ISABELLA BIGNOZZI
È una poesia composta e sgombra, un posare chiaro, conseguito per sottrazione quello che Grazia Frisina ci dona in Pietra su Pietra, raccolta di liriche uscita per Transeuropa, nella collana Nuova poetica.
Una silloge misurata, in cui la voce che s’inoltra tra le pagine dichiara il proprio verseggiare «con scrupolo d’essere / inciampo sempre», ma che gode invece della risolutezza delle cose minute e trasparenti, e si fa mediatrice di forme e presenze, cenni e avvisi vibranti da remoti anelli di cielo.
Sul limine di un’intuizione purissima e quieta, i versi s’aggregano tersi, ariosi, in composti di lemmi e cadenze che della malinconia del vivere fanno incanto.
Una poesia che, levatasi dal tempo e dalle cose, s’accende, si rivela a ritroso, in un’astensione serbata, dipinta, e la cui misura dilaga in luminosa pienezza.
Le parole di Frisina, nel garbo di certi passi, sono visitate da un soffio mistico, che depone il suo annuncio nelle epigrafi, nei citati testi biblici, nelle ispirate contemplazioni, nei vocaboli che lambiscono di carezze impercettibili scenari silenziosi.
Da stanze spoglie, di francescana lucentezza, s’innalza un’accorata indagine – il mistero del creato, la dialettica tra corporeità e ascesi, la presenza in spirito delle anime trapassate, la tenera afflizione della memoria – che elude però ogni sconforto, mentre le cesure tra anima contemplativa e creatura calata nel mondo sono ricomposte in un pacato risorgere e stare eretti, con la statura del filo d’erba, «obelisco innalzato alla mitezza», che della rugiada porta il peso e l’alimento, insieme.
Da Pietra su pietra (Transeuropa 2021)
Senza furia di mondo
percorre geometrie inesplicabili
il nostro darsi all’abbandono
Mistero è quell’alito incustodito
che non ha definizione
e spazia nel calore d’una
levigata gestazione
Dal tempo reciso
***
E vedersi come alle vette
su impeti rocciosi
Là dove alita il ginepro
dove l’aquila s’infigge
nel brivido del baratro
con l’ebbrezza sua vasta
d’ali e i fulmini mordono
fossili in cripte in perpetuo
d’echi –
là si dirada il pensiero
Là dove persino i peccati
o le piaghe non avrebbero
rimbombo –
traversando gli angeli
là su o in cielo
sfacendosi
***
Migrano
in stormo
oche selvatiche
sulla stessa mia latitudine
C’è un profondo lago
sotto le palpebre
Qui sostano
Qui annidano
Tutt’attorno la salciaia
come d’un orante la litania
bassissima
***
Viene e siede
tenue umore
d’autunno – qui
a lato stupisce
(e sia – foss’anche
per mero artificio d’ingegno)
amoroso sospendermi
nella limpidezza – ove
una perfezione
fermenta – ma
inconsapevolmente
***
E più su
nell’alta vertigine – tutt’un
palio di grecali
d’uccelli sbandieramenti
un colmo presente
che a noi brevemente
si dà
***
Smettermi
da questo blindato sudario
con l’audacia della malva
che tra i sassi si drizza
pur coi petali indolenziti
risorge
nel gaio corteggiamento
con la pioggia e col vento
Così vorrei
più invaghita io
unirmi
alla vita che vive
***
L’inquadratura
questa
senza iperboli – la sola
accolta nell’occhio –
un occidente da cui svasano
sprazzi snellissimi di meraviglie
A brevi boccate
m’assorbe un cambiamento
di cosa desiderabile non ragionata
***
Ci suona dentro
la memoria d’un borgo
spopolato
l’istante salvato e racchiuso
nel rosso afono della felce
composta fra due pagine d’un libro
Ci respira
col profumo schivo d’un sentiero
spremuto ora in questo bacio