GIUSEPPE PRIALE
Piero Cosa fu un partigiano coraggioso sulle Alpi con le sue formazioni sempre compatte negli obbiettivi da raggiungere, quanto Johnny lo fu sulle Langhe con sparuti gruppi di partigiani due volte “sbandati”, privi di una strategia generale unitaria, indispensabile per qualsiasi tipo di lotta armata. Non fu, però, mai disperato come ad esempio il Biondo o scoraggiato come Johnny. Fu sostenuto sempre da una grande forza morale, alimentata soprattutto dalla Fede, convinto che Dio alla fine si sarebbe messo anche Lui a combattere dalla parte giusta, come quando guidò la mano del giovinetto Davide, armato solo di una fionda e di un sasso, nel duello contro il gigante Golia. Era un comandante che non mandava mai i suoi ragazzi allo sbaraglio contro il nemico. Sapeva usare l’astuzia, quando la forza e il coraggio non erano sufficienti per riuscire in un’impresa difficile. A tal proposito va ricordata la cosiddetta Battaglia di Pasqua del ’44, che per undici ore condusse in Alta Val Pesio con meno di duecento uomini, ma con grande abilità strategica e tattica, contro un nemico di gran lunga superiore per uomini e mezzi, affrontato lontano da luoghi abitati, per non coinvolgere i civili e i loro beni e per evitare un’altra rappresaglia come quella di Boves. In quell’occasione, ritenuta improponibile la lotta ad oltranza, ma avendo sconvolto i piani operativi studiati a lungo dai “maestri” della guerra per annientare la Resistenza nelle Valli del Monregalese, il comandante Cosa, ad un certo punto, diede ordine ai suoi uomini di ritirarsi e poi disperdersi separatamente verso la pianura, vanificando in tal modo il piano messo in atto per annientare, con un rastrellamento a vasto raggio, la sua Banda, sempre pronta però a ricostituirsi integralmente, secondo i tempi e i modi da lui stabiliti in precedenza. Amava i suoi ragazzi come sa amare i suoi figli un buon padre. Sapeva anche essere severo con quelli un po’ scapestrati, meritevoli magari di qualche scapaccione o di una pedatina correttiva al “fondo del sacco” (data forse solo con lo scopo di ridurre la distanza tra superiore e inferiore), quando lo ius corrigendi del buon padre di famiglia era ancora in auge. “Malgrado quella sua apparente aria burbera e severa, riusciva ad accattivarsi la simpatia di tutti, perché era indiscutibilmente umano e giusto”, ha detto di lui Aldo Sacchetti, comandante della 3ª Divisione Alpi. Solo una volta, avendo dovuto abbandonare una posizione ormai diventata indifendibile, si permise un piccolo “colpo di teatro”, anche se era contrario per carattere ad atteggiamenti istrionici, lasciando un cartello con su scritto il beffardo monito “Tanto la guerra la perderete lo stesso”. Sapeva mettere in atto audaci colpi di mano, usando il fattore sorpresa e l’astuzia, come quando trafugò ai tedeschi sessanta fusti di benzina all’aeroporto di Mondovì, magari con la complicità della vigilanza “distratta” di mio zio Fedele, da poco rientrato al suo reparto dall’isola di Rodi conquistata dagli Alleati; come quando, con l’aiuto di altre bande, distrusse completamente il silurificio San Giorgio di Pistoia, appena traslocato a Beinette. Era un combattente leale. Non voleva le stragi per vendetta o ritorsione. Non fu mai assetato di sangue del nemico. Rispettava i prigionieri, non estorceva loro informazioni con sevizie e torture: li usava principalmente come “merce di scambio”. Ma se nei continui spostamenti erano d’impaccio, preferiva liberarli. Una volta arrivò persino a proibire ai suoi uomini di sparare su una colonna della Guardia Nazionale, che incautamente saliva per una stretta gola (una delle tante che sfociano sul Pian delle Gorre, che sarebbe più giusto etimologicamente e orograficamente chiamare Pian delle Gole), tenuta sotto controllo da entrambi i versanti dalle mitragliatrici dei suoi ragazzi, intimando a gran voce ai giovani militi, terrorizzati e stupefatti, di ritornare indietro, se non volevano essere annientati. Sicuramente in quel momento avrà pensato che anch’essi erano figli di mamma. Avrà pensato che quei ragazzi, essendosi trovati ad un bivio della vita, avevano preso la strada sbagliata, per cui non dovevano essere annientati con tanta facilità, senza il minimo scrupolo. Soprattutto non voleva spargere sangue italiano con una strage cosi “a buon mercato”. Faceva la guerra per dovere morale, non per odio contro il nemico. Infatti, definiva la guerra “la medaglia della sconfitta umana”.
Se in altre formazioni le spie o presunte tali, potevano finire facilmente al muro o in una foiba dopo aver subito, magari, ignobili trattamenti e senza un regolare processo, nelle formazioni di Piero Cosa non risulta che queste cose siano successe, dal momento che funzionava un tribunale partigiano, presieduto dall’amico fraterno avv. Dino Giacosa, “noto nella storia della Resistenza piemontese come giudice coscienzioso e di estrema rettitudine”, come ebbe a dire don Aldo Benevelli durante il Convegno. A questo proposito voglio ricordare una scena a cui io, bambino di quattro anni, ho assistito in compagnia di mio padre dentro l’osteria Tripoli di Prea. Alcuni partigiani attorniavano una ragazza bruna che urlava e piangeva disperata, strattonata per i capelli e con una pistola puntata alla tempia, tanto da richiamare il Capo della Brigata Vall’Ellero dalla sede posta a due passi dall’osteria. Ricordo nitidamente l’ordine perentorio rivolto dal Capo al partigiano che puntava la pistola: “Partigiano Poma, metta giù quell’arma”. La ragazza, sospettata di essere una spia per il semplice fatto che era la morosa di un milite della Guardia Nazionale di stanza a Roccaforte, fu immediatamente liberata. Dopo la guerra si sposò con quel milite, accanto al quale ora riposa nel cimitero di Prea. Peccato che io non venni mai a sapere il nome di quel Capo, che con quel gesto fece vincere la giustizia e permise alla pietà, uno dei sette doni dello Spirito Santo, di riportare una bella vittoria sull’odio, uno dei peggiori doni del Maligno. Non venni mai a sapere se quel Capo fosse Piero Cosa o un altro che aveva recepito l’etica della sua scuola partigiana. Così pure non venni mai a saper quale santo (partigiano) sia intervenuto, al posto di blocco dei partigiani, a togliere dal muro mio zio Fedele, che incautamente in divisa di militare dell’Aviazione era andato a recuperare, dalla parrocchiale di Miroglio, la salma di mio padre, ucciso sulla montagna dei Bergamini durante il massiccio rastrellamento effettuato nelle Valli del Monregalese nel dicembre del ’44. Anche quella notte vinse la pietà di qualcuno di cui lo zio non ha mai saputo il nome, ma ricordava molto bene il volto del partigiano inferocito che lo voleva fucilare lì su due piedi e con il quale alcuni anni dopo, incontratolo a Mondovì in un sabato di mercato, per poco non venne pesantemente alle mani.
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Il comandante Cosa (senza voler fare paragoni con il Giulio Cesare auto celebrativo del suo De Bello Gallico) era sempre il primo ad entrare in combattimento, il primo ad esporsi al pericolo, l’ultimo a ritirarsi, l’ultimo a dissetarsi ad una fonte dopo una estenuante marcia e a prendere il cibo, che non era mai abbondante e certe volte mancava del tutto. Per questo era molto amato dai suoi ragazzi della Resistenza, come altrettanto fu amato dai soldati della sua compagnia durante la Campagna d’Albania. Era amato e stimato anche da tutta la gente che lo conosceva, specie da quella della sua Valle Pesio, che non gli fece mai mancare aiuti e protezione. Quando era costretto a requisire qualche animale per dar da mangiare ai suoi uomini, se disponeva di denaro, arrivava a pagarli anche il doppio del valore, perché non voleva passare per un “partigiano ruba-galline”, come spesso nel dopoguerra, neanche tanto per celia, veniva qualificato qualche partigiano. Il furto per necessità era ancora per lui un’appropriazione indebita. Preferiva mendicare, piuttosto che rubare. Infatti, una volta cacciò dalle sue file un giovane che, per arrivare in tempo al reparto, aveva “requisito” la bicicletta ad un cantoniere che lavorava lungo la strada. Non esitava ad allontanare, senza tanti complimenti, sedicenti comandanti mandati dall’alto a sostituirlo, oppure certi commissari venuti nelle sue formazioni a carpire la buona fede dei suoi ragazzi facendo politica, convinto, com’era, che essa portava solo alla divisione tra le forze in campo e quindi all’indebolimento della Resistenza, allo stesso modo in cui oggi si assiste all’indebolimento della Giustizia, da quando la Magistratura, specie quella di alto livello, è stata investita dalla mala-aria delle correnti politiche, in cui certi giudici sono arrivati a “spararsi” tra loro a colpi di chat infamanti e di sentenze ignobili, a tendersi agguati con raffiche di dossier creati ad arte per far carriera a scapito di altri più onesti o più “autonomi”. Così è finita l’indipendenza e la separazione dei tre poteri dello stato democratico (legislativo, esecutivo e giudiziario) con buona pace di Messieur de Tocqueville che lo aveva già teorizzato a metà dell’800. Oggi la bilancia della Giustizia sembra sempre più a quella truccata del celtico Brenno (e poi ancora falsata con il peso della sua spada) usata per pesare l’oro che Roma nel 390 a.C. gli doveva per il suo riscatto. Ancor oggi Roma continua a pagare il prezzo della mala giustizia dovuta principalmente alla commistione tra i tre poteri, anche se la giustizia perfetta non può essere di questo mondo. Da allora altri Brenno sono calati sulla Città Eterna per esercitare il mal governo e con l’unico scopo di depredarla. Per Piero Cosa occorreva, quindi, prima di tutto la massima coesione per portare vittoriosamente a termine la lotta contro il Nazifascismo. Solo in seguito, con il confronto politico tra i partiti, si sarebbe ristabilita nelle istituzioni la democrazia, la più bella forma di governo, ma anche la più fragile, se trattata con poco rispetto. Se poi nasce già debole di Costituzione come la nostra, può diventare, senza “cani da guardia”, facile preda dei “poppatori” del potere in continua lotta fra di loro, desiderosi solo di sostituirsi ai due litigiosi Gemelli Romani, attaccati famelici alle poppe di Mamma Roma, una Lupa ormai ridotta in uno stato da far pena. Così, l’emblema di Roma antica può essere preso, fuori dal mito e a più forte ragione, anche per la Roma odierna.
Piero Cosa, che durante la Resistenza aveva creduto nella Rinascita e nel Rinnovamento dell’Italia, rimase deluso dai risultati, ben lontani da quelli da lui sperati. Preferì, allora, nell’immediato dopoguerra vivere nell’ombra e poi esiliarsi in terre lontane. Preferì stare lontano dalle celebrazioni, specialmente dalle autocelebrazioni di sedicenti partigiani dell’ultima ora. Preferì non partecipare alle lotte per il potere e per la conquista di un posto di prestigio, magari mendicato alla porta di un partito o di un politico. Profondamente religioso, nelle sue formazioni accolse volentieri anche tre giovani “partigiani di Cristo”, due già consacrati dal crisma sacerdotale e uno che lo sarà nel ‘48: don Pietro Servetti di Roccaforte, don Giuseppe Bruno di Frabosa Sottana e il ventenne, di Azione Cattolica, Aldo Benevelli di Monforte d’Alba, promotore con lui e Dino Giacosa del Servizio X, il servizio segreto delle sue Formazioni “R”.
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Don Bruno nel luglio del ’44 ebbe l’idea di stampare clandestinamente un foglio d’informazione per i patrioti del Cuneese con il titolo di Rinascita d’Italia, utilizzando una piccola e vecchia macchina tipografica (chiamata scherzosamente La pedalina, benché fosse azionata a manovella), che dal Borgato di Mondovì aveva trasportato per sicurezza presso il Santuario di Santa Lucia di Villanova, dove il giovane prete “ufficialmente” teneva corsi di Esercizi Spirituali, in realtà per stampare quel foglio che aveva lo scopo di diffondere, tra i combattenti per la Libertà, l’idea di unità tra le formazioni partigiane e del rinnovamento dell’Italia, a sostegno di quanto Piero Cosa voleva conseguire con le sue Formazioni “R” all’interno della 3ª e 5ª Divisione Alpi. La pedalina, anche senza pedali, divenne itinerante per motivi sempre di sicurezza. Soggiornò a Rastello di Roccaforte, salì a dorso di mulo fin sulla Tura e sistemata nel Rifugio Mettolo Castellino, dato in seguito alle fiamme dai tedeschi insieme a tutti i rifugi e le baite delle Alte Valli Monregalesi durante il massiccio rastrellamento del dicembre del ’44. Discesa al piano per svernare a Lurisia presso il Comando della 3ª Divisione Alpi, con il cambio di proprietà si lasciò, suo malgrado, “politicizzare” e coinvolgere in polemiche lontane dalla linea data da don Bruno e condivisa da Piero Cosa. Finì la sua eroica attività resistenziale dentro una fossa scavata ai piedi del Morté (una montagnola, dal nome infausto, fra Lurisia e Chiusa Pesio), per non cadere in mano dei tedeschi. Chissà se la piccola e vecchia stampatrice è ancora in quella fossa, divorata dai vermi della ruggine. Chissà se sarà stata riesumata e, ripulita per bene, degnamente sistemata in qualche museo della Resistenza per ricordare il suo glorioso passato, ma anche il bel sogno, ben presto svanito, di far rinascere e rinnovare il nostro Paese. Chissà se, invece, sarà finita in un oscuro scantinato, ricoperta da un triste velo di ragnatele e dimenticata da tutti, come molti sono finiti dopo la Resistenza. Oramai La pedalina non “pedala” più per arrivare alla Rinascita d’Italia: quelli che ci hanno provato, hanno fallito. Ma noi continuiamo a sperare, ad aspettare che almeno arrivino tempi migliori, se mai arriveranno. Ciononostante, ogni fine anno, ci auguriamo a vicenda che l’anno nuovo sia migliore di quello passato, sempre in attesa di qualcosa o di qualcuno che venga a farci star meglio. Intanto il tempo passa inesorabile e ci consuma nel corpo e nella mente. Fortunato chi spera o crede nell’Aldilà. Infelice chi aspetta con angoscia quel Nulla Eterno concepito da un certo poeta che aveva una visione piuttosto fosca della vita presente e nessuna speranza per quella futura.
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Finita la Resistenza, Piero Cosa non passò subito alla cassa a riscuotere la meritata “paga”, come fecero tanti. La sua prima preoccupazione fu quella di far costruire nel 1946 nei pressi della Certosa, da cui era partita la sua avventura resistenziale, un cimitero-mausoleo per dare degna sepoltura a 239 partigiani delle sue Formazioni “R”, le cui salme non erano state recuperate dalle rispettive famiglie. Voleva tramandare il loro ricordo in modo durevole quanto la pietra usata per costruirlo e per esprimere imperitura riconoscenza per coloro che, nel momento della scelta, non sbagliarono strada, né scelsero la via comoda della neutralità o peggio dell’indifferenza, ma scelsero quella impervia della Libertà, la sola percorribile per arrivare alla Rinascita e il Rinnovamento del Paese.
La sua seconda preoccupazione fu quella di istituire un suo personale Ufficio di Assistenza Partigiana “Gruppo Cosa” per il disbrigo di pratiche concernenti caduti, mutilati, orfani e vedove, per trovare un lavoro, un impiego per coloro che, per il bene comune, avevano messo a repentaglio la vita, avevano sopportato difficoltà e sofferenze, subìto ferite e amputazioni anche per coloro che erano stati a guardare dalla finestra o dalla griglia di un tombino o dall’estero. Prima di pensare a sé stesso, in guerra e in pace, pensava sempre agli altri: prima ai suoi soldati, in seguito ai suoi partigiani, considerati e trattati come se fossero suoi figli, a volte anche severamente, ma sempre con giustizia e con amore paterno. Durante la guerra e poi nella Resistenza si sentì sempre responsabile della loro sorte. Evitava, perciò, le azioni belliche sconsiderate o temerarie dall’esito incerto. Preferiva consegnare alle mamme o alle mogli figli e mariti vivi, invece di medaglie al valore non più appuntabili al petto. Era amato dai suoi partigiani, anche se avevano ricevuto una rampogna o magari un sacrosanto scapaccione. La sua autorità non gli veniva dal grado di capitano, che non esibiva, ma dalla sua autorevole modestia, già rivelata dal suo stesso nome di battaglia Bastiàn, che sa più di terra nostra che di guerra, per nulla aggressivo come ad esempio Lupo, Falco, Ercole ecc., forse passati alla storia con meno meriti o per essere stati partigiani solo di nome.
(Continua)
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