Durante la lettura della raccolta delle poesie di Giuseppe Carlo Airaghi mi ha illuminato una frase di Simone Weil: «A pochissimi spiriti a dato scoprire che le cose e gli esseri esistono». A prima vista non si riesce a comprenderne la profondità, perché pare assurdo; se invece ci riflettiamo, concludiamo che la maggior parte degli esseri umani guarda ma non vede, ode ma non ascolta, percepisce ma non prova.
La cifra poetica di questi versi, nonostante l’autore si definisca «Testimone inattendibile / della bellezza del mondo, inadatto /a goderla, inadatto a cantarla» sta proprio in questo segreto: cogliere frammenti di esistente là dove difficilmente comunemente si giunge alla consapevolezza:«i lampioni si mangiano stelle»; «“Come se ci fosse la neve” dici / del silenzio che ci accoglie / scosceso, a precipizio sul mare». Quante volte di notte abbiamo sollevato lo sguardo in alto e abbiamo visto la stessa scena! Quante volte abbiamo scorto la maestà del silenzio di un paesaggio! Queste sensazioni però non sono diventate parole.
La principale dote del poeta consiste proprio nell’affondare lo sguardo nella quotidianità dell’esistenza comune: i paesaggi sono quelli della città, la vita si svolge tra giornate, stagioni, ricorrenze, notizie, personaggi, eventi minimi tra condomini, alberi, voli di uccelli, risvegli, rappresentati talvolta con il fascino di Guido Gozzano: «Ai marciapiedi di viale Rembrandt / non importa il fiorire dei sambuchi / ignorati, come ignorata è l’acqua delle rogge / di cui sembrano non avere sete». La luce, poi, possiede un fascino sensuale («un corpo capace di riempire orizzonti»). L’autore sente che le cose inconsciamente tendono a un loro fine (i marciapiedi «conoscono il rumore dei tacchi / che non lasciano impronte»), come pure dà voce agli ultimi che non possono pagarsi il biglietto del treno. Avverte la contraddizione tra la fragilità dei ricoverati in ospedale e la sensazione di “immortalità” dei giovani che si trovano “fuori”.
Questo sguardo gli presenta una realtà che svanisce («Il mondo visto dal treno / è una realtà visitata di spalle»), priva di autentica consistenza (un mondo «corroso, consumato, / insospettabilmente fragile»), difficile da decifrare («quale sia la consistenza vera / sospesa tra l’immanenza dei monti/ e l’evanescenza delle nubi»), nonostante la sensazione di gravità della materia («È un inverno lombardo sfinito») e della routine quotidiana («Il mattino è una rassegnazione / di fermate d’autobus e coincidenze»).
Airaghi non si presenta, però, al lettore come semplice decifratore – mansione già di per se stessa di grande valore – dell’esistente, ma si inoltra (Il poema del cammino) alle radici della problematica che lo induce a rilevare che «La somma imperfetta delle parti / porta a un totale che non basta, / i miei malgrado/ non sono in grado di dire / cosa manchi a questa mancanza».
Un tale constatazione lo induce a un’ulteriore ricerca per scoprire la montaliana “maglia rotta nella rete”, ma non vi trova che incomprensibili contraddizioni («I gabbiani immobili / sull’onda del vento / sembrano candidi aquiloni. In realtà / sono predatori da discarica, / senza scrupoli, senza vergogna »; «In quanti modi può esprimersi Maggio / e rimanere inascoltato»). La fragilità («E in questa ignoranza accettata /scaldiamo il letto in comune»), la precarietà, le antinomie, la difficoltà di comprensione («a questa infinitesima parte percepita, / a questo parziale, risibile punto di vista / diamo il nome di realtà») sembrano governare il ritmo del tempo e dello spazio, degli eventi e del flusso interiore («questo nido di paglia, / questo riparo di vento / che parrebbe non temere la notte»).
Giunto a questo punto del viaggio («In questa apparenza avanziamo»), l’io lirico, come homo viator («mi infilerò nella pretesa ottusa / di conoscere le risposte necessarie») rivolge l’attenzione a se stesso e vi coglie identica situazione: contraddizione («Perdermi o ritrovarmi / sono la medesima cosa»), precarietà («Il senso del precario è diventato sopportabile»), necessità di adattarsi al compromesso per sopravvivere («Tutta la verità non si può dire, / se si vuole sottrarsi al dolore»), paura di essere definito «tentativo velleitario», straniamento («Cantare canzoni / come fossero cantate da altre voci»), limite («di chi, / come me, / per l’ennesima volta, / ha lasciato a casa l’ombrello»), ma anche barlume di speranza («nella cocciuta pretesa di rifiorire / a ogni nuova cocciuta primavera»). Non basta l’immaginazione («un altrove da immaginare oltre le alte siepi»), non bastano i ricordi («In ogni oggetto inanimato, in ogni corpo / dormiente sono deposti ricordi in attesa / di vibrare allo sfioro che li convoca»), non basta neppure una sorte di rassegnata sconfitta «Agli altri non resta / che rassegnarsi a convivere / con le cicatrici, / con le piante infestanti nell’orto / sul retro della casa..») ad aprire una vita di salvezza o di senso.
Uguali caratteristiche si trovano nella rappresentazione della società contemporanea, a partire dai falsi valori che proclama («Non resta che diventare ricchi o accontentarsi, tra gli applausi, / delle briciole cadute dalla tovaglia» dopo inutili tentativi di «puntare sul tavolo l’asse di denari / necessario a raddrizzare la partita»), alla storia (25 Aprile), alla difficoltà di relazione tra le persone («C’è sempre un eccetera in fondo alle parole / a evitare il punto a capo»), al mondo dell’informazione («Le menzogne hanno ottime ragioni / per conformare i fatti alle teorie»).
Tra i diversi temi trattati particolare rilievo assume la riflessione sulla morte, che viene colta secondo due fondamentali modalità: il primo in rapporto alla continuazione della vita («Ritorneremo a un amore privo di rimorso, / a fischiettare cucinando il sugo»), pur all’interno di capitali domande di senso («con parole semplici / che colpiscono a morte il bersaglio / mentre stappiamo un’altra bottiglia di vino»); il secondo nel rapporto con l’Assoluto, sempre aperto, sempre combattuto, mai appagato da risposte o da ragionamenti («A occhi aperti ogni mattina domandarsi / se le preghiere dei sopravvissuti / siano state esaudite oppure ignorate»).
Il poeta, pertanto, non esita ad affrontare, pur nella quotidianità, tematiche assai complesse, nelle quali getta un fascio di luce senza giungere a conclusioni, senza indulgere a facili moralismi, senza pretendere di aver scorto la verità.
“Homo viator” lo abbiamo definito ed egli ne è consapevole al punto da dichiarare: «Camminare e camminare ancora / è l’unico modo che ancora mi resta / per dichiararmi ancora vivo», perché la vita non è programmabile («Ogni accadimento di questa mattina / sarà quindi un imprevisto calcolato) e quindi racchiusa o racchiudibile in formule o in algoritmi. Sempre aperto alla scoperta («Nuovo Adamo: Voglio oggi imparare i nomi degli alberi, /dei fiori al ciglio della strada, dei venti»), traccia un provvisorio bilancio delle proprie scelte di vita e dei risultati in modo contraddittorio come contraddittoria da lui è stata trovata la realtà («al ragazzo che sono stato / non sarebbe piaciuto l’adulto che sono»; «Malgrado le reticenze il sole splende / sopra qualsiasi tumulto del cuore, / sopra i transiti passeggeri delle nubi»).
Come si deduce da queste considerazioni la raccolta, strutturata in sei sezioni, presenta notevole compattezza di struttura e di ispirazione, sorretta da uno stile personale dall’andamento desultorio. Lo stesso “fare poesia” è affrontato con il medesimo registro “umile”, preciso, puntuale, mai didattico o ragionativo, come pure mai disadorno, dal sapore quotidiano («Sul bordo del canto si affacciano parole / simili al pane sulla tavola»), perché «le muse sono franate dai loro piedistalli». Si avverte un tono confidenziale che fa risaltare la preziosità delle scoperte condivise: «parole di circostanza che chiudano il periodo / dentro il recinto del proprio punto e a capo». E questo rivela che si tratta di una scelta consapevole e meditata.
Il titolo, La somma imperfetta delle parti, apre il campo a considerazioni di carattere filosofico e costituisce un e vero e proprio richiamo all’umiltà di fronte agli odierni risultati portentosi della scienza, della tecnica e della comunicazione. Airaghi riprende in chiave contemporanea alcuni tratti del primo Decadentismo che sorse da un moto di sfiducia nella ragione come strumento di indagine del reale. Secondo il poeta, infatti, l’intelletto non solo non viene più ritenuto in grado di cogliere il noumeno, la cosa-in-sé, ma viene anche considerato responsabile di produrre l’illusione della conoscenza, con la conseguenza di distogliere dalla ricerca di una verità più profonda e di rendere paghi delle apparenze. Al di là degli schemi concettuali sta il mistero della vita che nessuno schema razionale può inquadrare.
Questo, a mio parere, costituisce il messaggio fondamentale di questa raccolta poetica.
(prefazione alla raccolta poetica di Giuseppe Carlo Airaghi La somma imperfetta delle parti, Giuliano Ladolfi editore 2021)