la Commedia, con la sua suddivisione in tre cantiche, pare fatta apposta per essere distribuita in tre anni scolastici consecutivi? Insomma, se Dante è un autore del Trecento, perché non esaurirne lo studio col suo secolo, come si fa con Petrarca o con Boccaccio, perché trascinarselo dietro per tre anni? Poi l’ho rimossa, ma senza avervi trovato una risposta soddisfacente, e senza avere il coraggio di optare, come molti colleghi, per la lettura di canti tratti da tutte e tre le cantiche della Commedia nel primo anno del triennio, quando si affronta la letteratura medievale.

A scuotermi dal mio torpore è stato, a un certo punto, il giudizio espresso da un alunno alla vigilia dell’esame di maturità: “A me il Paradiso non è piaciuto, l’Inferno invece sì che è poesia!”. Eppure era un alunno di grande valore, amante della letteratura italiana al punto da rammaricarsi che l’orario del Liceo classico riservi solo quattro ore settimanali all’insegnamento di tale disciplina – evidentemente  ero io che non ero riuscita a spiegargli, a fargli capire ‘come si deve’ il valore del Paradiso dantesco… Allora mi sono fatta un accurato esame di coscienza, e sono giunta alla conclusione che non ero riuscita a spiegare perché verosimilmente ancora non sapevo: anch’io non ero ancora pienamente consapevole della profonda ‘modernità’ e ‘bellezza’ del Paradiso, che due autori novecenteschi, Borges e Pound, mi hanno più di ogni altro rivelato. Così ho incominciato una ricerca, prima da sola, per sondare il terreno, verificarne la realizzabilità didattica, e poi coinvolgendo una classe, la III liceo classico del 1996. Se ho avuto l’audacia di intraprendere con i miei allievi questo cammino lo devo in particolare a Borges: è la sua rivalutazione del ruolo del lettore, sono le sue letture dantesche che mi hanno dato il coraggio di osare tanto; e spero di aver insegnato innanzitutto questo, ai miei alunni: a non aver soggezione dei grandi autori, dei libri del passato; a non sentirsi troppo inadeguati di fronte ad essi: un grande libro non è mai arroccato nella sua superba indecifrabilità, ma sta al gioco del lettore…

Quell’anno, quindi, in terza liceo, non mi sono limitata a commentare come al solito un certo numero di canti del Paradiso, ma ho proposto alla classe – che  ha accettato con grande disponibilità ed entusiasmo  – di occuparsi di alcuni autori del ’900, italiani e stranieri, e precisamente di Mallarmé, Valery, Eliot, Pound, Borges, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Luzi, studiando le interpretazioni e i giudizi che questi autori hanno formulato su Dante (quando è stato possibile) e comunque cercando analogie e affinità tematiche tra la loro poesia e l’opera di lui. In questo modo i miei alunni – ed  io con loro – hanno  ‘toccato con mano’ la modernità di Dante, scoprendo la sua presenza nella letteratura a lui cronologicamente più lontana, quella contemporanea, e le affinità di fondo che legano la poesia del ’900 a lui. Nel Paradiso in particolare si può cogliere una “disperata vicenda evocativa, tra disincanti e disinganni, intellettuale, culturale e mentale, dell’umano all’affannosa ricerca del vero”; una “scalata al cielo verticale e vertiginosa”, una “tensione metafisica verso l’Assoluto, rappresentato, ma inconoscibile e inattingibile”: la stessa tensione che percorre – come dice la dantista e poetessa francese Jacqueline Risset – la letteratura del Novecento. Ecco perché non si può rinchiudere Dante all’interno della letteratura medievale: l’“orma dell’etterno valore” di lui è rintracciabile oserei dire ovunque, o meglio ovunque ci sia grande poesia.
E per me è stata, a quei tempi, una vera rivelazione  scoprire che il Paradiso – la cantica “teologica” su cui più aveva pesato il marchio di non-poesia assegnatole dai critici crociani – proprio il Paradiso rivela un’insospettata, straordinaria modernità.
In questo articolo parlerò di due poeti italiani del Novecento in rapporto a Dante, scegliendoli tra quelli studiati a suo tempo con i miei alunni, e precisamente di Montale e di Ungaretti.

Montale non si è limitato a ispirarsi a Dante nelle sue poesie – a parafrasarlo, come vuole Brodskij; gli  ha anche dedicato un Discorso, nel 1965, in occasione del settimo Centenario della nascita, pubblicato poi col titolo di “Dante ieri e oggi” nel volume Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976.
In esso Montale si chiede “chi fosse Dante e che cosa egli possa rappresentare per uno scrittore d’oggi” e per rispondere delinea un quadro sintetico dell’autore, delle sue opere, della sua fortuna nei secoli e delle interpretazioni novecentesche della Commedia. Secondo Montale, esiste un’eredità dantesca che noi possiamo raccogliere: «Se Dante è patrimonio universale (e tale è diventato anche se più di una volta egli abbia avvertito che parlava a pochi degni di ascoltarlo – vedi l’esordio del secondo canto del Paradiso), al di là di un certo grado di approfondimento necessario, la sua voce oggi può giungere a tutti noi come mai forse avvenne in altri tempi e come forse non sarà più possibile in futuro, così che il suo messaggio possa toccare il profano non meno che l’iniziato, e in modo probabilmente del tutto nuovo»; e aggiunge: «Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante abbia lasciato». Ciò nonostante, egli ribadisce che “Dante non è un poeta moderno”, “Dante non può essere ripetuto”: “poeta concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione”. Ci troviamo cioè di fronte a quel paradosso che il critico Romano Luperini enuncia in questi termini: «Il poeta italiano che più di ogni altro nel Novecento ha guardato all’esempio dantesco sottolinea la distanza incolmabile tra il mondo di Dante, necessario al nascere della sua poesia, e il nostro mondo moderno. Pure per Montale il modello dell’allegoria dantesca è un riferimento importantissimo, che egli si sforza di attualizzare, adeguandolo alla sua personale poetica e alla nuova condizione storica», ed effettivamente, se ci si fermasse a questo discorso, se non conoscessimo altro di Montale, si sarebbe indotti a dubitare del suo dantismo.

Invece, il punto di contatto fondamentale tra Montale e Dante è proprio nell’originaria e non occasionale vocazione allegorica della poesia montaliana, per cui essa si colloca in una posizione di esemplarità ed eccentricità rispetto alla tendenza dominante nella letteratura novecentesca non solo italiana, quella del simbolismo, che esalta il discorso analogico-metaforico.
Alla base della tensione allegorica del linguaggio poetico montaliano stanno, secondo A. Jacomuzzi,  da un lato il rifiuto di ogni concezione organica della natura e della storia, addirittura l’incertezza del reale; dall’altro lato, la certezza del senso, di un senso che però si colloca sempre “più in là” (Maestrale), in un ‘altrove’ inattingibile, al di là di una barriera invalicabile, raffigurata nelle liriche di Montale – per fare solo qualche esempio – dall’ “erto muro” di In limine, dalla “muraglia” di Meriggiare pallido e assorto, dallo “steccato” di Gloria del disteso mezzogiorno. Se l’allegorismo montaliano si presenta come consapevolmente modellato su quello dantesco, è evidente però che ne è l’equivalente negativo: alla fede positiva del poeta medievale corrisponde l’ “ignoranza” dell’autore novecentesco; la certezza del significato è per il primo colma di contenuti positivi e riconoscibili, mentre il secondo ne ignora il contenuto e i fondamenti; la teologia negativa è in Dante una componente dell’invenzione, in Montale è il dato dominante che investe, insieme con gli oggetti del discorso, l’idea stessa del linguaggio e della sua funzione poetica (Non chiederci la parola). E non dimentichiamo – lo vorrei ribadire perché a mio avviso è fondamentale – che Montale, con il suo allegorismo, si riallaccia non ad aspetti laterali ma al centro stesso dell’invenzione letteraria di Dante.

Altre analogie di procedimenti di fondo, tra Montale e Dante, sono da un lato l’operazione di ‘rilettura’ in chiave ‘secolare’, laica, dei simboli della cristianità che Montale compie a partire dalla raccolta delle Occasioni e poi soprattutto nella Bufera, così come Dante aveva rivisitato i classici in ottica cristiana; dall’altro lato, il costituirsi del libro stesso come allegoria, ma anche qui con la differenza che ciò che nel secondo è compimento organico, nel primo è tentativo e  aspirazione insoddisfatta. Come le singole tappe dell’esperienza letteraria dantesca aspirano a costituirsi come altrettanti eventi allegorici che nella successione dei testi ricevono illuminazione e interpretazione, così i testi montaliani non crescono solamente come novità e acquisizione ma anche come ritorno su se stessi e progressiva, programmatica interpretazione, attraverso la fittissima prassi poetica dell’autocitazione. Questa costante strutturale della poesia di Montale non trova altro riscontro adeguato che non sia quello dell’exemplum dantesco, e fa del dantismo montaliano un dato ben più radicale e operante che non in altri scrittori del Novecento, come Eliot e Pound, che pure a quel modello si sono espressamente richiamati.
In Montale, poi, oltre a questo dantismo per così dire “procedurale”, di fondo, vi sono innumerevoli dantismi di superficie, cioè i ‘prestiti’ da Dante, di carattere tematico, linguistico e stilistico, che la critica ha ampiamente accertato (con puntuali riscontri testuali). Innanzitutto dal punto di vista fonico e musicale è innegabile il debito che Montale ha verso Dante e le sue rime petrose, fin dalla lirica più antica della raccolta “Ossi di seppia”, Meriggiare, in cui i suoni consonantici aspri, le rime, il lessico sono di chiara ascendenza dantesca, infernale: ma non sono che l’irradiazione, la spia di affinità tematiche presenti nei testi.
In conclusione la presenza di Dante nella poesia montaliana è rintracciabile in maniera massiccia, costante e direi fondante, al punto che, per certe poesie – dice Jacomuzzi – le citazioni dantesche, a differenza di quelle di altri autori, come Leopardi, Pascoli o D’Annunzio, richiedono di essere riconosciute dal lettore che voglia comprendere a fondo il testo, perché ne forniscono la chiave interpretativa: è il caso, ad esempio, dell’ “onda antica” in Arsenio, che rimanda alla ‘schiuma antica’ dello Stige nel IX dell’Inferno, il luogo degli accidiosi, e segnala così la cifra dell’accidia come condizione esistenziale dell’alter-ego del poeta, Arsenio.

Anche Ungaretti – come e più di Montale – si è occupato di Dante, con un commento al I canto dell’Inferno nel 1952, ai canti dal X al XIV del Paradiso nel 1965 e con il saggio Dante poeta della povertà. Ne emerge un’esaltazione incondizionata del sommo poeta, la cui opera «ha un chiarissimo senso del rapporto fra effimero ed eterno; ha un acutissimo senso della natura poiché ha un senso così attivo del tempo; ha infine un senso costante del mistero poiché il senso della natura e dell’eterno sono in lei così tragicamente legati».
Come ha affermato Mario Petrucciani al convegno “Dante nella letteratura italiana del novecento”, «l’incontro di Ungaretti con Dante avviene all’interno di quel sistema simbolico della memoria che dalla prime liriche del Porto sepolto (I fiumi) attraverso l’ultima sezione del Sentimento del tempo trova la sua più alta realizzazione in La terra promessa. Poesia della memoria come salvezza dal naufragio: “ciò che è stato, è stato per sempre”, cioè contemplazione della morte come reinvenzione della vita nella memoria». Parlando di Dante, Ungaretti parla di sé e della propria poetica; puntando sulla figura del Naufrago = Dante = nuovo Enea, Ungaretti chiude il cerchio su se stesso: come Enea attraverso lutti e tempeste è approdato in Italia, come Dante dalle tenebre infernali è salito nella luce abbagliante dell’Empireo, così anche Ungaretti è scampato al naufragio, ha intravisto  la “terra promessa”…

Se il plurilinguismo di Dante  non trova posto nelle scelte linguistico-stilistiche di Ungaretti, il suo vero legame con Dante è rappresentato dalla tensione religiosa verso l’Oltre: infatti la poesia ungarettiana tende a presentarsi come un dialogo senza intermediari tra l’Io e l’Assoluto, per  cui gli elementi esistenziali, anche i più strazianti, si decantano delle loro dirette ripercussioni psicologiche e realistiche e si collocano in una zona di attesa, come significanti disposti a entrare in un gioco di significati assoluti che diano loro collocazione e senso.
Se ci accostiamo ai testi, troviamo come leit-motiv in tutte le raccolte di Ungaretti il rapporto tempo/eternità – basilare nella Commedia, com’è ovvio. Nell’Allegria il titolo stesso allude al dono concesso al poeta che, nella tacitazione di tutte le voci effimere della caducità, sa mettersi in contatto, sia pure per attimi fragilissimi, con l’eterno e ne ricava un viatico di conforto per il suo viaggio («mi riconosco / immagine passeggera // Presa in un giro immortale»); nel Sentimento del tempo il rapporto caducità/eternità appare, malgrado il titolo, tutto spostato sul secondo termine: si direbbe che l’incalzare dell’età, con la tematizzazione progressiva ella morte, produca una controspinta verso l’intemporalità, nella quale resta coinvolta la morte stessa che, da rottura traumatica e pauroso retaggio dell’esistere, si trasforma in possibile varco verso l’Assoluto; anche nel Dolore, che recupera la dimensione diaristica dopo le astrazioni intemporali del Sentimento, il moltiplicarsi dei segni della caducità produce per contraccolpo la necessità di raggiungere per vie più ardue e complesse la sublimazione nell’eterno. Di qui il ritorno allo studio di Dante, il commento a Dante come manifesto della propria poetica, e la potenziale identificazione con Dante, attraverso Enea, nella raccolta La terra promessa. Così il cerchio si chiude: come Enea ha “cercato l’Italia” attraversando mari, tempeste e lutti, come Dante ha attraversato le tenebre dell’inferno e ha scalato la montagna dell’espiazione per arrivare al lampo abbagliante dell’Empireo, così Ungaretti ha compiuto la sua lunga traversata del deserto, accompagnato da Virgilio e da Dante, e ha raggiunto l’oasi, la terra promessa.