FULVIA GIACOSA
Non si contano quasi più i pezzi della storia artistica perduti in questi ultimi due anni: non solo artisti come Christo, J. Baldessari ed ora Christian Boltanski, ma anche grandi storici e critici dell’arte contemporanea: G. Celant, P. Daverio, L. Vergine, L. Vinca Masini, A. Schwarz, M. Calvesi, B. Rose, per citare solo i più noti.
Boltanski, che ha iniziato a dipingere a inizio anni Sessanta senza avere una vera formazione artistica nel senso tradizionale del termine, ha spaziato tra installazioni ambientali, fotografia (spesso consunte e sfocate), cinema, scrittura ed è stato un originale del Concettualismo secondo-novecentesco con una predilezione per la “processualità” che sposta l’accento sul processo anziché sull’esito -oggettuale- dell’operazione artistica.
Nato nel 1944 a Parigi subito dopo la liberazione della città, figlio di un medico ucraino d’origine ebraica e di una scrittrice corsa e cattolica sfuggiti ai nazisti, con un fratello, Luc, sociologo ed una moglie artista, Annette Messager, fin da piccolissimo aveva ascoltato i racconti degli scampati ai lager che lo porteranno a lavorare sui temi della memoria privata e collettiva, della dimenticanza e della morte che incarna in “memoriali” di persone anonime scomparse, come nel caso di Riserva degli svizzeri morti del 1989, tema ripreso nel 1991-‘93. I ricordi infantili sono raccolti nel libro d’artista del 1969, Research and Representation of All That Remains of My Childhood, 1944-1950. Dice: “Il mio è un trauma storico. Sono nato nel 1944 e sin da piccolo ho ascoltato direttamente dai miei genitori il racconto dei sopravvissuti all’Olocausto. Questo ha avuto una forte influenza su di me, anche se nelle mie opere non faccio mai un riferimento diretto alla Shoah”. Poiché “ognuno è unico ma destinato a sparire velocemente”, molti suoi lavori sono inventari fotografici di defunti, spesso accompagnati da oggetti che “hanno tenuto compagnia a una persona per tutta la vita e che dopo la sua morte recano testimonianza della sua esistenza”: ad essi l’artista restituisce quella presenza che la dimenticanza nega loro. Si veda ad esempio la serie “Les inventeires” del 1973 presentata alla Kunsthalle di Baden Baden. “Riserva degli svizzeri morti”, in più versioni di volta in volta adattati allo spazio espositivo, sono scaffalature illuminate dall’alto contenenti ritratti fotografici presi dai necrologi di giornali locali e ri-fotografati, privi di testo cosicché non svelano nulla degli individui cui si riferiscono. Quello che si vede, al di là del sotteso riferimento ai crematori dei lager, è una riflessione sulla memoria universale di “qualcuno, non importa sapere di chi”. Come per molti artisti contemporanei l’arte di Boltanski è arte dell’assenza, narra di persone e di storie destinate a svanire: “Il mio lavoro si concentra su ciascun essere vivente e sulla sua scomparsa”. Al fondo di tutta la sua opera sta l’idea che nonostante la società di massa abbia annullato le individualità, in definitiva sono queste che contano. Dagli anni ’70 è sempre più il proprio passato a costituire l’elemento centrale, una “mitologia individuale” come l’ha definita: infatti egli riunisce oggetti trovati che costituiscono una biografia, in parte fittizia in parte vera, della quale non restano che tracce banali. Verso la fine degli anni ’80 utilizza soprattutto abiti come testimonianza quasi fantasmatica di tracce di individui anonimi defunti. Toccante, con più palese riferimento alla Shoah, è l’installazione del 2010 al Grand Palais di Parigi “Personnes“, termine ambiguo (lett. “persone” ma anche “nessuno” nelle frasi negative): all’ingresso una barriera di scatoloni di latta numerati e impilati; oltre tale muro, sul pavimento della grande sala sono sistemati in tre file abiti usati tra pali metallici e luci al neon simili a quelli dei campi di concentramento; sul fondo un gigantesco mucchio di abiti (alto c. 20 metri) alla cima del quale un braccio meccanico preleva – a caso, come affidata al caso erano vita e morte degli internati – alcuni capi che poi fa ricadere nel cumulo. L’ambiente è attentamente studiato per una partecipazione commossa di chi vi entra: spento il riscaldamento della location, si ha una sensazione di gelo come nei lager o nei cimiteri mentre risuonano, registrati, i battiti dei cuori di migliaia di persone. La scelta di povere cose, la moltiplicazione e l’accumulo coincidono con la dimensione dello sterminio. Qui il tempo storico diventa il tempo fulmineo della verità che scuote il presente: ed è proprio la dialettica tra passato e presente che sorregge tutto il lavoro di Boltanski. È chiaro che si tratta di opere che non possono essere descritte né viste in riproduzione fotografica, occorre essere lì, in presenza, condizione necessaria perché esse diventino “vive”. Dice Boltanski: “È importante fare opere che siano specchi per chi guarda. … Non amo le reliquie. Mi piace lasciare un sapere, non un oggetto. … Per me i vestiti usati, le registrazioni dei battiti cardiaci, le immagini fotografiche sono tracce di identità perdute, oggetti di cui il soggetto è scomparso. Tutti possono condividere l’esperienza di vedere la sua presenza in assenza”.
Tra gli ultimi grandi lavori ricordo quello per il “Museo per la memoria di Ustica” a Bologna (2007) dove sono conservati i resti del DC9 abbattuto nel 1980, una delle rare opere permanenti dell’artista: Boltanski ne ricorda le vittime sia visivamente – le luci sul soffitto si accendono e si spengono al ritmo del respiro – sia acusticamente – 81 autoparlanti (81, come le vittime) diffondono frasi che indicano la tragicità dell’avvenimento – , mentre agli oggetti (nove casse nere chiuse e poste a pavimento che contengono oggetti personali dei passeggeri) è affidato il senso della scomparsa delle vittime; infine una serie di specchi riflette i visitatori rendendoli partecipi al ricordo.
L’ultima impresa, Storage Memory, iniziata nel 2012, torna ad essere fortemente autobiografica. L’artista utilizza questa volta una serie di brevissimi video e Internet ove possono essere acquistati per pochi euro. Dopo aver nascosto se stesso nelle pieghe della storia collettiva oggettivata in immagini e oggetti residuali, ora tutto si fa immateriale come il tempo: nessuna “opera”, nessun luogo d’esposizione, solo un intimo rapporto diretto tra l’artista e il fruitore.
“Tutto il mio lavoro è un fallimento perché è stato una lotta contro la dimenticanza; la grande memoria e la piccola memoria: la piccola memoria è la conoscenza che ognuno ha della propria vita… è una storia, un sentimento. Ho provato a conservarla per ogni persona ma non è possibile: ho conservato i battiti del mio cuore, ho raccolto i battiti del cuore di migliaia di persone e li conservo in un’isola del Giappone. Ma non serve a niente: tutto questo non basta a far sopravvivere la persona”.
Eppure Boltanski è lì, Derrière la porte, come il titolo di un suo film del 1970 con il sottotitolo Tout ce dont je me souviens.