GIANNINO BALBIS
Rime d’anima (titolo tratto da un verso della lirica Libidine di luna) è una suite di dieci poesie: una silloge breve ma assai rappresentativa dell’attuale momento del viaggio poetico che Emanuela Mannino ha da tempo intrapreso e che, per certo, non finirà mai di compiere. Un viaggio interminabile quanto necessario, perché la poesia è per la Mannino, appunto, il suono del flauto dell’anima (come recita un altro verso della silloge) ovvero un’armonia di fondo, una voce intacitabile del cuore, un abito dell’esistenza.
Una poesia che definirei “vulcanica”, per riassumere in una parola la sua profonda autenticità e la forza eruttiva della sua espressione. I suoi versi procedono per fiotti di emozioni, di visioni radicate nell’inconscio, per flussi improvvisi ed istintive emersioni: una lava incandescente che spontaneamente riaffiora e a poco a poco si solidifica scorrendo sul declivio della coscienza, un magma di sentimenti in continua elaborazione, speranze, miraggi, panorami interni e panorami esterni.
È naturale, in versi siffatti, il pullulare di metafore, analogie, sinestesie, simboli (libidine di luna, primavera che nasce sulla pelle, rime… baciate dagli occhi, parole come alabastro svelato, risacche del cuore, eco d’altare, monofonia di luce, mondo che finisce in altri sbadigli ecc.), con un’arditezza di immagini e di architettura delle immagini degna del miglior simbolismo otto-novecentesco. Ed è naturale, allora, il ricorso ad una sintassi sì largamente paratattica, ma produttrice non di giustapposizioni inerti bensì di una sorta di spirale centripeta che attrae e risucchia il lettore: qualcosa che assomiglia ad un motore a curvatura spazio-temporale, in virtù del quale passato, presente e futuro si fondono e si proiettano in un buco bianco sovratemporale. Ed è quindi naturale, anche, l’adozione di una metrica rigorosamente “interiore”, dove hanno potere assoluto i ritmi del cuore, non quelli dei metri canonici, che, sebbene non del tutto ignorati, non sono mai assunti passivamente ma sempre piegati alle esigenze del dettato intimo.
Anche i temi della poesia della Mannino si snodano lungo i versanti tematici dell’io e del mondo, tradizionali territori di caccia di ogni forma di narrazione degna di questo nome, artistica e non artistica. Ma, per così dire, guidati e tenuti insieme da un personalissimo macrotema, che fa da fil rouge e nello stesso tempo da temperatura d’ambiente: il macrotema dell’amore. Che è tutto fuorché amore banalmente e comunemente inteso. Si tratta piuttosto di una forma di erotismo che discende da Platone, attraversa il neoplatonico binomio microcosmo-macrocosmo, si colora di panteismo ed approda ad una concezione del rapporto soggetto-oggetto affine al circolo ermeneutico di Gadamer. Con questo atteggiamento “erotico” l’io scruta se stesso e scruta il mondo dell’oggettività (si tratti di natura o di società, di piano degli avvenimenti personali o di piano degli avvenimenti storici), riconoscendo e interrogando, processando e ricostruendo continuamente se stesso nel mondo e il mondo in se stesso, in una interminabile sfida di ricerca di senso, di perché, di scopo finale. L’io indaga se stesso e il mondo e, nello stesso tempo, il mondo indaga se stesso attraverso l’io, perché l’io è quella parte di mondo di cui il mondo ha bisogno per darsi un significato. E poiché non c’è via più sicura al significato che quella della parola, ecco la poesia, la forma più alta raggiunta dalla parola nella storia dell’umanità. Ed ecco la poesia circolarmente ermeneutica di Emanuela Mannino.
QUI le liriche di Emanuela Mannino