GABRIELLA MONGARDI
Tutto ha inizio da un concerto del Festival dei Saraceni 2021 – anno dantesco, come tutti sanno – che aveva come titolo un verso di Dante “…. la dolcezza ancor dentro mi suona”, e come sottotitolo: “Le sonate a due violini di Antonio Vivaldi”, eseguite su strumenti originali dall’ensemble L’archicembalo.
Le sonate da camera sono in realtà delle suite di danze molto “bachiane”: le due in re (maggiore e minore; RV 62 e 64) sono aperte da un preludio lento, in cui le frasi musicali si susseguono con pacatezza, intrecciandosi come in una catena inglese; propongono poi due danze “allegre”, la corrente e la giga o l’allemanda, separate di nuovo da un tempo lento, “adagio” o “grave”. Nella sonata in mi minore RV 67, sempre in quattro movimenti, il tempo lento iniziale è seguito da tre “allegri”: corrente, giga e gavotta; la sonata in mi bemolle maggiore RV 78 è composta da tre soli movimenti: l’adagio del preludio, l’allegro dell’allemanda e il presto della gavotta finale.
Il dialogo ammiccante tra i violini è sostenuto dal tessuto armonico del basso continuo di violoncello e clavicembalo, a cui il violone aggiunge profondità e spessore: è un Vivaldi meno noto, questo delle sonate, più intimo e, appunto, dolce.
Ma cosa significa “dolce”, “dolcezza” riferito alla musica – e alla poesia? Interroghiamo Dante e la terzina da cui è stato tratto il titolo del concerto:
«Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente
che la dolcezza ancor dentro mi suona». (Pg II, vv.112-114)
Siamo sulla spiaggia del purgatorio, dove approdano le anime dei morti non condannati all’inferno, e tra queste Dante riconosce l’amico di gioventù Casella.
Non abbiamo dati storici su di lui, se non quelli che ci fornisce lo stesso Dante, presentandocelo come musico dei versi amorosi dei poeti duecenteschi: l’amicizia tra di loro si nutriva della collaborazione artistica tra poesia e musica. Se è vero che l’incontro con Casella rientra in un ampio e coerente progetto di recupero della giovinezza dantesca, e in particolare delle esperienze letterarie che la segnarono, ciò che vorrei fare qui è “leggere tra le righe”, per aprire uno spiraglio su un Dante insolito.
Quello che Casella intona è il primo verso della seconda canzone del Convivio, il trattato filosofico in cui Dante riprende sue liriche precedenti reinterpretandole allegoricamente. Nel caso specifico, questa canzone canta le lodi della donna amata dichiarando l’impossibilità di trovare parole adeguate a celebrarla, perché lo suo parlar sì dolcemente sona (v.3) che il poeta si riconosce incapace di riferire ciò che ha udito: il rapimento d’amore fa confondere e smarrire la mente – rimane solo la sensazione inebriante di “dolcezza”, tanto nella canzone del Convivio quanto nei versi del Purgatorio che la citano.
Non importa se questa canzone fosse già stata musicata da Casella in vita, come sostiene la maggior parte dei commentatori antichi, o se Dante abbia “inventato” questa situazione apposta: in ogni caso, evidentemente a Dante non dispiaceva che i suoi versi fossero messi in musica e venissero cantati: ne è prova l’iterazione del semema “dolce”, nell’avverbio e nel sostantivo, unitamente al passaggio dei tempi verbali dal passato del personaggio (“cominciò”) al presente dell’autore (“suona”). Insomma, Dante non si può forse definire un “cantautore”, ma un “paroliere” certamente sì, consapevole com’era dello straordinario potere della musica e del canto.
Lo afferma lui stesso nelle terzine precedenti a quella citata, in cui prega l’amico di dargli, con la sua musica, un po’ di conforto dopo gli affanni del viaggio nell’Inferno, e gli chiede di cantare di nuovo per lui come faceva in vita, quando le canzoni d’amore di Casella placavano tutte le pene di Dante:
«… Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!» (Pg II, vv.106-111)
E nel Convivio (II, XIII, 24) scrive: «La musica trae a sé gli spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì e l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono».
Dunque la musica agisce sull’anima: consola, placa gli affanni, fa dimenticare tutto; in più, nel canto, la musica arricchisce le parole, le dilata, ne supera i limiti e in qualche modo riesce a esprimere ciò che esse non dicono aggiungendovi appunto la sua “dolcezza”, che attraverso l’orecchio scende fino al cuore.
Del resto, a che altro servivano, in origine, i metri e i versi della poesia – greca, latina, provenzale – se non a offrire il testo alla musica? E perché, agli albori della letteratura europea, le prime forme poetiche si chiamavano “canzoni”? Anche se le melodie degli antichi trovatori provenzali sono andate perdute e la parola ha divorziato dalla musica, la poesia è figlia e ancella della musica e della sua dolcezza – e Dante, poeta e teorico del “dolce stil novo”, lo sapeva benissimo. Purtroppo, la musica che Casella ha intonato per i suoi versi non ci è rimasta (la “scrittura” della musica è invenzione ben più recente della scrittura delle parole), ma almeno leggiamo ancora Amor che ne la mente mi ragiona, leggiamo ancora l’altissima poesia di Dante, settecento anni dopo la sua morte, e la dolcezza ancor dentro ci suona…