Idee pop per un viaggio alle origini

C. Sottocornola, Renga (ispirato alla copertina del cd Francesco Renga 2001)

C. Sottocornola, Renga (ispirato alla copertina del cd Francesco Renga 2001)

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Mentre scrivo queste note introduttive ai disegni di “Pop Ideas” ho ancora nella testa le note di  un Cd appena acquistato con 21 pezzi storici di Paul Anka, teen-idol anni ’50 e ’60 di origine libanese che spopolò in America ed Europa, ma un po’ in tutto il mondo. Quella voce calda, pastosa, potente, associata a un fisico robusto, da bravo ragazzo della provincia americana, regalava e regala ancora un senso di espansione, allegria, ingenuità, che fotografa perfettamente le grandi emozioni e aspettative di una generazione che allora si affacciava alla vita con la convinzione che forse ce l’avrebbe fatta, a riscattarne il senso e le speranze più riposte, nel segno di una bellezza che si annunciava come compito e come destino ineludibile.

A me poi, che ero bambino mentre ascoltavo Paul Anka alla radio intonare al Festival di Sanremo del 1964 “Ogni volta”, inno dell’emigrante,  in un improbabile ma calorosissimo italiano, quella voce, suggeritami anche dalla curiosità di mio padre, regalava  una sensazione di incontenibile gioia e aria di casa, che da allora ho sempre associato agli anni ’60 (ma forse un po’ anche ’50), e soprattutto alla mia infanzia (avevo cinque anni nel ’64) che, per quanto pensosa, era ancora lieta e serena. Ecco, considerato quanto, dal ’68 in poi, anche la colonna sonora del mondo attorno a me si andava problematizzando, parallelamente all’ingresso in  un’adolescenza che, per definizione, non può che essere meno felice dell’infanzia, quegli anni non potevano che cristallizzarsi in me come gli anni di una limbica ma felice condizione di attesa del meglio che, ovviamente, non sarebbe arrivato.

Capite perché, rispetto alla mia generazione, che si è nutrita di rock progressivo, cantautori e, al limitare degli anni ’80, di glam, disco-dance, house, punk e quant’altro, il mio struggimento, la nostalgia, il mythos fondativo, sono stati invece i primi anni ’60, Beatles e teen-idol in genere, lo yé-yé e, a ritroso, crooner e rock and roll, con qualche sconfinamento nella canzone francese (vedi Piaf) e affine (vedi Paoli). In età matura poi, il recupero si è spinto verso gli anni ’50 anche italiani, dalla canzone melodica al non sense, in una spinta regressiva che attraversa, in risalita, tutto il ‘900. Tale spinta à rebours poi, a me che ho sempre amato immergermi nell’attualità, si è radicalizzata a fronte dei processi di palese involuzione e degrado del pop contemporaneo (leggi trionfo del mercato, talent e intrattenimento televisivo in genere, musica liofilizzata ad usum smartphone, totale integrazione del rock e del suo sostituto, il rap,  nelle logiche di consumo, ecc.), spingendomi ad un approccio sempre più storico e dunque memoriale alla canzone, che per me sconfina, a differenza di altri storici del settore, nella contemplazione del mito.

Il grande mito dell’età della mia infanzia.

A fronte del declino di civiltà cui assistiamo, che non include purtroppo solo rock e affini, ma moltitudini e un intero assetto o paradigma esistenziale collettivo, il mio amore per il pop – come ovvia contrazione di popular – si è così sempre più configurato come una grande occasione regressiva, di full immersion nei paradisi della mia infanzia, alla ricerca di una antropologia alternativa, autentica e circense, marginale e sconfitta, rivoluzionaria e felice, che da allora io non ho più incontrato. La pubblicazione di “Varietà” (Marna, 2016), volume che raccoglie le mie interviste ai divi del pop realizzate fra il 1989 e il 1994, testimonia una felice circostanza che qui vale la pena di raccontare. In quegli anni infatti, per una serie di concause, mi incontrai con i divi della mia infanzia, dalla Pavone a Morandi, da Bobby Solo a Little Tony, dalle Gemelle Kessler a Iva Zanicchi, da Edoardo Vianello a Mal dei Primitives, e li sottoposi a una serie di interviste che avevano per me un forte significato emotivo e simbolico: dialogare col mito, non tanto di personaggi più o meno famosi, ma della mia infanzia, di un’età felice in un tempo felice o che aspettava la felicità… E quei dialoghi erano un po’ la testimonianza che il mito può diventare realtà, se si è sufficientemente testardi e incoscienti da impegnarsi perché ciò accada.

Analoga esperienza ho provato quando, nel 1975, vinsi una borsa di studio AFS che mi portò per un anno di studio e vita familiare in America, nel Connecticut. Anche lì il mito (l’America ambivalente, ma sognata dall’intera mia generazione come il luogo di tutti i possibili) si incontrava con la realtà della mia vita di adolescente italiano nato nel 1959. Come si può vedere, non potevo avere vissuto che per un breve flash gli anni ’50, ma ancora una volta, in una specie di inedito “ritorno al futuro”, mi ritrovai immerso in una realtà che, dalla nascente serie televisiva di “Happy Days” (che vidi in anteprima rispetto ai miei coetanei italiani), al trionfo dell’epica cinematografica di “American Graffiti” di George  Lucas (in cui rivedevo ancora una volta il mito della mia infanzia), dai vinili che mi regalavano di Elvis Presley, Eddie Cochran ed Everly Brothers alle villette allineate  (secondo i canoni dell’American dream) di South Windsor, piccola cittadina alle porte di Hartford, capitale del Connecticut, dove mi trovavo… tutto insomma mi trasportava dentro il sogno di un’età che avevo creduto perduta o irraggiungibile, e che mai avrei pensato di vivere sulla mia pelle, realmente e senza equivoci.

Altra intersezione fra mito e realtà è stata allora, a metà degli anni ’70, la familiarizzazione, al Guggenheim di New York, con la grande arte americana contemporanea, soprattutto la pop art di Warhol, Licthenstein, Rauschenberg e gli altri, ma anche il realismo di Hopper. Allora – mi dicevo – era possibile pensare e interpretare il mondo in un’altra maniera, allora c’erano altri che sentivano un po’ come me, allora il mio immaginario poteva nutrirsi e crescere, trovare amici, affinità, divertimento! Ero iscritto, in high school, anche a un corso di Basic Drawing, dove approfittai dell’esperienza per sbizzarrirmi un po’. Ma una cosa è certa: avevo capito che la grande arte era una full immersion nella vita, nel contemporaneo, nel rumore e nei suoni della strada. On the road…

Ecco, poi sono tornato in Italia, dove mi attendeva l’amore della mia famiglia. Ma, con la fine del “sogno americano”, finiva anche il “sogno della mia infanzia”.

Molto tempo è passato, e queste righe che scrivo a tarda sera, prima di coricarmi, con un tempo che è ormai quello delle “Autumn leaves”, sia biograficamente che epocalmente, sono pensate, come si accennava all’inizio, per un fine pratico e immediato: presentare i disegni, che preferirei chiamare ideas per una volontaria assenza di elaborazione grafico-concettuale, che ho raccolto nella serie “Pop Ideas”. Nel corso di un paio di estati che non so nemmeno identificare, presumo fra il 2010 e il 2013, mi sono messo a tracciare disegni con matite colorate, pongo e pennarelli, che fossero fedeli a un’ispirazione elementare, a un tratto che partisse dai meandri dell’inconscio o, più semplicemente, della fantasia, a colori primari e rozzamente spalmati sulla carta, al rifiuto di una adeguazione ai cliché del bello o sinuoso come ce lo propinano media e advertisement, quasi a recuperare una condizione originaria e primitiva di spontaneità e immediatezza che non voleva filtri, convenzioni, cliché, ma semplicità e verità ontologica. Ho così evitato elaborazione, in qualche caso anche colore, del tutto sfumatura e complessità, a favore di viscere, ingenuità, sprovvedutezza e rischio estetico. L’obiettivo del divertissement era, ancora una volta, il mio “ritorno al futuro”, un viaggio à rebours nel mythos fondativo della mia infanzia e di un mondo paleo pop, che è quello del Paul Anka che apre queste riflessioni. Di esso fan parte Rita Pavone e la “diva anni ‘60”, Johnny Hallyday e il clown della copertina di “Addio mondo crudele”, San Francesco che parla col lupo, ma anche Pinocchio e la Fata, l’albero di Natale e Diabolik, Milva e un Cristo pop, Santa Rita da Cascia e Garko… in una sorta di fessura temporale ove tutto è sinottico e innocente, sacro e profano, profondo e lieve.

Come lo è stata la mia infanzia.

C. Sottocornola, Hallyday Pink, ispirato a Johnny Hallyday

C. Sottocornola, Hallyday Pink

Forse mi hanno aiutato in questa libertà espressiva i corsi di pittura che tenevo, da studente universitario, ai bambini delle colonie elioterapiche del Comune di Bergamo, seguendo il metodo totalmente creativo e anarchico di Arno Stern. Forse una lunga educazione visiva che risale agli anni della scuola elementare quando, leggendo avidamente tutta la letteratura per ragazzi, mi appassionavo alle immagini che la commentavano, come quelle della grande illustratrice Carla Ruffinelli, che mi colpirono nel cuore. E comunque, sempre, mi ha sostenuto un’idea che informa radicalmente la mia estetica: nell’ambito della bellezza, adeguarsi a una legge significa infrangerne il senso profondo. E a me, che canto, le seguenti parole, attribuite alla grande attrice e cantante americana Julie London, sono risultate illuminanti per ogni ambito espressivo: “I’m sure any vocal teacher that listens to me would rather cut my throat than do anything – I do everything all wrong – but I think for me that’s the best – because I don’t think I have a voice so I think what I project would be style – if I learned to sing I’d lose my style” (“Sono sicura che qualsiasi vocal coach che mi ascoltasse preferirebbe tagliarmi la gola che intervenire – faccio ogni cosa nel modo sbagliato – ma penso che per me quello è il meglio – dato che non penso di avere una voce, penso che devo progettare uno stile – se imparassi a cantare perderei il mio stile”).

Ecco, vorrei che queste immagini primitive e caotiche che volentieri dono ai miei lettori fossero anche per loro una splendida occasione regressiva, ove il libero gioco delle nostre facoltà, come voleva Kant nell’esperienza estetica, si incontrasse con il libero gioco dell’infanzia, forse la più alta esperienza d’arte che ciascuno di noi ha mai vissuto, e che tale incontro di libertà contribuisse a generare nuove occasioni di futuro, di felicità e di vita.

C. Sottocornola, Garko

C. Sottocornola, Garko

 

(tratto da Claudio Sottocornola, Saggi Pop/ Intro Pop Ideas, Marna 2018)

http://www.claudiosottocornola-claude.com/wordpress/popideas