DINA TORTOROLI «Il Manzoni si fece ritrattare a 21 anni a Parigi, coi capelli scarmigliati, gli occhi volti al cielo. “In quel tempo, – diceva egli sorridendo –, era nell’età nella quale quando si fa fare il ritratto, si prende un atteggiamento ispirato!”» (FELICE VENOSTA, Il Manzoni / L’amico della famiglia, 1875, Parte Seconda, Aneddoti, n. 10, p. 85). La misera battutella di Alessandro Manzoni mi rincresce: la sua noncuranza nei confronti dell’arte del pittore rivela una “sorridente” insensibilità. Felice Venosta sbaglia: ha gli occhi rivolti a un’alta “meta” il garzon bellissimo, che Giulia Beccaria diceva essere Alessandro, effigiato “a Parigi da anonimo pittore inglese” (nel 1805), mentre Manzoni ha i capelli scarmigliati nella miniatura, eseguita a Parigi (nel 1808), a due mesi dalle nozze con Enrichetta Blondel. Nessun neuroscienziato – che io sappia – ha mai preso in considerazione questo caso di disfunzione dell’ippocampo (ormai considerato universalmente come sede della memoria), nel trasformare la “memoria a breve termine” in “memoria a lungo termine”, ma, considerando che una corrente di pensiero attribuisce a questa regione del cervello anche un ruolo di responsabile delle emozioni, si potrebbe ipotizzare che Venosta avesse visto il quadro e la miniatura in differenti circostanze, ma in entrambe le situazioni “non con occhi attenti”, vale a dire senza immedesimazione emotiva, quindi prestando quel poco di curiosità che permette a malapena di immagazzinare le immagini sorprendenti. Archiviata in un secondo momento, la figura del giovane coi capelli scarmigliati si era dunque sovrapposta a quella del ragazzo che ha gli occhi volti al cielo, per l’insolito particolare comune del grande colletto aperto della camicia, tanto più che l’osservatore dava per scontato che in entrambi i casi il giovane nel ritratto fosse Alessandro Manzoni. Su di me, invece, il quadro esercitò – al primo incontro – il potere di attrazione delle opere d’arte: “un potere, che rapisce ed incanta” (Mengs), e suscitò un vortice di interrogativi. Dovevo tranquillamente accettare l’anonimìa di un Artista capace di perfezione? Credere che fosse un Inglese talmente eccentrico da avere eseguito con accuratezza, abilità, amore questa sola opera, per far cosa gradita a un’Italiana che casualmente lo aveva contattato? Dovevo credere che Giulia Beccaria volesse rimirare il figlio (travestito da collegiale) anche su una tela, proprio quando, a Parigi, dopo quattordici anni di lontananza, lo aveva accanto – idolatrante – , per sé sola, in ogni momento della giornata? Quale “disgrazia” aveva poi reso il quadro in gran parte illeggibile? E perché nessuno aveva pensato di ricorrere a un rimedio? Le mie perplessità erano per giunta accresciute da ciò che i miei occhi vedevano: capelli inanellati, con scriminatura a destra, non crespi con scriminatura a sinistra (come ha Alessandro, in tutti i ritratti), e iridi di colore marrone, mentre io ricordavo che la seconda moglie del Manzoni, nella sezione “Colori”, in calce all’elenco dei membi della famiglia Manzoni, aveva scritto: “Alessandro – Capelli castagno scuro – occhi verdi” (Una testimone schietta ed esaustiva, Teresa Borri Stampa, che di “Beccaria Giulia circa d’anni 63”, scrive: “Capelli ex rossi”!). Nella mia memoria l’immagine della miniatura mai e poi mai avrebbe potuto sovrapporsi a questo ritratto e contaminarlo neppure con un solo dettaglio. La miniatura non è attraente: la testa di Alessandro emerge da una giacca, una camicia e un cache-col che sembrano lievitargli indosso, giungendo a sfiorargli le orecchie, le mascelle e il mento, e il miniaturista ha catturato un’espressione che probabilmente caratterizzava Manzoni in quegli anni, in cui – è bene non dimenticarlo – egli era soltanto un poeta in fieri: “un giovane di belle speranze” (Bezzola) che Gaspare Orelli giudicava timido. E lo era a un punto tale che uno zio di Enrichetta, come già sappiamo, ne deplorava l’incapacità persino di presentarsi, nonostante fosse uno studioso. In effetti, lo si può immaginare proprio in questo stesso atteggiamento: una mano a sorreggere la testa e lo sguardo fisso verso il basso (di chi “cerca riparo”), anche quando confidava a Pagani: «Ho vergogna di dirti che dopo i versi stampati non ne ho fatto più uno: ora però voglio mettermi il capo fra le mani e lavorare» (Carteggio I, p. 60, lettera del 14 settembre 1806). Il volume antico, rilegato in pelle – chiara allusione alla sua considerevole attività intellettuale –, su cui lui appoggia pesantemente il gomito destro e la mano , non gli aveva trasmesso idee produttive, dato che, a ventitrè anni, pareva ancora ermetico, perplesso. Pertanto, a me sembra che la miniatura non solo costituisca una prova del malaugurato tentativo di Giulia Beccaria di far combaciare due personalità molto diverse, ma faccia emergere lo stato d’animo che sfociò nella ribellione del Manzoni: il “reato aberrante” – aberratio ictus plurilesiva –, ingiustamente definito damnatio memoriae dell’Imbonati. Non voglio davvero atteggiarmi a giudice, ma cercare di capire è doveroso; e non è difficile credere che Manzoni, con l’andar degli anni, fosse esasperato dalla sua inadeguatezza rispetto a colui di cui inizialmente aveva “quasi a culto” contemplato l’immagine. Ma quale immagine? Si vocifera di un quadro scomparso non si sa in quali circostanze: uno dei tanti misteri di Casa Manzoni. Però, nei Versi in morte di Carlo Imbonati, Manzoni ha descritto quel volto con parole che interpretano fedelmente la fisionomia del collegiale “ispirato”. È un giovane seduttivo tanto quanto lo stile di colui che lo aveva ritratto. In perfetta sintonia col personaggio, quell’artista aveva dato prova di avere imparato «da Raffaello il gusto dell’espressione, da Correggio quello del piacevole e dell’armonia, e da Tiziano il gusto della verità, ossia il colorito», come raccomanda Antonio Raffaello Mengs, nel testo intitolato Riflessioni su la Bellezza e sul Gusto della Pittura. Dice “l’autore a chi legge”: «Questo Trattato venne scritto da principio unicamente per me stesso, e coll’unico desiderio di ritrovare delle utili verità. […] Rileggendolo, mi parve […] che queste verità potrebbero essere utili a molti; onde su tale riflesso, e colle persuasioni dell’amico Winckelmann, a cui l’ho dedicato, m’indussi finalmente a darlo alle stampe. […] Esorto gli Studenti di Pittura se leggeranno questo Trattato, di farlo con somma attenzione, e di essere persuasi che pel ragionamento, e per la strada, che ivi troveranno indicata, io sono arrivato nell’Arte della Pittura ad un grado più alto di quello di molti miei contemporanei; e che quest’Opera è un dono fatto ad essi dalla mia buona volontà». Io avevo tenacemente consultato quel tattato e tutte le altre carte di Mengs, avendo saputo che il celebre pittore tedesco aveva segnalato, per primo, nel 1774, l’eccezionalità degli affreschi del Correggio, nel convento di San Paolo, a Parma. Amavo quella misteriosa creazione di Antonio Allegri da Correggio, dal giorno in cui, a diciassette anni, avevo avuto il privilegio di incontrarla; speravo quindi di trovare nelle pagine di Mengs analisi illuminanti. Purtroppo, però, la morte prematura gli aveva impedito di far conoscere la sua interpretazione della “Camera della Badessa”, e anche tutti gli altri suoi insegnamenti avrebbero potuto disperdersi, se non fosse intervenuto l’ambasciatore del Re di Spagna presso la Santa Sede, Niccola d’Azara, che di Mengs era amico e protettore. Lascio parlare lui: «Un’amicizia la più tenera, e la più pura esige da me lagrime le più sincere del pari, che il tristo, e il pietoso officio di spargere alcuni fiori sulla sua tomba. Giusta il costume del tempo basterebbe una consimile sterile dimostrazione, ma l’Ombra dell’Amico estinto mi avverte a non contentarmi di fiori, né di lagrime inutili, e a procurare di adempiere i suoi desiderj col rendere utile la sua memoria». Azara era consapevole delle difficoltà che avrebbe incontrato: «Il caos delle sue carte è tale, che non mi permette ordinarle colla sollecitudine, che si richiederebbe; e che a questa fatica si aggiunge l’altra di doverle tutte ridurre ad una lingua, poiché il Tedesco, l’Italiano, e il Castigliano sono gl’idiomi, ne’ quali Mengs scrisse promiscuamente tutte le sue composizioni»; però, consapevole della «necessità d’un libro, che insegni a vedere le cose», Azara dichiarava: «Io credo, che gli Scritti di Mengs potranno servire a questo effetto; e non sarà questo il minor de’ servigj, che quell’Uomo insigne abbia reso alle Arti». Nel 1780, un anno dopo la morte di Mengs, ecco dunque messe a punto, in due Tomi, (rispettivamente di 300 e 250 pagine) Opere di Antonio Raffaello Mengs / Primo Pittore della Maestà di Carlo III Re di Spagna ec ec ec / Pubblicate da D. Giuseppe Niccola d’Azara, / Parma / dalla Stamperia Reale. Direttore della Stamperia Reale, dal 1768, era il saluzzese Giambattista Bodoni, stampatore, disegnatore, incisore e fonditore di caratteri. D’Azara aveva scelto il più valente degli Editori. Abitando a Parma, io avevo potuto agevolmente consultare ogni volta in cui l’avevo desiderato i due preziosi tomi, presso la Biblioteca Palatina, risorta nei primi anni cinquanta dai bombardamenti dell’aprile e maggio 1944. Oggi essi sono disponibili in rete: un dono per tutti, al quale sarebbe uno sproposito rinunciare. In questo mio resoconto, io devo limitarmi a riferire le considerazioni che trovano riscontro in ciò che si vede eseguito nel quadro in cerca d’autore: «Lo spirito è la ragione del Pittore: questa ragione deve aver l’impero su la materia». «L’artista è attratto dal suo soggetto, lo studia e sceglie l’espressione facciale che soddisfa il concetto di “essenza del soggetto”». «L’uomo è il più degno oggetto dell’Arte […] Il pittore, nel fare l’immagine di un uomo si applica ad esprimere gli occhi, e tutte le parti del volto, dove risiede, per così dire, l’anima». Nella pittura si può esprimere «ogni di lui pregio»: «la sincerità nella fronte e nelle sopracciglia, la prudenza fra gli occhi, la sanità nelle guancie e la grazia e l’amorevolezza nella bocca», evitando, però, ogni «espressione violenta degli affetti», perché «una persona virtuosa deve mostrar moderazione». Basta osservare il quadro “parigino”, per constatare che il cosiddetto anonimo pittore inglese aveva fatto tesoro di questi suggerimenti del pictor philosophus Antonius Raphael Mengs proprio come se ne avesse condiviso il modo di “sentire”. Aveva ubbidito a Mengs anche nell’uso dei colori: «I colori più chiari hanno più forza de’ più oscuri […]. Essendo dunque i colori chiari i più atti per fare sensazione ne’ nostri occhi, si debbono impiegare dove si desidera, che l’occhio del Riguardante si fermi, e osservi, e senta che quella è la parte, che il pittore ha voluto indicare come principale, e la più nobile». L’anonimo ritrattista aveva dunque voluto attribuire un valore espressivo non soltanto al volto del giovane, ma anche al collo (che Mengs elenca tra “le parti più belle” del corpo dell’uomo), incorniciato dalla camicia, profondamente aperta, a mostrare la fossetta del giugulo e, a sinistra, un segmento della forcella sternale. Inoltre, il bianco insolitamente luminoso della camicia evidentemente era dovuto alla raccomandazione di Mengs: «Il bianco in pittura deve tingersi un poco di un colore di sole». Sono parole indimenticabili, che concludono un enunciato molto istruttivo e rivelatore: «Parleremo qui in primo luogo del bianco, e della sua ombra. Il bianco è una cosa, che non ha alcun colore, ed è perfetto lume: il nero è una perfetta tenebra senza colore. Perciò l’ombra del bianco non si deve comporre se non di nero, e bianco; poiché ciò farà i due estremi colla sua mezza tinta. Su di questo conviene riflettere, che ogni corpo illuminato riceve colore dal corpo, che lo illumina: onde il bianco in pittura deve sempre tingersi un poco di un colore di sole». La luminosità della camicia induce anche a prenderla in esame, fino a scoprire l’importanza della sua foggia inconsueta. Chi ha letto le norme del Clementino circa il divieto di usare merletti “con tutto il resto che mai potesse avere sembianza di vanità” (puntata n. 7) può persino capire che probabilmente quella camicia era proprio di “stamigna” (étamine), come consigliava padre Pisoni: un tessuto la cui trama rada aveva indotto il sarto a creare nei davanti una serie di piccole pieghe, per garantire la vestibilità e permettere una sobria eleganza, nonostante il colletto troppo floscio. A questo punto, pare superfluo dire che, ai sospetti suscitati da asserzioni assurde, nella mia mente si andavano sostituendo, in progressione, ipotesi plausibili. Tutte le mie congetture, però, non furono niente di più che intuizioni e supposizioni, fino al giorno in cui rintracciai i documenti arcadici (cui ho dedicato la puntata n. 10). Seppi allora che nel collegiale idéologique poteva davvero essere identificato Carlo Imbonati, e l’artista che ne aveva celebrato l’anima non poteva essere altri che Antonio Raffaello Mengs. Mengs, infatti, apparteneva all’Arcadia: era il pastore Dinia Sipillio; e – di ritorno da Napoli, dove si era trattenuto alcuni mesi, per dipingere la famiglia reale – non aveva di certo voluto mancare all’Adunanza Generale Straordinaria del giorno 9 Aprile 1773, in cui l’Assemblea aveva accolto fra i suoi membri il suo intimo amico Niccola d’Azara, cui furono assegnate le pastorali denominazioni di Admeto Cillenio. In quello stesso giorno, gli Arcadi avevano approvato con battimento di mani, e con voci di applauso l’Arcadica Colonia Stravagante e non è azzardato credere che il cofondatore Andremone Alcioneo, Carlo Imbonati, garzon bellissimo di pregi adorno avesse attirato l’attenzione di Mengs, Pictor philosophus, dedito a una Pittura «la quale senza alcuna pena, anzi con diletto, ci deve insegnare la virtù, e farla fermentare ne’ nostri cuori». Perché avrebbe dovuto lasciasi sfuggire un Modello ideale? Proprio lui, che – come “si diceva” – si era “ispirato a un modello naturale, un bel fanciullo di Roma”, per il ritratto di Amore; e, “a detta dell’allievo Nicolas Guibal, ritrasse il frate Giuseppe (o Pietro) da Viterbo solo perché affascinato dalla bellezza della sua testa”? Queste indicazioni sono fornite dal catalogo Mengs / La scoperta del neoclassico, pubblicato a cura di Steffi Roettgen, in occasione della mostra di capolavori di Mengs, organizzata a Padova, nel Palazzo Zabarella, dal 3 marzo all’11 giugno 2001. Si tratta di un ricco catalogo che mi ha permesso di confrontare la fotografia del ritratto in questione con quelle delle opere di Mengs, e di scoprire in alcune di esse dettagli sorprendenti. Per esempio, l’orlo del mantello del frate cappuccino Giuseppe da Viterbo sembra reso, con la medesima tecnica, dalla stessa mano che ha evidenziato l’orlo del colletto della mantella del collegiale (Ill. 24). L’orlo è un particolare ritenuto importante da Mengs, infatti, nel capitolo Considerazioni su li panneggiamenti, d’Azara asserisce: «faceva vedere in qualche luogo l’orlo de’ Panneggiamenti, per denotare che le sue figure non erano vestite con sacchi». Poi, l’asola orizzontale della camicia che si intravvede nel Ritratto di Ismael Mengs, padre del pittore (Ill. 14b), rimanda a quella più marcata, ma del tutto simile, del solino del colletto della camicia del collegiale. Per brevità, dirò che sono almeno sette le opere in catalogo in cui si riscontrano attinenze col ritratto in cui ormai io “vedo” Carlo Imbonati, talentuoso e intraprendente allievo del collegio Clementino, e non l’inesperto, ambizioso Alessandro Manzoni: Giuseppe (o Pietro) da Viterbo (Ill. 24), Ritratto di Ismael Mengs (Ill. 14b), Autoritratto “en face”(Ill. 2), Amore che appunta un dardo (Ill. 38), Ritratto di Federico Cristiano, principe ereditario e principe elettore di Sassonia (Ill. 20), Ritratto allegorico di James Caulfield, lord Charlemont (Ill. 73), Perseo e Andromeda (Ill. 78). In tutti i ritratti si riscontrano sguardi seri, assorti e colli eretti, di persone affidabili e fiere. Bocca e occhi sono sempre protagonisti di rilievo e sono resi con una maestria eccezionale. La rotondità del globo oculare che sporge dalla cavità orbitale e la resa dello spessore della cornea, a mio parere, equivalgono a una firma, per più di un motivo: rimandano alle notizie fornite da Azara circa gli studi di anatomia di Mengs e al disegno delle figure geometriche «senza regola e senza compasso», cui suo padre Ismael lo aveva sottoposto «con prolissità» già a sei anni, nonché all’importanza che Mengs attribuiva all’ «arte dei lumi e delle ombre», perché «un globo senza lumi fa lo stesso effetto di un disco». Mi domando cosa potrebbe accadere se il quadro che mi sta tanto a cuore fosse esposto in una mostra dei ritratti di Mengs che ho elencato, con l’attribuzione ad “anonimo pittore inglese”. Chissa! Forse, non tarderebbe ad essere presentata una particolare “istanza di verificazione” a un giudice competente, e potrebbe essere finalmente rimossa la macchia scura con cui io credo che si sia voluto occultare l’attributo, allusivo alla vita sociale del giovane: lo stemma degli Aldobrandini, che appariva sugli scudi dei “difendenti” (puntata n. 8), che immagino inserita tra le pieghe della mantella come la stella dell’Ordine polacco dell’Aquila bianca, sul manto di Federico Cristiano, principe ereditario e principe elettore di Sassonia (Ill. 20). È innegabile: io “vedo anche quello che non c’è” e consento alle immagini di raccontare tutta una vicenda. Pertanto, ho l’impressione che non sia casuale la somiglianza della bocca di Carlo e di Amore che appunta un dardo. E il ricciolo che spunta sul collo, a destra, al clementista come al dio dell’Amore, mi pare assuma il valore di un messaggio contenutistico. Sappiamo infatti che Carlo fu inviato a Roma a causa di un dardo simile a quello che Amore sta appuntando. Di più: io riconosco la fisionomia di Carlo anche in Perseo e non riesco a impedirmi di pensare che Mengs si fosse dedicato nuovamente a quell’opera, trascurata per anni, e ne avesse rivoluzionato l’ «Invenzione», quindi il significato, avendo scoperto in Carlo il suo modello ideale. Sia Mengs sia Azara appartenevano al mondo degli appassionati d’arte, frequentatori abituali del Teatro Clementino e delle spettacolari feste che i Somaschi allestivano nel vasto cortile del collegio, quindi il pittore poteva avere apprezzato Carlo, già nel 1771, come commovente interprete di Anceo, nel dramma Il Medo e poteva averlo ammirato spesso, mentre si esibiva in esercizi di Cavallerizza. Scrive Azara, dopo aver detto che nel ’73 i medici avevano dichiarato Mengs “tisico”: «Non ostante sì deplorabile stato di salute, e una tanta prostrazione di forze ei non interruppe neppure per un giorno i suoi lavori. Terminò un Quadro di Andromeda, e Perseo incominciato anni prima, e vi fece spiccare il carattere eroico dei Greci; carattere che non può essere gustato dal volgo ignorante delle bellezze ideali». Dopo il loro incontro del 9 aprile, in Arcadia, Mengs potrebbe aver chiesto a Carlo di incarnare Perseo, trasformato in un eroe pensoso e amabile che non si rivolge più ad Andromeda, come si vede in uno studio antecedente (Ill. 79), e obbliga i «Riguardanti» a tutt’altre riflessioni. Per ricompensare il giovane modello, avrebbe poi voluto fargli dono del ritratto. Era molto generoso Mengs: Azara parla di «Un San Pietro a sedere, di grandezza naturale, donato al suo Barbiere Pietro Martinez». Dice altresì che «fece molti Ritratti di sé stesso poco men di mezza figura, che donò a’ suoi Amici, e tra gli altri a D. Bernardo de Yararte». Quando leggo – lo ammetto – io sono indotta a immaginare una realtà e a sentirmici inserita; ho, insomma, la tendenza ad agire come l’archeologo autodidatta Heinrich Schlieman alla ricerca di “antichità troiane” con la scorta dei testi omerici. Strepitosa la pagina della sua Autobiografia, alla data del 14 Agosto 1868: «Mi recai alla città di Jeni-Scheher sul promontorio del Sigeo […] Di là si gode di un’ottima vista di tutta la piana di Troia. Quando mi trovai sul tetto di una casa, con l’Iliade in mano, e osservai il panorama, mi pareva di vedere sotto di me la flotta, il campo e le assemblee dei Greci, Troia e la rocca di Pergamo sull’altura di Hissarlik, le marce e le contromarce e le battaglie delle truppe nella pianura fra la città e il campo. Per due ore feci sfilare davanti ai miei occhi i fatti principali dell’Iliade, finché l’oscurità e una gran fame mi costrinsero a scendere». Ebbene, anch’io, in occasione degli “incontri” letterari, al Centro Studi Manzoniani, di cui era Presidente l’indimenticabile e sempre più acutamente rimpianto professor Giancarlo Vigorelli, nella sala in cui campeggia il seduttivo ritratto, indugiavo a rimirarlo, sussurrando piano piano a me stessa la descrizione manzoniana del “volto né superbo né modesto” di Carlo Imbonati: «Aperta/ La fronte, e quale anco gl’ignoti affida:/ Ma ricetto parea d’alti pensieri./ Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso/ Non difficile il labbro». Alla fine dell’avventura, aggiungevo, neppure troppo sottovoce, le riflessioni dell’artista sul “produrre un buon effetto morale che è il fine della Pittura”: «L’Espressione degli affetti dell’animo è realmente ciò che dà maggior nobiltà alla Pittura». «La Pittura esige un cuor sensibile in cui s’imprimano facilmente le passioni e le virtù». «Poiché alla fine le Opere sono sempre i ritratti dell’animo dell’Artista».