Il destino dei corpi

 

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Accostare questi due libri in cerca di un punto di incontro potrebbe sembrare un azzardo. “Le pareti della solitudine” di Tahar Ben Jelloun è stato pubblicato per la prima volta nel 1976, mentre “Il corpo docile” di Rossella Postorino è del 2013: l’uno descrive in un poetico flusso di coscienza la vita in Francia di un giovane migrante marocchino, che si trova isolato ai margini di una società intrisa di razzismo, l’altro invece racconta con una lingua precisa, senza sbavature, dei bambini delle detenute nati (e vissuti fino ai tre anni) in carcere, dei traumi che fondano la loro personalità, irrimediabilmente.
La perdita di dignità, questo di sicuro è un tema comune ai due libri, perché un certo tipo di migrazione così come l’esperienza carceraria minano alla base il senso di dignità su cui si fonda la consapevolezza di essere umani. Anche la solitudine è tematica condivisa, perché le migrazioni di uomini soli da sempre si accompagnano a questo vissuto, così come la quotidianità ripetitiva e deprivata delle case circondariali, dove l’affollamento ha il potere di rendere ancora più evidente l’abbandono affettivo.
Ma è soprattutto il destino dei corpi ad essere prepotentemente al centro di entrambe le narrazioni, ed è sul corpo che si coagula tutta la disperazione della marginalità, insieme all’imposizione da parte di un’istanza superiore (società del paese d’arrivo o istituzione totale) di un suo ridimensionamento, di una costante sottrazione che mira a far scomparire questi corpi indesiderati, portatori di diversità e di stigma sociale, di una colpa che non può essere perdonata. Sono corpi che si inceppano, quelli di molti migranti e di tanti detenuti, schiacciati dalla paura, dalla frustrazione e dalla violenza, lasciati a invecchiare senza una carezza, tra i ricordi di una vita che perde via via i contorni di realtà, ingoiando ogni pulsione e ogni desiderio nel buio e nello sporco di luoghi degradati.
Sono due libri potentissimi, che parlano di una stessa ferita, che ha origini diverse, una ferita che spacca il corpo in due e lo addomestica a un dolore così pervasivo che spesso chi ne è attraversato trova riparo solo nella fuga non agita dei disturbi nevrotici e psichiatrici.
Ci sarebbero così tante storie da raccontare per iniziare a ricomporre quei corpi, per restituirli alla libertà di esistere nella loro interezza. Ci sarebbe così tanto da scrivere in merito.
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«La mia camera è un baule dove ripongo le mie economie e la mia solitudine, dove lascio il mio sesso quando esco per andare in fabbrica; il baule è il mio mondo, un piccolo mondo spoglio dove mangio, urlo, parlo con me stesso in totale solitudine: una coperta stropicciata, la voce di una donna, il sesso che mi si inarca. Ho ventisei anni e sto morendo di solitudine. [...] Le memorie si accavallano: un ulivo che aspetta, il passato e il presente le mietiture e i camion che portano via i sacchi, la straniera incontrata nella metro, la sua voce gutturale. Poi perdo la mia solitudine, perdo il mio baule, mi spostano in un caseggiato gabbia con centinaia di altri disperati. Quattro letti per stanza, un luogo dove la mia solitudine popolata delle mie poche cose, un pezzo di sapone, una corda da bucato, un pettine, ne incontra altre e insieme incontrano divieti: di farsi da mangiare in camera, di cantare, di sgozzare montoni, di masturbarsi e poi seguono divieti di ammalarsi, di rompere i vetri… e ancora e ancora. Solo una cosa non possono vietare: i ricordi! Il ricordo ad esempio di come si fa l’amore, anche se qui costa 50 franchi, il ricordo di corpi che si strusciano in preda a un bisogno frenetico, il ricordo del desiderio, quello che io svuoto in una donna di Barbés, a cui sento di dover scrivere una bellissima lettera. Ho ventisei anni e sto morendo di illusioni mentre il mio Paese, mi dicono, si dà ai turisti; ho ventisei anni e vivo di illusioni; passo il mio tempo da sveglio a cercare di fare piani contro la follia, a erigere barriere che il suicidio non possa superare…» (Tahar Ben Jelloun, da “Le pareti della solitudine”)
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«I corpi docili di noi detenuti. Decidono quando e quanto dobbiamo mangiare, quando e quanto dobbiamo dormire, quando e quanto dobbiamo parlare. Si chiama civiltà. Una pena senza dolore. No, senza spettacolo del dolore. Non ci vede nessuno. [...]
È così intima la violenza, non ha paura del corpo dell’altro, non ha paura del contatto tra i corpi. È intima la violenza, dice all’altro ti riconosco, dice esisti, questo è il tuo corpo. Lo posso toccare, lo posso annientare. E quella smorfia di dolore che fa Milena, lo sbigottimento di chi non se l’aspettava, la violenza può guardarli senza giudicare, finalmente la vittima non ne prova più vergogna. La violenza ristabilisce le regole, recupera uno schema, pulito, impeccabile. La ragazza potrebbe pisciarsi addosso e la donna non direbbe che schifo. E se la vittima vomitasse, il carnefice non si risentirebbe. La violenza concede di essere imperfetti, nella violenza torniamo tutti umani.» (Rosella Postorino, da “Il corpo docile”)
(A cura di Silvia Rosa)