C’è sempre qualcosa nell’aria che mi avverte dell’arrivo di una nuova stagione: aliti impalpabili che riportano alla mente immagini di stagioni ormai lontane.
Sono appena uscita dalla Standa; a poche decine di metri, oltre il parcheggio, c’è la vecchia stazione di Breo, con il bar e il distributore, ma dietro, al di là di una rete sfondata, restano ancora i binari della vecchia ferrovia di Bastia. Partono da quella terra di nessuno e si snodano incerti e carichi di rovi per la campagna, tra caselli in rovina, ombrosi pendii e il buio odoroso di tufo delle gallerie, forse in attesa di un treno fantasma.
E lì, su quell’incerto confine tra l’oggi e i ricordi, vicino alla ruggine della rete, carica di edera e convolvoli, una fila di tigli… è forse l’intenso odore dei loro fiori a riportarmi in mente un lontano mattino dell’estate del ’39.
Avevamo appena terminato l’esame di Maturità. Quel mattino aspettavamo il treno per Bastia e questo ad un tratto si materializzò nel muso polveroso di una “littorina”.
Di quel giorno, mi resta vivo l’odore: era quello del sabato, del mercato che si teneva poco distante sotto le due tettoie appena al di là dell’Ellero. E tutto sapeva di Ellero, di frescura che saliva dai gorghi ed agitava i tendoni del mercato da un lato, o la biancheria stesa ad asciugare dall’altro, dove mi trovo ora, a quei tempi occupato solo dalla stazione, da alcune case e dai prati.
Amos Rubik era entrato nella nostra classe a metà di quell’ultimo anno, arrivando da Trieste, forse, o da qualche altra terra di confine dove a ben pochi la Storia ha permesso di metter salde radici. Subito avevo letto il suo triste destino. Negli occhi glielo avevo letto, nello sguardo triste, inafferrabile, come il mio, bambina, quando un aquilone mi era sfuggito di mano. Ricordo il pugno ancora chiuso a serrare il nulla, e le lacrime che mi erano scese sul vestito di percalle rosa, e quel dolore, questo sì lancinante e profondo, delle cose perdute per sempre.
Amos era una storia tra me e me. Una storia intimamente privata. In apparenza, per quanto la sua comparsa sulla scena fosse stata tardiva, e pure saltuaria, si era inserito discretamente tra i ragazzi della classe. Ma io lo guardavo da lontano per non afferrare il suo filo, perché già conoscevo il dolore di quando questo mi sarebbe sfuggito di mano.
Ad alimentare il mio interesse era forse il fatto che la sua vita restasse a me, ma pure agli altri, credo, del tutto sconosciuta o quasi; un enigma ciò che gli potesse passare nella mente, al contrario dei miei compagni, per lo più nati e cresciuti nella mia stessa città di cui a volte mi pareva persino di prevenire parole e risposte. Loro erano la consuetudine, il luogo comune, l’indicativo presente e futuro, l’ovvio, come tutto allora era: luminoso, senza punti d’ombra, saldo e sicuro come i manifesti di propaganda. Amos n’era l’esatto contrario…
Ma le spiegazioni della ragione sono nulla in confronto a quello che si dibatte dentro di noi.
Quel mattino, su quel treno, credevo ormai di averlo perso per sempre, che già avesse ripreso il suo triste volo senza ritorno, ed io mi ero ormai rassegnata, quasi con un certo sollievo. Restava la gita in treno, il pranzo in trattoria, i discorsi e gli scherzi dei compagni dai quali, come sempre, mi sarei sentita un po’ esclusa.
Ma ecco che, all’ultimo momento, quando il treno già aveva dato il primo scossone, l’avevo visto entrare ed unirsi a noi, ed allora nel mio animo aveva di nuovo fatto irruzione quel turbinio di pensieri ed emozioni, simili, ormai, ad un temporale estivo.
L’avevo guardato così poche volte che la mia immaginazione a poco a poco l’aveva trasfigurato ed ora, che l’avevo di fronte, mi pareva uno sconosciuto, anche se sempre era stato familiare alle mie fantasie. Era l’unico a non essere vestito a festa. E qui la memoria si fa fotografia, e pure a colori, in un’epoca ancora dominata dal bianco e nero. Ricordo la maglietta a polo di cotone lavorato a costine di un azzurro sbiadito che odorava di sapone e di stufa a legna, e un paio di pantaloni di fustagno nocciola tenuti su da una sottile cintura di pelle nera. Ai piedi un paio di vecchi sandali dal colore ormai incerto. Se ne stava appoggiato alla porta che chiudeva il passaggio tra le due carrozze, più alto e magro di tutti gli altri, il viso affilato, triste.
Tirò fuori da una custodia polverosa un vecchio flauto e si mise a suonare. Ricordo ancora le braccia magre e i gomiti ossuti che muoveva accompagnando il suono dello strumento. Il viso, però, non sarei in grado di dipingerlo: c’era qualcosa di sfuggente impossibile da immortalare; di lui neppure è rimasta un foto.
Di lui nulla è restato. Ad una nostra insegnante del Ginnasio che ha condiviso il suo stesso tragico destino, almeno è stato concesso il lusso della memoria: una lapide, nel silenzioso ed ombroso cimitero israelitico. Una foto triste anch’essa (o forse tale la definiamo dopo averne conosciuto la storia?), una data di nascita, e un “deportata e morta a Buchenwald nel ’44 “.
No, di lui nulla: come l’aquilone strappato dal vento alle mie mani e scomparso nell’azzurro di un cielo di primavera. Della terza Liceo di allora non c’è più stato tentativo di ritrovo, forse perché nessuno ha avuto il coraggio di raccogliere le foglie sparse dalla grande bufera della guerra.
Mai più ho incontrato un ragazzo che gli assomigliasse. Ma il mondo da cui veniva, pur non riuscendo a dirlo nato in una città precisa, è stato cancellato per sempre.
Il treno correva in un paesaggio di crete e di fossati. Qua e là sperdute cascine e, a destra, oltre l’Ellero, Carassone, chiara nel sole estivo, con le colline di Garzegna, nitide come in un dipinto di Piero della Francesca. Poi apparve il Tanaro, pieno di ombre invitanti, di pesci e di navigli. Sopra il Tanaro, le colline di Langa, con i paesi, i castelli e le vigne sospese in un chiaro e disteso mezzogiorno.
E anche questo paesaggio solare di colline mi collega con struggimento a quel giorno, che per me altro non è che il giorno dell’addio. Guardo quelle crete, le vecchie cascine, le forre ormai inselvatichite, e penso al tempo che è trascorso, all’acqua che è passata sotto i ponti. Acqua che in certi momenti ha travolto esistenze e ricordi. Ed io ancora penso ai treni che sono passati; l’odore delle scarpate inselvatichite penetra dentro fino a far male, intravedo i caselli collassati sotto il peso dei rovi, immagino i buchi neri delle gallerie, muti testimoni di viaggi senza ritorno.
Più nulla ricordo di quel pranzo, se non l’odore di pietanze e di toscano della vecchia Trattoria della Stazione, e quegli specchi con la scritta della China Martini che inclinati raccoglievano un frammento di pavimento a piastrelle bicolori. Da qualche parte, in una vecchia scatola di biscotti, devo avere la “Lista del Pranzo di fine Liceo“, ma ora l’arrivo del temporale porta i miei ricordi già fuori dalla trattoria, oltre il paese, giù per i prati, all’arrivo di un altro temporale estivo.
E allora era stato un correre nell’erba appena tagliata o ancora alta, dove fino a poco prima si era indugiato in sogni che già sapevano di miele. Il vento strappava la lanugine dai pioppi, come ora, faceva volare turbini odorosi di fieno; un lampo simile ad un flash, un tuono che squassa la terra. Le campane delle chiese dei paesi suonavano ormai a distesa come ai tempi delle scorrerie dei Saraceni e le anziane contadine già correvano ad implorare il prete che uscisse con il Santissimo. Gli altri cercavano di salvare il salvabile, radunando in fretta il fieno dentro grandi teloni che issavano sui carri o si trascinavano dietro con la forza della disperazione, i pastori incitavano il bestiame verso la stalla e chiamavano i cani a raccolta. Il fragore dei tuoni si accompagnava al muggito delle bestie terrorizzate, all’abbaiare dei cani, alle grida concitate degli uomini. E il nero era così scuro da far risaltare il ruggine ormai spento della gramigna e il giallo dei ranuncoli nei prati, ormai veri mari in tempesta.
Lontano, verso il destino del Tanaro, restavano ancora delle colline baciate dal sole, quasi immagini di un paradiso che presto sarebbe andato perduto.
In pochi c’eravamo trovati sullo stesso treno preso il mattino, con il vestito della festa spiegazzato dal vento e punteggiato di pioggia, le scarpette di vernice sporche di terra, un tacco rotto, una calza smagliata, delle risa che parevano perdersi nel vento come un gioco interrotto sul limitare dell’estate, e che si credeva destinato a riprendere poco dopo. Una sferza di grandine contro il vetro fuligginoso della carrozza, l’odore quasi sulfureo del temporale con uno svolazzare polveroso e già bagnato da un finestrino mal chiuso.
Ora il treno marciava nella gran tempesta e noi pochi parevamo gli unici scampati, mentre i lampi solcavano il cielo. Una tempesta che sembrava non aver più un dopo. Ed intanto mi chiedevo dove fosse lui, Amos, già certa che non l’avrei più rivisto.
(Un altro racconto di Manuela Zanotti si può leggere qui)