JESSY SIMONINI
Senza guardare mi tocchi il braccio
poi stringi la pelle fino al male
poco importa se domani ci sarà un livido
oggi delle tre cose che mi hai insegnato
trattengo solo la più obliqua.
Forse ci può rallegrare
il buon odore casalingo di spigo
e lavanda dei paesetti toscani
mentre guido da La Verna a Marradi
per due ore parli la lingua di altri decenni
l’autonomia e il Sessantotto e il Settantasette
l’amore nel campeggio dell’Arcigay a Isola
i viaggi da sola verso Messina
gli altri amori senza fine per quello sbagliato,
l’ubriaco, il sadico, il borghese
il social-traditore.
Ora non ti resta che predisporre il materiale
tutto il necessario per estrarre la fune
e mi aiuti a rintracciare i luoghi
la sala scura, il tavolo di legno, le bacinelle piene d’acqua
dici ferri da calza
oggetti per cucire
vasi trasparenti.
Piangi e ripeti che
l’italiano è strano e ladro
mammana designa
chi dà la vita ma anche chi la toglie.
Vorrei ritrovare una traccia organica
i tessuti che qualcuno ha spinto in fondo alla terra
dove inizia la falda
perché la sola vera memoria è quella materiale
perché il ricordo di un corpo rotto
immenso e sovversivo
può ancora rovesciare il male.
*
2008. gli insulti di ogni mattina sull’autobus non sono che vili alalà.
Che io debba soffrire, molto presto
al mattino, sta scritto in tanti libri:
rileggo gli insulti, ad uno ad uno,
non risuonano, non feriscono più.
Cerca di capire che l’insulto
è una parola fredda, montuosa
non ci investe in viso
somiglia a una madrepora
è oggetto di studi geologici:
una parola vertiginosa, scrive Genet,
venuta dal fondo degli anni
non esecrarla, non dubitare
della sua calibratura, stringila al petto
poi sputala fuori ma non considerare
l’insulto come una qualsiasi altra
forma di violenza.
Da anni ho un metodo infallibile
per asciugare gli insulti, metto in pratica
un’affilata teoria medievale: dice Occam
che il rasoio elimina il superfluo
come Occam metto tutto lì da parte
stringo forte al petto
solo quello che mi serve.
*
Territori perduti della Repubblica
La differenza è sempre e solo
fra i nostri morti e i loro:
perché i nostri sono stati uccisi da loro.
In questo giovedì di maggio
non si incrosta alle pareti
la sintassi dell’armistizio
la voce stentorea di Diaz
appesa a tutte le lapidi
bollettini celebrazioni rimembranze.
Resistono lapidi improvvisate
sfaldati i bordi e gli accenti fuori posto,
nomi piccoli sottratti alla litania
della storia ufficiale
compagni e compagne di monda
di scuola di lotta.
Nella notte qualcuno ha deturpato la lapide
quella dei morti in trincea
e ha stabilito un’altra memoria:
in quel gesto mimetico
c’è un senso di sconfitta
ma anche un respiro finalmente vivo e grande.
Per oggi la lapide in rosso
è la mia zona da difendere,
prima che il potere ancora e ancora la cancelli
in questa pace dove il decoro
è la sola poetica possibile
perché i nostri morti non sono non saranno
mai e poi mai uguali ai loro:
per adesso l’unico potere che ci deve interessare
è solamente quello di deturpare.
Jessy Simonini, Campi di Battaglia, Sensibili alle foglie 2021
Dalla prefazione di Pina Piccolo:
È sulla individuazione dei campi di battaglia su cui mettere a fuoco la sua poesia che spesso si interroga Jessy Simonini: “Scegliamo un campo di battaglia uno fra i tanti in questo enorme spalancato atlante di un mondo terribile…” compiendo la scelta, sembrerebbe a prima vista, di allontanarlo dall’intimità dell’esperienza personale e propendendo come poeta per un campo di battaglia legato “(…) a un dolore anche invisibile, ma che sia sempre e comunque il dolore degli altri perché è solo il dolore degli altri che merita di essere trascritto”.
La raccolta si configura come un appassionato excursus in cronotopi che potrebbero apparire distanti tra di loro, si alterna tra lirica e prosa, spesso fondendo in maniera originale generi letterari, episodi storici, politica, cronaca, filologia, economia, letteratura, gender studies, linguistica, biografia, con gallerie di eretiche ed eretici degli ultimi ottanta anni della storia e politica italiana, correnti politiche sconfitte, lapidi discutibili, voci silenziate. Questo mondo del ‘dolore altrui’ è contiguo, sin dall’inizio, a quello sofferto dai personaggi protagonisti della storia della famiglia dell’Autore, e non è raro che la sua stessa esperienza di vita venga registrata, come attante nel campo di battaglia (interessante l’ultimo ‘scatto’ poetico che registra il suo primo incontro con i lacrimogeni nel 2006 a Oaxaca, in Messico).
Con una certa propensione all’andamento tipico della metonimia che si sposta per contiguità, la raccolta gioca con i generi letterari, s’intrufola tra le pieghe della politica, dei periodi storici, dei generi e del gender per interrogare quelle che sono state le narrazioni vincenti del canone e proporre visioni e agire di rottura: “Vogliamo una poesia che sia viva e forte, e che parli di loro. Della vita di chi ruba fra gli scaffali, della giornata di una cassiera o di un magazziniere, di chi chiede l’elemosina all’uscita”.
Sono convinta che per orientarsi davvero in questa raccolta, forse, più che di cartine fisiche e politiche, bisognerebbe munirsi di tutta serie di cartine orografiche al rovescio, sotterranee, che segnalino i fiumi carsici, le falde, il greto secco di torrenti fantasma che s’ingrossano d’un tratto, le pozze, i baratri e gli sprofondamenti in cui si raccolgono quelle acque che si manifestano, alcuni direbbero, all’improvviso per dare potenza alla rivolta (“Vorrei ritrovare una traccia organica / i tessuti che qualcuno ha spinto in fondo alla terra / dove inizia la falda // perché la sola vera memoria è quella materiale / perché il ricordo di un corpo / può rovesciare il male / il ricordo del dolore di un corpo, il tuo / così rotto immenso sovversivo / oggi è il solo che per me / possa davvero contare”).
Jessy Simonini (1994) è nato in provincia di Bologna. Dopo gli studi in letteratura medievale all’ENS di Parigi, attualmente è ricercatore e insegnante di letteratura francese presso l’Università di Nantes. È direttore responsabile della rivista di poesia Le Voci della Luna.