GABRIELLA MONGARDI (a cura di)
“La vera poesia si annuncia attraverso il fatto che, come un vangelo universale, grazie alla serenità interiore e alla grazia esteriore sa liberarci dai pesi terreni che ci opprimono. Come un pallone aerostatico, ci solleva in regioni più alte con la zavorra che è appesa a noi, e ci permette di scorgere in prospettiva da uccello i tortuosi, confusi sentieri della Terra dispiegati davanti a noi”[1]
La poesia come una mongolfiera che sale? Si sarebbe tentati di liquidarla come una similitudine a misura di bambini, eccentrici e sognatori, se non si tenesse presente quale straordinario significato ebbe il volo in mongolfiera al tempo di Goethe: era il simbolo dell’ingegno umano che con l’aiuto della scienza supera il palese limite imposto dalla Natura, e salendo ad altezza crescente dimostra anche quanto audace può essere il singolo se lascia sotto di sé la sua paura creaturale, confidando nelle proprie capacità e nella solidità dell’impresa[2].
Goethe non si pone al di fuori del suo tempo e del suo mondo per chiarire di che cosa è fatta la poesia, ma si collega ad un evento sensazionale (sia sul piano simbolico, che scientifico e sociale) della sua epoca: l’ascensione in pallone! La domanda di fondo è: che ne sarà della poesia nell’era dei nuovi apparecchi con cui ci si può innalzare nell’aria? Alla base di questa domanda sta l’ipotesi che lo sviluppo tecnico che ha prodotto gli Zeppelin e i velivoli abbia cambiato anche la concezione di ciò che è bello e sublime.
Ma osserviamo più da vicino la risposta di Goethe, ossia la sua immagine dell’elevazione.
La poesia viene chiamata un “vangelo universale”. A quale tipo di universalità si debba pensare, risulta evidente proprio nella signoria sulle leggi naturali indicata dalla salita in pallone. E c’è altro, se si segue la direzione dello sguardo. Il distacco dalla Terra non avviene per essere più vicino all’Oltre, con gli occhi aperti verso il cielo, ma per capire meglio il Qui con tutti i suoi grovigli. L’ascensione profana serve all’Illuminismo.
La poesia, così continua la similitudine, ci libera dagli opprimenti pesi terreni. Se non si aggiungesse nient’altro, la si dovrebbe considerare una droga con cui si sfugge al peso della vita. Ma la zavorra non viene dimenticata. Proprio questo è il bello della poesia – dice il paragone – cioè che ci innalza insieme a ciò che è appeso a noi. Il bilanciamento delle forze caratterizza l’atteggiamento di Goethe: il residuo terrestre trascinato con sé nel salire impedisce che il tutto finisca nell’etereo e nell’inumano.
Allo stesso tempo, si disegna anche un’immagine di colui che ha portato all’elevazione poetica, il poeta, come anche quella di colui che si lascia sollevare insieme al poeta, il lettore. Le due figure non sono qui separate l’una dall’altra. Bisogna piuttosto pensare ad un soggetto superiore, che tiene in pugno senza timore la sua impresa, che non ha riguardo a distinguersi dalla massa per rivolgersi a più alte istanze, che vuole lui stesso raggiungere una visione d’insieme dello stato del mondo. Questo soggetto è il Cittadino, innalzato al suo modello ideale[3].
[1] J. W. GOETHE, Autobiographische Schriften, Berliner Ausgabe Bd 13, s.624
[2] Goethe per la precisione parla di pallone aerostatico e non di mongolfiera. Questa era un apparecchio che poteva risvegliare sì il piacere di guardare, ma alla lunga non la curiosità scientifica. L’espressione “pallone aerostatico” include anche i tentativi del concorrente dei fratelli Montgolfier, il Professor Charles, che sperimentava il pallone a idrogeno.
[3] liberamente tratto da: MICHAEL M. SCHARDT, HILTRUD STEFFEN edd., Über Paul Scheerbart II, Igel Verlag, Paderborn 1996
(foto Piergiorgia Oderda: Mondovì Piazza vista dalla mongolfiera)
pubblicato originariamente il 5 gennaio 2014